Morire a vent'anni!
Pensate voi come dev'essere doloroso quando la vita se ne va così, come una
piccola cosa inutile, e le illusioni si sgretolano a poco a poco.
Assistere allo
sfacelo della propria intelligenza, morire ogni giorno un poco, essere poeta e
non credersi tale, e piangere così, tacito e solo, come un piccolo fanciullo
abbandonato, quando nel cuore dovrebbero cantare i sogni più belli... ed avere
vent'anni!
Ecco il dramma donde
scaturisce quel volumetto di "Liriche" in cui, come in nessun altro
libro, l'anima di un autore si rispecchia nitida, intera.
A voler intendere
bene il significato della poesia corazziniana bisogna premettere che essa non è
riflessa, derivata o voluta tale.
L'influsso del
decadentismo francese non ne menoma la originalità, e per quanto in alcuni
punti si riscontrino affinità col Guerin, col Jammes, col Verlaine, essa resta
sempre unica nel suo genere ed ha in sé qualche cosa di tanto profondo e intimo,
che non senza scoramento si pensa alla precoce dipartita di chi l'ha scritta.
Di imitato non c'è
che la forma esteriore, qualche parte accessoria, ed anche qualche concetto di
carattere comune: gli organetti di Barberia, le corsie degli ospedali, le
nostalgie dell'impossibile si riscontrano in altri poeti, specie francesi.
Alcune liriche non
contribuiscono, o poco, all'esatta comprensione dell'anima corazziniana, tanto
sono generiche: "Invito" per esempio è un sonetto intessuto di luoghi
comunissimi, un sonettino malinconico che parla di rassegnazione, di tristezza,
di martirio, come ne parlerebbe un qualunque imitatore del "Poema paradisiaco".
Ma là dove parla il
tisico, là dove chi scrive sa che la vita gli sfugge, e lo dice con quella
rassegnazione propria ai tisici, tra uno sputo sanguigno e un colpetto di
tosse, ivi è la vena, intima significazione di questa lirica tanto bella quanto
dolorosa.
Pensate ad un
ospedale: grigio, silenzioso, dalle corsie fredde, dai letti bianchi, uguali,
monotoni, dove il sole è tanto smorto, dove la vita, ogni giorno, si sposa con
la morte.
Oppure pensate ad un
chiostro: un tetro caseggiato da cui pare esuli la vita; dietro una grata il
viso pallido d'una bianca suora, incorniciato dai candidi lini del soggòlo.
Potete pensare
inoltre ad un fanciullo, un piccolo e dolce fanciullo cui è mancata ogni
dolcezza, finanche una carezza materna e che prima di affacciarsi alla vita, si
è accostato all'amaro calice del dolore, bevendone tutti i veleni. E
"L'amaro calice" s'intitola la prima parte delle "Liriche".
Avrete, così, un
concetto approssimativo della poesia corazziniana e tanto più essa vi sembrerà
bella, quanto più penserete che le sue angosce sono vissute, che i suoi dolori
non sono inventati.
Così preparati
accostiamoci al volume, sfogliamolo con devozione, gustiamone il contenuto,
apprezziamone il valore.
"Sono perduto":
ecco l'atroce verità; il poeta conosce bene il suo male, ma ha negli occhi
tanta rassegnazione, ma ha sulle labbra un così lieve sorriso indefinibile, che
nessuno lo direbbe un tisico:
Carlo, malinconia
m'ha preso forte,
sono
perduto; così sia.
Ma quando, in
"Toblach" dopo aver cantato
Le speranze perdute,
le preghiere
vane, l’audacie
folli, i sogni infranti,
le inutili parole de
gli amanti
illusi, le
impossibili chimere,
e tutte le defunte
primavere,
gli ideali mortali, i
grandi pianti
de gli ignoti, le
anime sognanti
che hanno sete, ma
non sanno bere;
quando, dopo tutto
ciò che v'è di irraggiungibile e di perduto, Egli canta l'ospedale tetro dove
le infrante giovinezze vanno verso il tetro abisso lungo la via della speranza,
allora ci accorgiamo di trovarci di fronte ad una rara sincerità artistica,
conoscendo noi ora da quale inguaribile male fosse minata la sognante
giovinezza del poeta.
Non aveva grandi
aspirazioni, smodati desideri; un po' d'ombra, un cantuccio dove piangere
abbandonato e solo, un po' di riposo lontano dagli uomini, la nostalgia d'una
canzone morta, la malinconia d'un ricordo evocato dalle note di un organetto di
Barberia:
Cosa mi canterai tu
questa sera?
Amica, non voglio
pensare
troppo, la prima
canzone
che ricordi, antica,
non importa:
una di quelle canzoni
che non si cantano
più,
da tanto,
che non fanno più
schiuder balconi
da un secolo. Vuoi
darmi la nostalgia
d'una canzone morta?
Oppure vuol morie
perché la vita gli è inutile, e la morte indifferente; vuol morire, così, per
non saper fare altro:
Vorrei morirmi di
malinconia
vedovo d'ogni
desiderio, solo,
con l'altissimo sogno
che mi tiene.
Qualche volta il
poeta dimentica perfino d'essere tisico, e reprimendo un singhiozzo, tergendo
qualche lacrima, lancia quell'inno alla "Serenità" che è fra le cose
belle la più bella del volumetto:
Serenità, non tu mi
riconduci,
nave di sogno, a una
perduta riva?
non è forse una luce
primitiva
questa che vince
tutte le altre luci?
E colgo ancora le
margheritine
per i capelli de le
mie sorelle
e m’inebrio del sole
e de le stelle
e piango se mi
pungono le spine.
Tutto quel che fu
mio, teneramente,
mette le foglie,
mette i fiori, odora;
oh, mai tramonto si
sbiancò in aurora
più di questa soave e
più ridente.
Ma poi l'incanto
sparisce; il cielo si fa grigio, i rosai si sfogliano, il pensiero della morte
ritorna coll'insistenza d'un tarlo, ed il singhiozzo represso, ovattato,
dimenticato, erompe:
... E allora?...
perché farmi tornare?
Serenità: quiete al
mio tormento
vana, sono perduto,
ora, mi sento
morire e gli occhi
s’empiono di bare
e questo cielo non
conobbe voli
mai, questa casa non
s’aprì alla gioia,
serenità, serenità,
ch’io muoia
dunque se il cuore tu
non mi consoli,
se non valse al dolor
tua compagnia,
se il passato mi
stringe sí che in ogni
luogo ritrovo i miei
perduti sogni
pieni di una mortale
nostalgia.
Afferrato da questa
amarissima realtà il poeta non si lascia prendere più al laccio dalle illusioni,
cui seguono i facili disinganni; e nel "Piccolo libro inutile" si vota intero alla malinconia di
vecchie arie perdute, e alla sorella Morte che invoca, dolcemente, come ristoro
alla stanchezza della vita piangevole e dolorosa, trascinantesi nella tetra
corsia di un ospedale:
Elemosina triste
di vecchie arie
sperdute,
vanità di un'offerta
che nessuno
raccoglie!
Primavera di foglie
in una via diserta!
Poveri ritornelli
che passano e
ripassano
e sono come uccelli
di un cielo musicale!
Ariette d'ospedale
che ci sembra
domandino
un'eco in elemosina.
E per meglio
avvalorare e chiarire la mia asserzione, dovrei trascrivere il sonetto
"San Saba" e la bella "Ode all'ignoto viandante" in cui è
tutta la significazione della poesia corazziniana, tutta la nostalgica anima del
poeta ammalato.
La raccolta "Dal piccolo libro inutile" è la più
significativa: minuta è la vivisezione del proprio cuore, amara, per quanto
rassegnata, la confessione; è uno squarcio di autobiografia spirituale, poiché
l'io dell'autore predomina su tutto e
anzitutto, come nella "Sonata in
bianco minore" e in "Dopo".
Leggete
"Desolazione del povero poeta sentimentale"; nell'ampiezza del verso
libero piange la rinunzia alla vita, dolora l'angoscia lenta dell'anima che si
sfascia, singhiozza una tranquilla rassegnazione, una infantile ma dolorosa
dolcezza, che commuovono, come può commuovere il pianto di un bimbo che ha
perduto la mamma e nulla ha più da sperare.
E Sergio perdeva la
vita. Quello che prima poteva essere presagio ed, altrove, certezza, qui
diventa desiderio e quasi volontà di morire:
Oggi penso a morire,
io voglio morire,
solamente, perché sono stanco;
Ed è rassegnato come
un povero specchio malinconico.
E quale ingenuità in
certe espressioni così tenui che sembrano trasparenti, e quale dolcezza di
suoni, smorzati in sordina, così fiochi che sembrano echi lontani:
Questa notte ho
dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere
un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti
gli umani,
povera tenera preda
del primo venuto.
. .
. . .
. . .
. . .
. . . .
Io amo la vita
semplice delle cose.
Quante passioni vidi
sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se
ne andava.
. .
. . .
. . .
. . .
. . . .
E poi l'ultimo tarlo
roditore della sua mente, il pensiero della morte vicina, inevitabile, certa:
Oh, io sono veramente
malato!
E muoio un poco ogni
giorno.
L. GUERRIERI
(da «Il Solco», 24 febbraio 1929)
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