La poesia di
Enrico Pea (Serravezza 1881 – Forte dei Marmi 1958) rappresenta un “unicum” nel
panorama italiano del XX secolo, perché risulta praticamente impossibile
accostarla a qualsivoglia autore o scuola che lo ha preceduto o che nasceva
nello stesso periodo in cui lo scrittore toscano componeva i suoi versi. Più di
qualcuno lo volle inserire tra gli intellettuali vicini alla rivista La Voce, ma a mio avviso c’è ben poca
somiglianza con costoro, malgrado Pea abbia pubblicato dei versi nelle pagine
della famosa rivista fiorentina. Come hanno affermato i critici più attenti, la
poesia di Pea ha molto a che vedere con alcuni versi popolari o, addirittura -
come egli stesso asserì -, trova una sincera e spiritualissima ispirazione
dalla lettura della Bibbia (non pochi
sono i riferimenti religiosi già dal primo libro del 1910). Allo stesso tempo,
non errarono coloro che individuarono i legami tra i versi di Pea e la terra
ove nacque; da qui la messa a fuoco di figure del popolo, amori appassionati,
usanze, credenze e quant’altro fosse inerente ai luoghi dove il poeta visse la
sua gioventù, prima di emigrare in Egitto, dove lavorò per anni e dove conobbe
Giuseppe Ungaretti; fu costui che lo incoraggiò, facendogli vincere una certa
riluttanza, a pubblicare i suoi scritti. Certo è che l’opera letteraria di Pea
è fatta soprattutto di ottima prosa; la parte poetica, in quantità decisamente
inferiore, fu pubblicata da Enrico Falqui nel volume Arie bifolchine (1943), e da allora, a quanto ne so, non trovò più
un editore né un critico intenzionato a riproporla; tant’è che Pea, oggi,
andrebbe trattato come un vero e proprio poeta dimenticato. Ecco, dopo l’elenco
delle sue opere in versi, tre poesie di Enrico Pea.
Opere poetiche
"Fole",
Industrie Grafiche, Pescara 1910.
"Montignoso",
Puccini, Ancona 1912.
"Lo
Spaventacchio", Edizioni de «La Voce», Firenze 1914.
"Arie
bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943.
Testi
O SPERANZA, O
INVISIBILE CREATURA
O speranza, o
invisibile creatura,
tu sei come lo
spirito di Dio
che vive dentro
il fuoco e sta sotterra
in sepoltura
senza soffocare,
che soffia
nell'oceano e arruffa l'acqua:
che fa fremere
gli alberi giganti.
Tu sei come lo
spirito di Dio,
o mia creatura,
ed io ti son l'albergo.
Io son l'albergo
della mia creatura
che non ha bocca
per maledizioni,
che non ha occhi
per veder vicino.
Io son l'albergo
della sposa
che ride poco,
che non piange mai,
che si rinnova
sui fianchi il grembiule,
che fa le su'
faccende e non fatica,
che tesse, munge;
e ammannisce la mensa
e canta il Maggio
della mia Versilia.
Che ride poco,
che non piange mai,
che canta sempre
e sempre sottovoce,
che falcia il
grano e falcia la pastura,
che falcia il
fieno, il rusco e non si taglia;
che pota i gelsi
per i suoi bechini,
ma la gonnella se
la fa di tozzi;
che tiene alle
finestre della casa
l'olivo secco per
benedizione
e in fondo al suo
cascione di castagno
i mazzetti di
spigo e di lumencristi;
che vede già le
lucciole nei campi,
che sta
sull'uscio e guarda le Apuane
tutte inverdite
dalla primavera;
che svelge i
fiori gialli per il grano
e le vecce e i
papaveri cappucci
per i festoni
della marginetta
e infigge le
candele sui rocchetti
e toglie le
lumache dai lor gusci
e mura i gusci
perché faccian lume:
perché facciano
lume alla Regina
e lume a quelli
che stanno lontano.
(da «La Riviera Ligure», marzo 1914)
SPOSE ILLIBATE A
CRISTO, ANGELI IN CARNE
Spose illibate a
Cristo, angeli in carne,
o voi che state
sui ginocchi prone
senza soffrire, o
voi che confinate
vi pascete di
sogni ed obliate
i travagliati
amori oltre il rosaio
arrampicato al
muro del giardino:
Maggio rose
fiorite ciel turchino
o dormiveglia
anticipazione
di paradiso.
Biancofidanzate
che avete intorno
all'iride la grazia
e custodite fiori
e sogni d'alba
negli orti e
nelle bare sottoterra.
Voi ch'emigrate
senza lasciar traccia
e senza ombra
come il venticello
il cui alito
appena appena appena
sfiora oggi i
cipressi secolari.
Oggi è piovuto il
bossolo è più chiaro
le foglie grasse
han perduto l'amaro.
È piovuto
sull'erba da falciare
e sulle pietre
che sbavano il nero.
Tremano l'erbe e
passano i carriaggi
seminano
l'argento le lumache.
quel mese giallo
ch'è sverginatore
ha pianto troppe
stille di rugiada.
L'erba dei campi
si muta vestito
si veste di fuoco
pel nuovo marito.
I cipressi han le
coccole mature
stentineranno la
semenza rossa.
Sulle crepe del
muro già l'ortica
contrasta con
l'erbetta borraccina.
Un bugno lascia
traboccare il miele
giù per i rami
d'un rosaio nano:
Aiuto! Aiuto!
ronzano le api.
È maggio, e sui
cipressi popolati
si traffica
d'amore, si fan case
senza tettoia
perché il tempo è poco.
(da «La Voce», 30
aprile 1916)
NINNA-NANNA
VERSILIESE
Dondolino
dondolano
per tre soldi un
pan di grano...
Ninna-nanna è
l'ordinotte;
ninna, l'ore
mattutine
scendon giù dal
campanile:
sciò, sciò, via
dalle campane,
spaventate dai
batocchi
impazziti
all'improvviso...
Chiara spia dalle
persiane:
per la bimba
tutta occhi
spunta il sole in
paradiso.
Dondolino
dondolano
per tre soldi
un pan di grano
benedetto
dal piovano.
Acqua di gronda
fior di farina
tre belluccette
per la Regina.
Il mulino sta
lontano
altro è a dire e
altro è a ire:
per la guazza
camminare
la gonnella
inzaccherare,
scappucciar la
mascherina
agli zoccoli da
festa,
per andare alle
molina
con un bolgio sulla
testa:
un bolgio di uno
staio e piue
arrivar sino
lassue!
Altro è dire e
altro è a ire,
altro è il pane
benedire.
Dondolino
dondolano
per tre soldi un
pan di grano...
Ninna-nanna è
l'ordinotte;
ninna, all'ora
mattutina
s'addormenta mi'
bambina.
(da "Arie
bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943, pp. 134-136)
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