Inviti superflui è il titolo di uno dei Sessanta racconti scritti da Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno 1906 – Milano 1972) e pubblicati dalla Mondadori di Milano a partire dal 1958. Il racconto che segue questa breve dissertazione, proviene dall’edizione facente parte della collana “Oscar Moderni” del 2021; più precisamente è il racconto numero 17, e si trova alle pagine 162-165 di detto libro.
Personalmente
considero Inviti superflui il più
bello e intenso tra i Sessanta racconti
di Buzzati; è anche il più distante dal contesto generale delle vicende qui
narrate. In pratica, a me sembra una sorta di lettera immaginaria, mai spedita
dall’autore, diretta ad una donna da lui fortemente amata. Tale donna si è
allontanata definitivamente dallo scrittore, il quale però non ha affatto
smesso si amarla, e forse inconsciamente spera ancora in un suo ritorno; da qui
nascono una serie di desideri espressi in modo altamente poetico e fantasioso
dall’innamorato, che sogna ad occhi aperti situazioni e presenze di varia
natura, in grado di generare sensazioni possibili e impossibili che potrebbero
provare i due, qualora la donna improvvisamente facesse ritorno, e volesse
iniziare una relazione con lo scrittore. L’uomo immagina che i due innamorati
siano sempre in compagnia, in luoghi e stagioni diversi, che lo scrittore
conosce perfettamente e che adora; e la donna, in perfetta sintonia coi pensieri
dell’amato, potrebbe adorarli con la stessa intensità, poiché le anime dei due
diverrebbero una sola. Ma ogni situazione immaginata, dopo una travolgente
estasi spirituale, si conclude con un avvilente ritorno alla realtà,
caratterizzato dall’amara consapevolezza che tutte le ipotetiche storie
paventate non sono altro che astrazioni; il motivo risiede nell’idealizzazione
della persona amata dallo scrittore, che all’inizio la vede diversamente da
come è; poi l’uomo smette di sognare, ma fino ad un certo punto; afferma
infatti che si accontenterebbe soltanto di avere la donna accanto a sé, con
tutte le differenze di carattere e di pensiero: la sua sola presenza basterebbe
a farlo felice, e, forse, anche la stessa donna potrebbe esserlo, paga
dell’amore che prova il suo compagno nei suoi confronti (e che lei, tra l’altro,
non ricambierebbe). Infine, lo scrittore finalmente comprende che la donna da
lui follemente amata se n’è andata per sempre, e neppure lontanamente pensa più
a lui.
Una serie di
intense sensazioni ed emozioni, si dipanano per tutto il racconto, partoriti e
sorretti da una immaginazione particolarmente accentuata; a queste fanno
regolarmente seguito cadute dolorose, che si collegano ad una finale visione
realistica e consapevole precedentemente assente; sicuramente tali stati d’animo
contrastanti, che iniziano con visioni fantastiche ed entusiasmanti, e
terminano con ragionati e disillusi ritorni alla realtà, sono stati vissuti da
chissà quante persone, che hanno idealizzato una figura femminile per cui
provavano una straordinaria attrazione (e la stessa cosa sarà accaduta anche a
sessi invertiti). Questo racconto altro non è che una poesia in prosa, in cui
Buzzati, probabilmente, parla di un’esperienza personale, e lo fa in modo
particolarmente coinvolgente. Concludo raccomandando fortemente a tutti questo
libro, poiché insieme ad Inviti superflui,
qui sono raccolti altri 59 racconti molto belli, da leggere e rileggere così
come Il deserto dei Tartari: romanzo
capolavoro di Buzzati che amo più di ogni altro. Ecco, infine, Inviti superflui.
INVITI SUPERFLUI
di Dino Buzzati
Vorrei che tu
venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando
la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle
favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati
passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le
foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio
sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là
forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi
palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti
ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda
stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere
scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re
senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto
gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del
castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né
ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i
vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi
nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti
ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di
primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno
prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che
fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi;
e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono
bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti
sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione.
Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose
insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai
casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i
vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché
le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti
cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico,
né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta
l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu
preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si
possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a
passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro.
Vorrei anche andare con te d'estate in una
valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i
segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci
sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del
telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e
chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba,
nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette
che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente
altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso
degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti
intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una
calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non
diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano.
Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te
sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre,
quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra
le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme
di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la
terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei
bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci
trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran
costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco,
con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze
dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e
gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le
vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti
accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti
sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di
musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti
al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie
alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze,
e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e
sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia
quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non
importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto,
in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io
non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del
tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a
queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti
dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e
dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie
così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere
abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole
accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana,
centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una
vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente
sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti
dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io
sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so
pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
(da
"Sessanta racconti", Mondadori, Milano 2021, pp. 162-165)
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