domenica 17 dicembre 2023

La poesia di Enrico Pea

 

La poesia di Enrico Pea (Serravezza 1881 – Forte dei Marmi 1958) rappresenta un “unicum” nel panorama italiano del XX secolo, perché risulta praticamente impossibile accostarla a qualsivoglia autore o scuola che lo ha preceduto o che nasceva nello stesso periodo in cui lo scrittore toscano componeva i suoi versi. Più di qualcuno lo volle inserire tra gli intellettuali vicini alla rivista La Voce, ma a mio avviso c’è ben poca somiglianza con costoro, malgrado Pea abbia pubblicato dei versi nelle pagine della famosa rivista fiorentina. Come hanno affermato i critici più attenti, la poesia di Pea ha molto a che vedere con alcuni versi popolari o, addirittura - come egli stesso asserì -, trova una sincera e spiritualissima ispirazione dalla lettura della Bibbia (non pochi sono i riferimenti religiosi già dal primo libro del 1910). Allo stesso tempo, non errarono coloro che individuarono i legami tra i versi di Pea e la terra ove nacque; da qui la messa a fuoco di figure del popolo, amori appassionati, usanze, credenze e quant’altro fosse inerente ai luoghi dove il poeta visse la sua gioventù, prima di emigrare in Egitto, dove lavorò per anni e dove conobbe Giuseppe Ungaretti; fu costui che lo incoraggiò, facendogli vincere una certa riluttanza, a pubblicare i suoi scritti. Certo è che l’opera letteraria di Pea è fatta soprattutto di ottima prosa; la parte poetica, in quantità decisamente inferiore, fu pubblicata da Enrico Falqui nel volume Arie bifolchine (1943), e da allora, a quanto ne so, non trovò più un editore né un critico intenzionato a riproporla; tant’è che Pea, oggi, andrebbe trattato come un vero e proprio poeta dimenticato. Ecco, dopo l’elenco delle sue opere in versi, tre poesie di Enrico Pea.

 

 


 

 

Opere poetiche

 

"Fole", Industrie Grafiche, Pescara 1910.

"Montignoso", Puccini, Ancona 1912.

"Lo Spaventacchio", Edizioni de «La Voce», Firenze 1914.

"Arie bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943.

 

 

 

 

Testi

 

 

O SPERANZA, O INVISIBILE CREATURA

 

O speranza, o invisibile creatura,

tu sei come lo spirito di Dio

che vive dentro il fuoco e sta sotterra

in sepoltura senza soffocare,

che soffia nell'oceano e arruffa l'acqua:

che fa fremere gli alberi giganti.

Tu sei come lo spirito di Dio,

o mia creatura, ed io ti son l'albergo.

 

Io son l'albergo della mia creatura

che non ha bocca per maledizioni,

che non ha occhi per veder vicino.

 

Io son l'albergo della sposa

che ride poco, che non piange mai,

che si rinnova sui fianchi il grembiule,

che fa le su' faccende e non fatica,

che tesse, munge; e ammannisce la mensa

e canta il Maggio della mia Versilia.

 

Che ride poco, che non piange mai,

che canta sempre e sempre sottovoce,

che falcia il grano e falcia la pastura,

che falcia il fieno, il rusco e non si taglia;

che pota i gelsi per i suoi bechini,

ma la gonnella se la fa di tozzi;

che tiene alle finestre della casa

l'olivo secco per benedizione

e in fondo al suo cascione di castagno

i mazzetti di spigo e di lumencristi;

che vede già le lucciole nei campi,

che sta sull'uscio e guarda le Apuane

tutte inverdite dalla primavera;

che svelge i fiori gialli per il grano

e le vecce e i papaveri cappucci

per i festoni della marginetta

e infigge le candele sui rocchetti

e toglie le lumache dai lor gusci

e mura i gusci perché faccian lume:

perché facciano lume alla Regina

e lume a quelli che stanno lontano.

 

(da «La Riviera Ligure», marzo 1914)

 

 

 

 

SPOSE ILLIBATE A CRISTO, ANGELI IN CARNE

 

Spose illibate a Cristo, angeli in carne,

o voi che state sui ginocchi prone

senza soffrire, o voi che confinate

vi pascete di sogni ed obliate

i travagliati amori oltre il rosaio

arrampicato al muro del giardino:

Maggio rose fiorite ciel turchino

o dormiveglia anticipazione

di paradiso. Biancofidanzate

che avete intorno all'iride la grazia

e custodite fiori e sogni d'alba

negli orti e nelle bare sottoterra.

Voi ch'emigrate senza lasciar traccia

e senza ombra come il venticello

il cui alito appena appena appena

sfiora oggi i cipressi secolari.

 

Oggi è piovuto il bossolo è più chiaro

le foglie grasse han perduto l'amaro.

 

È piovuto sull'erba da falciare

e sulle pietre che sbavano il nero.

 

Tremano l'erbe e passano i carriaggi

seminano l'argento le lumache.

 

quel mese giallo ch'è sverginatore

ha pianto troppe stille di rugiada.

 

L'erba dei campi si muta vestito

si veste di fuoco pel nuovo marito.

 

I cipressi han le coccole mature

stentineranno la semenza rossa.

Sulle crepe del muro già l'ortica

contrasta con l'erbetta borraccina.

Un bugno lascia traboccare il miele

giù per i rami d'un rosaio nano:

Aiuto! Aiuto! ronzano le api.

 

È maggio, e sui cipressi popolati

si traffica d'amore, si fan case

senza tettoia perché il tempo è poco.

 

(da «La Voce», 30 aprile 1916)

 

 

 

 

NINNA-NANNA VERSILIESE

 

Dondolino dondolano

per tre soldi un pan di grano...

Ninna-nanna è l'ordinotte;

ninna, l'ore mattutine

scendon giù dal campanile:

sciò, sciò, via dalle campane,

spaventate dai batocchi

impazziti all'improvviso...

 

Chiara spia dalle persiane:

per la bimba tutta occhi

spunta il sole in paradiso.

 

Dondolino

dondolano

per tre soldi

un pan di grano

benedetto

dal piovano.

 

Acqua di gronda

fior di farina

tre belluccette

per la Regina.

 

Il mulino sta lontano

altro è a dire e altro è a ire:

per la guazza camminare

la gonnella inzaccherare,

scappucciar la mascherina

agli zoccoli da festa,

per andare alle molina

con un bolgio sulla testa:

un bolgio di uno staio e piue

arrivar sino lassue!

 

Altro è dire e altro è a ire,

altro è il pane benedire.

 

Dondolino dondolano

per tre soldi un pan di grano...

 

Ninna-nanna è l'ordinotte;

ninna, all'ora mattutina

s'addormenta mi' bambina.

 

(da "Arie bifolchine", Vallecchi, Firenze 1943, pp. 134-136)

 

domenica 10 dicembre 2023

Antologie: "Il canto del Cielo"

 

Il canto del Cielo è il titolo di un’antologia poetica rientrante in una serie di simili opere letterarie, che videro il medesimo editore (Ancora editrice di Milano) e gli stessi curatori (Giovanni Battista Gandolfo e Luisa Vassallo), e che furono pubblicate nei primissimi anni del ventunesimo secolo. Questo specifico volume uscì nel 2002. Il sottotitolo del libro: Gli angeli nella poesia italiana del Novecento, spiega in modo esauriente l’argomento portante dei versi qui raccolti, la nazionalità dei poeti, la lingua e il lasso temporale in cui queste poesie furono pubblicate. Per saperne di più, ecco qualche frammento dell’introduzione all’antologia, leggibile dalla pagina 7 alla pagina 10 del libro in questione:

 

 

[…] Giovani e visibili custodi fuori del tempo, gli angeli esprimono nel Nuovo Testamento la manifestazione del Verbo, inneggiando alla nascita e, prima ancora, annunciando il misterioso evento. Limpidi e fedeli mediatori dentro la nuova vita, sigillano la sacralità e il fascino dei momenti più rilevanti di Cristo, della sua fanciullezza e del suo ministero, fino alla passione, risurrezione e ascensione al cielo. Escono essi dalla trascendenza del Padre per assumere l’espressione originale e trasparente della distinzione dell’unico Dio dei cieli, che si rivela uomo nel tempo e nello spazio. (…)

 

Cantano i poeti del nostro tempo, la presenza di questi amici divini. Intrecciano sguardi, dipinti, musiche e, cinti dallo stupore del mistero e del fascino della penna, balbettano la loro maestosa e arcana sinfonia, avvertendo e assaporando l’attonita eco della creazione di Dio. A essa si associano, rivestiti del loro ruolo di esseri invisibili e di custodi, che spesso coprono per regalare nell’agitazione d’inusitati sentimenti, nuove, mistiche contemplazioni.

 

 

Per quel che riguarda i 62 poeti qui antologizzati, si nota una netta prevalenza di scrittori cristiano-cattolici; tra di essi, mi fa piacere rilevare la presenza di alcuni, troppo spesso ignorati o, addirittura, completamente dimenticati; mi riferisco soprattutto ad Angelo Barolini, Gherardo Del Colle, Donata Doni, Ugo Fasolo, Luca Ghiselli e Marino Piazzolla. Chiudo riportando tutti i nomi dei poeti selezionati e antologizzati in Il Canto del Cielo.

 


 




IL CANTO DEL CIELO. GLI ANGELI NELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO

 

Giovanni A. Abbo, Angelo Barile, Antonio Barolini, Renzo Barsacchi, Carlo Betocchi, Elena Bono, Marcello Camilucci, Cristina Campo, Giorgio Caproni, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Centore, Giuseppe Conte, Sergio Corazzini, Antonio Corsaro, Giovanni Costantini, Gherardo Del Colle, Mario Dell’Arco, Danilo Dolci, Donata Doni, Enzo Fabiani, Elio Fiore, Franco Fortini, Giovanni Battista Gandolfo, Alfonso Gatto, Luca Ghiselli, Giovanni Giudici, Domenico Giuliotti, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Margherita Guidacci, Gabriella Guidi Gambino, Marco Guzzi, Mario Luzi, Biagio Marin, Eugenio Mazzarella, Eugenio Montale, Marino Moretti, Ada Negri, Angiolo Silvio Novaro, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Giovanni Pascoli, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Marino Piazzolla, Antonia Pozzi, Salvatore Quasimodo, Clemente Rebora, Ceccardo Roccatagliata, Umberto Saba, Vittorio Sereni, Sergio Solmi, Enrico Somarè, Maria Luisa Spaziani, David Maria Turoldo, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Luisa Vassallo, Giorgio Vigolo. 

domenica 3 dicembre 2023

Poeti dimenticati: Cesare Angelini

 

Nacque ad Albuzzano nel 1886, e morì a Pavia nel 1977. Figlio di contadini, frequentò il seminario e a ventitré anni diventò sacerdote. Iniziò subito ad insegnare nel seminario di Cesena; nella città romagnola conobbe il critico Renato Serra; quest’ultimo fu determinante per la futura passione di Angelini nei confronti della letteratura. Cominciò così a collaborare, con scritti religiosi, prose artistiche e poesie, a diverse riviste, tra le quali Romagna, La Voce, La Festa e Nuova Antologia. Pubblicò molti libri di saggi e di prose; ben pochi sono invece i versi veri e propri che Angelini scrisse e che sporadicamente compaiono in alcuni dei suoi volumetti di prose. La sua poesia - e soprattutto la sua prosa poetica - si rifà al frammentismo vociano; nei pochi versi che il religioso lombardo decise di pubblicare, si nota una netta preferenza verso le forme metriche tradizionali; i suoi temi preferiti sono la bellezza della natura, la descrizione dei paesaggi dei luoghi dove visse e le ricorrenze stagionali.

 

  

 

Opere poetiche

 

“I doni del Signore”, Stab. Tip. Grazzini, Pistoia 1932.

“Acquerelli”, La Scuola Editrice, Brescia 1948.

“I frammenti del sabato”, Garzanti, Milano 1952.

“Autunno (e altre stagioni)”, Rebellato, Padova 1959.

“Questa mia Bassa (e altre terre)”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1970.

“Il piacere della memoria”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1977.

 

 


 

 

Presenze in antologie

 

“Natale in poesia. Antologia dal IV al XX secolo”, Interlinea, Novara 2000 (p. 109).

“Natale dei poeti”, Ancora Editrice, Milano 2001 (p. 14).

“Pasqua dei poeti”, Ancora Editrice, Milano 2003 (pp. 15-16).

 

 

 

 

Testi

 

 

QUALCHE FIORE D'AUTUNNO

 

Giunti a questa pace, l'autunno sceglie fiori per quadri che vuol dipingere qua e là; e essi s'impegnano a durare in colori che più fini la liturgia non ha: certi violavescovo, certi verdepascolo... Colori profondi, meditativi, di stoffe antiche, dimenticate nei cofani.

  Creature d'una stagione un poco umiliata, i fiori d'autunno rischiano d'esser più belli di quelli allevati nelle stagioni ricche e estrose, anche se di risultato meno vistoso. Non vivono nei poemi, non adornano conviti, non amano lusinghe di profumi; in compenso hanno alcunché di domestico che ci tocca dentro. Fiori lisci, leali, espansivi; la loro lode è nel Vangelo: "Guardate i fiori del campo..." Due o tre che si trovino insieme, magari sullo sfondo d'un bel lapazio, badano a far stagione, a fare autunno. E ci fanno sentire il piacere e la mestizia dell'esistere; quella malinconia che occorre perché la bellezza sia piena.

 

[da "Autunno (e altre stagioni)", Rebellato, Padova 1959, p. 17]

 

 

 

 

NOVEMBRE

 

Novembre, l’anno è giunto ai suoi riposi

e lento alla campagna ora passeggia;

sottoboschi e tappeti immaginosi

l’accolgon come re nella sua reggia.

 

Eco di soli ultimi, lumeggia

il platano tra salici pietosi;

nell’inerzia del giorno che vaneggia

una timida estate par che osi.

 

Ma un inutile lusso è la tua estate,

San Martino. Novembre pensa ai morti,

e l’inverno vien dietro a gran giornate.

 

Così, tra nebbia e sogno, il mesto mese

su stanchi rami di alberi assorti

muore, entro un vago scampanio di chiese.

 

(da "Il piacere della memoria", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1977, p. 115)

 

domenica 26 novembre 2023

"Sparvieri" di Adelchi e Pier Angelo Baratono

 

Sparvieri è il titolo di una raccolta poetica pubblicata dall’editore Montorfano di Genova nel 1900, in cui si trovano versi scritti dai fratelli Adelchi (Firenze 1875 – Genova 1947) e Pier Angelo Baratono (Roma 1880 – Trento 1927). Entrambi, dopo questa prima esperienza in campo poetico, si dedicarono ad altro. Adelchi insegnò filosofia in varie università italiane, non disdegnando l’interesse - da studioso - per la psicologia e la pedagogia; inoltre fu, per qualche anno, anche deputato socialista. Pier Angelo invece, rimase letterato a tutto tondo, pubblicando soprattutto novelle e racconti. Sono rarissimi i versi dei due fratelli successivi a Sparvieri; alcuni di essi, si possono leggere sulle pagine della rivista La Riviera Ligure e, per quel che riguarda il solo Pier Angelo, su quelle di Poesia. Sono pochissimi anche i critici che si occuparono di questa raccolta uscita agli albori del XX secolo; fu il critico Glauco Viazzi (1920-1980) che, dopo ottant’anni di oblio, li volle recuperare ed antologizzare nei due tomi intitolati Dal simbolismo al déco (Einaudi, Torino 1981). I versi di entrambi i fratelli leggibili in Sparvieri, molto risentono del clima letterario che si avvertiva in Europa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; in particolare, tutti e due furono attratti dal decadentismo e dal simbolismo. Mentre Adelchi, per alcuni aspetti, si rivela da una parte un precursore del crepuscolarismo e dall’altra un seguace dei poeti “maledetti” francesi; il fratello Pier Angelo è più portato per l’estro fantasioso, ed alcune sue poesie, che sembrano dei racconti in versi, anticipano i temi che predilesse allorché abbandonò la poesia per dedicarsi alla prosa.

Il volumetto, di 70 pagine, si apre con una brevissima prosa poetica senza titolo e senza autore, che vede protagonisti proprio gli uccelli del titolo; segue una prima parte intitolata Poesie sparse e Gli Epigoni, in cui compaiono sette poesie e tre prose poetiche di Adelchi, divise nelle seguenti sezioni: Sentimentali, L’aurora che sveglia, Sui ritmi del cuore, Gli Epigoni. Seguono tredici liriche di Pier Angelo, anch’esse divise in sezioni e sottosezioni; la prima sezione s’intitola Novalba e racchiude le seguenti sottosezioni: Motivi dell’infanzia triste, Fiabe, Ombre di lanterna, Intime; la seconda ed ultima sezione s’intitola Congedo e contiene una sola poesia: Libecciata. Chiudo questo post trascrivendo due poesie (una di Adelchi e una di Pier Angelo) tratte dalla raccolta Sparvieri.

 

 


 

 

Da "L'AURORA CHE SVEGLIA"

 

I.

Un pianto d'acque, avanti giorno, insiste

e desta un trillo, due; più nulla. Pare

di sera. Pare, l'alba, ancor più triste

dopo una notte senza riposare.

 

O pianti soffocati! e in gola il sangue

aspro trabocca, e irrigidisce esangue

il volto, e l'occhio vaga dilatato.

 

Giunge l'aurora, e gridi gridi ai monti

ai mari ai fiumi col fiato fiammato

vanno squarciando i pallidi orizzonti.

 

Veggono la malata ed il malato

ai vetri lunghe scale di cristallo,

un lumeggiar cangiante, rosa, giallo.

 

Poi batte il sole sulla croce d'oro,

fa suonar le campane, filtra in chiesa,

bacia un languido volto, alluma il coro,

ride su l'orlo della lampa accesa.

 

(da “Sparvieri”, Montorfano, Genova 1900, p. 21)

 

 

 

 

I SETTE DORMIENTI

 

Sette barbe fluenti,

fiocchi di neve, sovra il petto incolti,

nei velluti biancheggiano e sui volti

di sette re dormienti.

 

Sette bocche contorte,

vuote son de' lor denti le mascelle,

come di frati abbandonate celle

riposan mute e smorte.

 

Sette cuori ghiacciati,

ove si stagna denso e nero il sangue;

nei petti antichi la memoria langue

degli affetti passati.

 

Sette nebbiose menti

non soffron più, nella continua pace

che sui paesi sonnolenti giace,

della vita i tormenti.

 

Ma un giorno quelle sette

teste invecchiate rivedran la luce,

e al mondo ansioso doneranno un duce

solo, profuso in sette.

 

(da “Sparvieri”, Montorfano, Genova 1900, pp. 39-40)     

 

 

 

domenica 19 novembre 2023

"Inviti superflui"

 

Inviti superflui è il titolo di uno dei Sessanta racconti scritti da Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno 1906 – Milano 1972) e pubblicati dalla Mondadori di Milano a partire dal 1958. Il racconto che segue questa breve dissertazione, proviene dall’edizione facente parte della collana “Oscar Moderni” del 2021; più precisamente è il racconto numero 17, e si trova alle pagine 162-165 di detto libro.

Personalmente considero Inviti superflui il più bello e intenso tra i Sessanta racconti di Buzzati; è anche il più distante dal contesto generale delle vicende qui narrate. In pratica, a me sembra una sorta di lettera immaginaria, mai spedita dall’autore, diretta ad una donna da lui fortemente amata. Tale donna si è allontanata definitivamente dallo scrittore, il quale però non ha affatto smesso si amarla, e forse inconsciamente spera ancora in un suo ritorno; da qui nascono una serie di desideri espressi in modo altamente poetico e fantasioso dall’innamorato, che sogna ad occhi aperti situazioni e presenze di varia natura, in grado di generare sensazioni possibili e impossibili che potrebbero provare i due, qualora la donna improvvisamente facesse ritorno, e volesse iniziare una relazione con lo scrittore. L’uomo immagina che i due innamorati siano sempre in compagnia, in luoghi e stagioni diversi, che lo scrittore conosce perfettamente e che adora; e la donna, in perfetta sintonia coi pensieri dell’amato, potrebbe adorarli con la stessa intensità, poiché le anime dei due diverrebbero una sola. Ma ogni situazione immaginata, dopo una travolgente estasi spirituale, si conclude con un avvilente ritorno alla realtà, caratterizzato dall’amara consapevolezza che tutte le ipotetiche storie paventate non sono altro che astrazioni; il motivo risiede nell’idealizzazione della persona amata dallo scrittore, che all’inizio la vede diversamente da come è; poi l’uomo smette di sognare, ma fino ad un certo punto; afferma infatti che si accontenterebbe soltanto di avere la donna accanto a sé, con tutte le differenze di carattere e di pensiero: la sua sola presenza basterebbe a farlo felice, e, forse, anche la stessa donna potrebbe esserlo, paga dell’amore che prova il suo compagno nei suoi confronti (e che lei, tra l’altro, non ricambierebbe). Infine, lo scrittore finalmente comprende che la donna da lui follemente amata se n’è andata per sempre, e neppure lontanamente pensa più a lui.

Una serie di intense sensazioni ed emozioni, si dipanano per tutto il racconto, partoriti e sorretti da una immaginazione particolarmente accentuata; a queste fanno regolarmente seguito cadute dolorose, che si collegano ad una finale visione realistica e consapevole precedentemente assente; sicuramente tali stati d’animo contrastanti, che iniziano con visioni fantastiche ed entusiasmanti, e terminano con ragionati e disillusi ritorni alla realtà, sono stati vissuti da chissà quante persone, che hanno idealizzato una figura femminile per cui provavano una straordinaria attrazione (e la stessa cosa sarà accaduta anche a sessi invertiti). Questo racconto altro non è che una poesia in prosa, in cui Buzzati, probabilmente, parla di un’esperienza personale, e lo fa in modo particolarmente coinvolgente. Concludo raccomandando fortemente a tutti questo libro, poiché insieme ad Inviti superflui, qui sono raccolti altri 59 racconti molto belli, da leggere e rileggere così come Il deserto dei Tartari: romanzo capolavoro di Buzzati che amo più di ogni altro. Ecco, infine, Inviti superflui.

 

 


 

 

INVITI SUPERFLUI

di Dino Buzzati

 

Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.

 Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro.

 Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

 Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

 Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.

 È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

 Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

 

(da "Sessanta racconti", Mondadori, Milano 2021, pp. 162-165)