domenica 14 gennaio 2024

Riviste: "La Diana"

 

La Diana è il titolo di una rivista letteraria, nata a Napoli nel gennaio del 1915 grazie all’iniziativa di tre intellettuali italiani: Gherardo Marone (1891-1962), Mario Cestaro (1894-1918) e Fiorina Centi. Fu però il primo di costoro, a dirigere la rivista dalla sua comparsa, fino all’ultimo numero del marzo 1917. La Diana nacque in sordina, ma poi trovò la sua strada ed ebbe il merito di ospitare, tra le sue pagine, poeti di grande valore come Giuseppe Ungaretti, Corrado Govoni ed Arturo Onofri. La svolta decisiva avvenne a partire dal 1916: anno in cui la rivista napoletana prese definitivamente le distanze dal futurismo, schierandosi apertamente a favore della poetica neoliberista e del frammentismo. Chiudo riportando due poesie e una prosa poetica pubblicate per la prima volta sulla Diana.

 

 


 

 

FINESTRE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Case nel sole: una striscia di giallo,

di scialbo giallo, su prati nevati.

(Alberi, dietro: alti pioppi sfumati

dentro un sottile pulviscolo d'oro)

 

Lucide chiazze di cupo viola

sui tetti bianchi: la neve si sfa.

Finestre aperte; bucato a festoni;

donne affacciate... È l'inverno che va...

 

(da «La Diana», 25 maggio 1916)

 

 

 

 

MALINCONIA

di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

 

Calante tristezza per il corpo avvinto al suo destino

 

Calante notturno abbandono

di corpi a pien’anima

presi

nel silenzio vasto

che gli occhi non guardano

ma un’apprensione

di quest'orologio

ch'è il cuore

 

Abbandono dolce

di corpi

pesanti d’amaro

labbra rapprese

in tornitura di baci

lontani

voluttà di corpi

estinti d'insaziabili voglie

 

 

Mondo

giro volubile di razzi

alla spasimante passione

attonimento di mill'occhi

in una gita folle

in una gita

di pupille amorose

 

In una gita evanescente

come la vita cche se ne va

col sonno

e domani riprincipia

e se incontra la morte

dorme soltanto

più a lungo.

 

(da «La Diana», 31 luglio 1916)

 

 

 

 

LAGO DI NEMI

di Arturo Onofri (1885-1928)

 

  Lungo il sentiero che strapiomba a precipizio sul lago, andiamo uno dietro l'altro a ridosso della muraglia ove la rossa vite straniera serpeggia delicatamente i suoi rampicati ricami sanguigni.

  Lontano si vede, a picco sull'acqua di cristallo, il turchino pesto delle forre ove l'ombra come un ingorgo denso è rappresa fra le vegetazioni selvagge.

  Nel polverio delle lontananze di rosa, s'indovina ancora assopito il celeste mattutino del mare.

 

(da «La Diana», novembre-dicembre 1916)

 

domenica 7 gennaio 2024

La primavera nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Quella primaverile, tra tutte le stagioni, è certamente la più decantata e la più esaltata dai poeti di ogni tempo e di ogni luogo. Leggendo i versi dedicati a questo argomento, scritti dai decadenti e dai simbolisti della nostra penisola, si notano delle differenze piuttosto nette. A volte, la primavera viene considerata alla stessa stregua di un miracolo naturale, che comporta, in tutti gli esseri viventi, una vera e propria esplosione di energia, favorita dal clima più mite e dalla incoraggiante visione dei colori fulgenti della vegetazione; ciò fa in modo che i poeti, così come la stragrande maggioranza degli esseri umani, senta dentro di sé una forza vitale nuova, e lasci da parte tutti i sentimenti negativi che, nella stagione precedente, erano preponderanti, affliggendo l’anima e causando una specie di immobilismo. Ci sono, però, anche i poeti che, proprio quando la primavera si mostra in tutta la sua bellezza, si lasciano andare a pensieri malinconici, dovuti ad una felicità perduta e mai più ritrovata; da qui nascono, spesso, dei bei ricordi che li riguardano direttamente, quando le primavere – ormai lontane – rappresentavano qualcosa di esaltante. I mesi più citati dai poeti decadenti e simbolisti sono aprile e maggio.

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Brividi" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Nova primavera" in "Leggenda eterna" (1900).

Vittoria Aganoor: "La primavera dei dolorosi" in "Nuove liriche" (1908).

Enrico Cavacchioli: "Insonnia primaverile", "La Gioia" e "Elogio della primavera" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Carlo Chiaves: "Passa la primavera" in «La Donna», aprile 1914.

Guelfo Civinini: "Primavera di monache" in «Fantasio», 1902.

Sergio Corazzini: "Ballata della Primavera" in "Dolcezze" (1904).

Gabriele D'Annunzio: "Sogno d'una notte di primavera" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).

Luigi Donati. "La fiorita" in "Poesia di passione" (1928).

Giuliano Donati Pétteni: "Invito" in "Intimità" (1926).

Arturo Foa: "Rapimento" in "Le vie dell'anima" (1912).

Alfredo Galletti: "Voci primaverili" in "Odi ed elegie" (1903).

Diego Garoglio: "Primavera del poeta" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Luisa Giaconi: "Primavere" in "Tebaide" (1909).

Giulio Gianelli: "Convalescenza" in "Tutte le poesie" (1973).

Cosimo Giorgieri Contri: "Primavera dell'oblio" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Arturo Graf: "Sonetto di primavera" in "Le Danaidi" (1905).

Gian Pietro Lucini: "Canta la brezza vocale tra li alberi..." in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Gian Pietro Lucini: "La Primavera" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Enzo Marcellusi: "Primavere" in "Il giardino dei supplizi" (1909).

Tito Marrone: "Primavera romana" in "Liriche" (1904).

Pietro Mastri: "Presagi primaverili" in "La fronda oscillante" (1923).

Antonio Rubino: "Primavera sul mare" in «Poesia», ottobre 1908.

Emanuele Sella: "La primavera celeste" in "Il giardino delle stelle" (1907).

Domenico Tumiati: "L'aprile fuggitivo" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Primavera" in "Umana" (1916).

Giuseppe Villaroel: "Poliritmo" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 

 

Testi

 

VOCI PRIMAVERILI

di Alfredo Galletti (1872-1962)

 

Maggio, allor che pe i campi rinnovelli

di primavera il fremito sopito:

s'aprono i fior ne l'alba tua più belli,

sorride il ciel d'un suo riso infinito;

 

nel bosco, ove più densi i rami snelli

velano d'ombre il viottolo romito,

e le liquide voci de i ruscelli

a lo stanco pensier fan lieto invito,

 

dolce cosa è smarrirsi! a tratti il vento

passa tra 'l verde e su le limpid'acque

metton le fronde un palpito leggiero;

 

e a me favella ne 'l silenzio intento,

tra i fior selvaggi ove il mio canto nacque,

la tua voce, o foresta, e il tuo mistero.

 

(da "Odi ed elegie", Zanichelli, Bologna 1903, p. 76)

 

 

 

 

PRIMAVERE

di Enzo Marcellusi (1886-1962)

 

I.

Una mano poggiò candida e lieve

sul mio capo dolente: un tocco, ed una

sùbita selva ignara de la neve.

 

L'ambrosia eterna de la primavera

spirò i virgulti e imperlò la luna:

la vergine sorella della sera.

 

Ma l'agile cipresso, che al mio sguardo

esclude il mare, oblìa il buon becchino;

folgora e canta, se lo colga un dardo

di sole, come un efebo divino.

 

II.

Batte a la mia finestra il dubitante

cipresso con l'usata melodia

d'un volubile cielo asceso, Dante.

 

Signore è del giardino ed io la buona

mia volontà gli elevo, onde il cuor sia

lassù, quando di fuochi si corona.

 

Cuore, piccolo cuore, immenso cuore!

è d'uopo che tu sia pari a lo stelo

del cipresso, che suggeil buon sapore

di breve piota - il vertice nel cielo.

 

(da "Il giardino de' supplizi", Tip. di D. De Arcangelis, Atri 1909, pp. 84-85)

 

 

Arnold Böcklin, "Frühlingstag"
(da questa pagina web)

domenica 31 dicembre 2023

Elegia di fine d'anno

 

I.

Il bimbo guarda alla finestra fiocchi

taciti ch'empion turbinando l'aria,

guarda la strada bianca e solitaria

che non ha che un ombrello e due marmocchi,

 

e guarda la casina dirimpetto

ch'è agghiacciata dal vento e dalla bruma,

ma che pur nel silenzio algido fuma

con la pipa del suo comignoletto.

 

Sorride il bimbo nel suo caldo covo

ed è stupito perché i fiocchi a un tratto

d'un paesello nero e vecchio han fatto

un paesello tutto bianco e nuovo.

 

II.

Son io quel bimbo forse. Io le mie calde

guance schiaccio sul vetro intirizzito

e non rispondo al monellesco invito

della neve che cade a larghe falde.

 

Son io che guardo e penso, io che li scruto,

bella neve scolastica irreale

che vesti le vacanze di natale

col tuo candido sogno di velluto!

 

Son io che attendo sul poggiuolo antico,

quasi imitando inconscia una figura

del retorico libro di lettura,

il retorico passero mendico!

 

III.

Palle di neve turbinano fuori.

Palle di neve! In un più dolce mese

chi le chiamò col bel nome francese:

boules-de-neige? Fu in giardino: erano fiori.

 

Erano fiori; era una bella amica.

Ora sono i monelli, ora, i marmocchi.

Cade al neve a lunghe falde, a fiocchi,

a farfalline, bianca, azzurra, antica.

 

Oscilla, s'alza, s'abbatte, s'abbassa.

I vetri col mio fiato umido appanno:

scrivo col dito il giorno, il mese, l'anno

in cui son nato... Il tempo, come passa!

 

IV.

E l'anno muore, e in me qualcosa muore,

qualche piccola cosa intirizzita.

Ah, ch'io non veda più nella mia vita,

ch'io non mi svegli più dal mio stupore!

 

Ch'io veda solo nel mio sogno breve,

nel mio bel sogno immobile infecondo,

ch'io guardi appena da un pertugio il mondo

fatto più buono e nuovo nella neve!

 

E l'anno muore, soffice; e laggiù,

nel mio laggiù più fondo entro il mio cuore,

qualche altra cosa. Tutto ciò che muore

- è vecchia fola - non torna mai più.

 

    Dicembre, 1912.

 

(da «Aprutium», dicembre 1913)

 

 


 

Elegia di fine d’anno è il titolo di una poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 – ivi 1979) che fu pubblicata nella rivista Aprutium del dicembre 1913. Secondo me è una poesia molto bella; eppure, dopo questa occasione, lo scrittore romagnolo non la ripropose più nei volumi di versi che successivamente fece uscire, a partire dal 1916 (anno della raccolta Il giardino dei frutti). Nelle dodici quartine - divise in quattro capitoli - di cui si compone la poesia che ho qui sopra trascritto, riemergono diversi temi cari al poeta cesenaticense: il ricordo e il rimpianto per l’infanzia perduta; la ritrosia che sempre lo caratterizzò, qui espressa nella non partecipazione al clima di festa che domina la scena; il sentirsi morire un poco ogni giorno (sensazione accentuata dal contesto di fine anno), e infine l’immancabile malinconia che si mimetizza solo in parte, grazie ad una intelligente ironia.

domenica 24 dicembre 2023

Natale al Caffè Florian

 

Natale al caffè Florian è il titolo di una poesia di Alfonso Gatto (Salerno 1909 - Orbetello 1976). L’ho trascritta dal volume Poesie, pubblicato da Editoriale Jaca Book, a Milano nel 1997. La si può leggere anche in un altro libro che raccoglie l’ intera opera poetica di Gatto: Tutte le poesie (Mondadori, Milano 2005). Inoltre è presente nella celebre antologia Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo (Mondadori, Milano 1978); fu proprio in quest’ultimo volume che la lessi per la prima volta. Da ricordare che lo storico Caffè Florian citato nella poesia, si trova a Venezia, ed è il caffè più antico d’Italia e del mondo (fu inaugurato alla fine del 1720); il nome del locale deriva dalla dicitura dialettale del nome del primo proprietario: Floriano Francesconi. Tra i personaggi famosi che frequentarono il Caffè Florian, si ricordano Giacomo Casanova, Carlo Goldoni, Antonio Vivaldi, Giuseppe Parini, Ugo Foscolo e Gabriele D’Annunzio.

 

 

 


 

 

La nebbia rosa

e l'aria dei freddi vapori

arrugginiti con la sera,

il fischio del battello che sparve

nel largo delle campane.

Un triste davanzale,

Venezia che abbruna le rose

sul grande canale.

 

Cadute le stelle, cadute le rose

nel vento che porta il Natale.

domenica 17 dicembre 2023

La poesia di Enrico Pea

 

La poesia di Enrico Pea (Serravezza 1881 – Forte dei Marmi 1958) rappresenta un “unicum” nel panorama italiano del XX secolo, perché risulta praticamente impossibile accostarla a qualsivoglia autore o scuola che lo ha preceduto o che nasceva nello stesso periodo in cui lo scrittore toscano componeva i suoi versi. Più di qualcuno lo volle inserire tra gli intellettuali vicini alla rivista La Voce, ma a mio avviso c’è ben poca somiglianza con costoro, malgrado Pea abbia pubblicato dei versi nelle pagine della famosa rivista fiorentina. Come hanno affermato i critici più attenti, la poesia di Pea ha molto a che vedere con alcuni versi popolari o, addirittura - come egli stesso asserì -, trova una sincera e spiritualissima ispirazione dalla lettura della Bibbia (non pochi sono i riferimenti religiosi già dal primo libro del 1910). Allo stesso tempo, non errarono coloro che individuarono i legami tra i versi di Pea e la terra ove nacque; da qui la messa a fuoco di figure del popolo, amori appassionati, usanze, credenze e quant’altro fosse inerente ai luoghi dove il poeta visse la sua gioventù, prima di emigrare in Egitto, dove lavorò per anni e dove conobbe Giuseppe Ungaretti; fu costui che lo incoraggiò, facendogli vincere una certa riluttanza, a pubblicare i suoi scritti. Certo è che l’opera letteraria di Pea è fatta soprattutto di ottima prosa; la parte poetica, in quantità decisamente inferiore, fu pubblicata da Enrico Falqui nel volume Arie bifolchine (1943), e da allora, a quanto ne so, non trovò più un editore né un critico intenzionato a riproporla; tant’è che Pea, oggi, andrebbe trattato come un vero e proprio poeta dimenticato. Ecco, dopo l’elenco delle sue opere in versi, tre poesie di Enrico Pea.

 

 


 

 

Opere poetiche

 

"Fole", Industrie Grafiche, Pescara 1910.

"Montignoso", Puccini, Ancona 1912.

"Lo Spaventacchio", Edizioni de «La Voce», Firenze 1914.

"Arie bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943.

 

 

 

 

Testi

 

 

O SPERANZA, O INVISIBILE CREATURA

 

O speranza, o invisibile creatura,

tu sei come lo spirito di Dio

che vive dentro il fuoco e sta sotterra

in sepoltura senza soffocare,

che soffia nell'oceano e arruffa l'acqua:

che fa fremere gli alberi giganti.

Tu sei come lo spirito di Dio,

o mia creatura, ed io ti son l'albergo.

 

Io son l'albergo della mia creatura

che non ha bocca per maledizioni,

che non ha occhi per veder vicino.

 

Io son l'albergo della sposa

che ride poco, che non piange mai,

che si rinnova sui fianchi il grembiule,

che fa le su' faccende e non fatica,

che tesse, munge; e ammannisce la mensa

e canta il Maggio della mia Versilia.

 

Che ride poco, che non piange mai,

che canta sempre e sempre sottovoce,

che falcia il grano e falcia la pastura,

che falcia il fieno, il rusco e non si taglia;

che pota i gelsi per i suoi bechini,

ma la gonnella se la fa di tozzi;

che tiene alle finestre della casa

l'olivo secco per benedizione

e in fondo al suo cascione di castagno

i mazzetti di spigo e di lumencristi;

che vede già le lucciole nei campi,

che sta sull'uscio e guarda le Apuane

tutte inverdite dalla primavera;

che svelge i fiori gialli per il grano

e le vecce e i papaveri cappucci

per i festoni della marginetta

e infigge le candele sui rocchetti

e toglie le lumache dai lor gusci

e mura i gusci perché faccian lume:

perché facciano lume alla Regina

e lume a quelli che stanno lontano.

 

(da «La Riviera Ligure», marzo 1914)

 

 

 

 

SPOSE ILLIBATE A CRISTO, ANGELI IN CARNE

 

Spose illibate a Cristo, angeli in carne,

o voi che state sui ginocchi prone

senza soffrire, o voi che confinate

vi pascete di sogni ed obliate

i travagliati amori oltre il rosaio

arrampicato al muro del giardino:

Maggio rose fiorite ciel turchino

o dormiveglia anticipazione

di paradiso. Biancofidanzate

che avete intorno all'iride la grazia

e custodite fiori e sogni d'alba

negli orti e nelle bare sottoterra.

Voi ch'emigrate senza lasciar traccia

e senza ombra come il venticello

il cui alito appena appena appena

sfiora oggi i cipressi secolari.

 

Oggi è piovuto il bossolo è più chiaro

le foglie grasse han perduto l'amaro.

 

È piovuto sull'erba da falciare

e sulle pietre che sbavano il nero.

 

Tremano l'erbe e passano i carriaggi

seminano l'argento le lumache.

 

quel mese giallo ch'è sverginatore

ha pianto troppe stille di rugiada.

 

L'erba dei campi si muta vestito

si veste di fuoco pel nuovo marito.

 

I cipressi han le coccole mature

stentineranno la semenza rossa.

Sulle crepe del muro già l'ortica

contrasta con l'erbetta borraccina.

Un bugno lascia traboccare il miele

giù per i rami d'un rosaio nano:

Aiuto! Aiuto! ronzano le api.

 

È maggio, e sui cipressi popolati

si traffica d'amore, si fan case

senza tettoia perché il tempo è poco.

 

(da «La Voce», 30 aprile 1916)

 

 

 

 

NINNA-NANNA VERSILIESE

 

Dondolino dondolano

per tre soldi un pan di grano...

Ninna-nanna è l'ordinotte;

ninna, l'ore mattutine

scendon giù dal campanile:

sciò, sciò, via dalle campane,

spaventate dai batocchi

impazziti all'improvviso...

 

Chiara spia dalle persiane:

per la bimba tutta occhi

spunta il sole in paradiso.

 

Dondolino

dondolano

per tre soldi

un pan di grano

benedetto

dal piovano.

 

Acqua di gronda

fior di farina

tre belluccette

per la Regina.

 

Il mulino sta lontano

altro è a dire e altro è a ire:

per la guazza camminare

la gonnella inzaccherare,

scappucciar la mascherina

agli zoccoli da festa,

per andare alle molina

con un bolgio sulla testa:

un bolgio di uno staio e piue

arrivar sino lassue!

 

Altro è dire e altro è a ire,

altro è il pane benedire.

 

Dondolino dondolano

per tre soldi un pan di grano...

 

Ninna-nanna è l'ordinotte;

ninna, all'ora mattutina

s'addormenta mi' bambina.

 

(da "Arie bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943, pp. 134-136)