domenica 31 dicembre 2023

Elegia di fine d'anno

 

I.

Il bimbo guarda alla finestra fiocchi

taciti ch'empion turbinando l'aria,

guarda la strada bianca e solitaria

che non ha che un ombrello e due marmocchi,

 

e guarda la casina dirimpetto

ch'è agghiacciata dal vento e dalla bruma,

ma che pur nel silenzio algido fuma

con la pipa del suo comignoletto.

 

Sorride il bimbo nel suo caldo covo

ed è stupito perché i fiocchi a un tratto

d'un paesello nero e vecchio han fatto

un paesello tutto bianco e nuovo.

 

II.

Son io quel bimbo forse. Io le mie calde

guance schiaccio sul vetro intirizzito

e non rispondo al monellesco invito

della neve che cade a larghe falde.

 

Son io che guardo e penso, io che li scruto,

bella neve scolastica irreale

che vesti le vacanze di natale

col tuo candido sogno di velluto!

 

Son io che attendo sul poggiuolo antico,

quasi imitando inconscia una figura

del retorico libro di lettura,

il retorico passero mendico!

 

III.

Palle di neve turbinano fuori.

Palle di neve! In un più dolce mese

chi le chiamò col bel nome francese:

boules-de-neige? Fu in giardino: erano fiori.

 

Erano fiori; era una bella amica.

Ora sono i monelli, ora, i marmocchi.

Cade al neve a lunghe falde, a fiocchi,

a farfalline, bianca, azzurra, antica.

 

Oscilla, s'alza, s'abbatte, s'abbassa.

I vetri col mio fiato umido appanno:

scrivo col dito il giorno, il mese, l'anno

in cui son nato... Il tempo, come passa!

 

IV.

E l'anno muore, e in me qualcosa muore,

qualche piccola cosa intirizzita.

Ah, ch'io non veda più nella mia vita,

ch'io non mi svegli più dal mio stupore!

 

Ch'io veda solo nel mio sogno breve,

nel mio bel sogno immobile infecondo,

ch'io guardi appena da un pertugio il mondo

fatto più buono e nuovo nella neve!

 

E l'anno muore, soffice; e laggiù,

nel mio laggiù più fondo entro il mio cuore,

qualche altra cosa. Tutto ciò che muore

- è vecchia fola - non torna mai più.

 

    Dicembre, 1912.

 

(da «Aprutium», dicembre 1913)

 

 


 

Elegia di fine d’anno è il titolo di una poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 – ivi 1979) che fu pubblicata nella rivista Aprutium del dicembre 1913. Secondo me è una poesia molto bella; eppure, dopo questa occasione, lo scrittore romagnolo non la ripropose più nei volumi di versi che successivamente fece uscire, a partire dal 1916 (anno della raccolta Il giardino dei frutti). Nelle dodici quartine - divise in quattro capitoli - di cui si compone la poesia che ho qui sopra trascritto, riemergono diversi temi cari al poeta cesenaticense: il ricordo e il rimpianto per l’infanzia perduta; la ritrosia che sempre lo caratterizzò, qui espressa nella non partecipazione al clima di festa che domina la scena; il sentirsi morire un poco ogni giorno (sensazione accentuata dal contesto di fine anno), e infine l’immancabile malinconia che si mimetizza solo in parte, grazie ad una intelligente ironia.

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