domenica 13 marzo 2022

"Canti" di Giovanni Tecchio

 

Nel 1931, presso l'editore Monanni di Milano, fu stampato un volume poetico di Giovanni Tecchio intitolato Canti. All'interno di esso, l'autore, già allora quasi completamente obliato, volle includere il meglio della sua produzione in versi. Sfogliandolo, e tenendo a portata di mano le altre opere poetiche di Tecchio, è facile constatare che, quasi tutte le liriche qui presenti, furono inserite negli altri suoi volumi, che vanno dal primo (Poesie, 1891) all'ultimo (Rime della vita, 1900), che risale a più di trent'anni prima. Parecchi componimenti poetici hanno un titolo diverso e, insieme agli altri, hanno subito delle modifiche non sostanziali, che però dimostrano l'insoddisfazione costante del poeta, sempre in cerca di una forma differente dall'originale. Giovanni Tecchio, di cui avevo già parlato in un post dedicato ai poeti dimenticati, secondo me avrebbe meritato miglior fortuna: i suoi versi, così come quelli di Cosimo Giorgieri Contri e di Diego Angeli, rappresentarono qualcosa di estremamente importante nell'ambito della poesia italiana del primissimo Novecento. Infatti, i primi, grandi poeti che, seguendo un ordine prettamente cronologico, fanno la loro comparsa agli albori del XX secolo, sono i crepuscolari; ora, se si vanno a leggere alcune poesie di Gozzano, Corazzini, Govoni, Moretti e altri ancora, non risulterà difficile notare che vi sono delle attinenze, se non delle nette somiglianze, con quelle scritte da Giovanni Tecchio una decina di anni prima; quest'ultimo, praticamente per tutto il decennio che ha concluso il secolo XIX, pubblicò delle raccolte assai simili tra di loro, in cui prevaleva uno stato d'animo melanconico, così come una estrema sensibilità a determinate manifestazioni della natura ed a particolari "visioni" (interni squallidi, atmosfere sognanti, paesaggi autunnali ecc.), ovvero peculiarità che furono perpetrate anche dai poeti crepuscolari. Non vi è dubbio che il Tecchio subì l'influenza di Gabriele D'Annunzio, che in quegli stessi anni pubblicò due volumi poetici notevoli: La Chimera (1890) e Poema paradisiaco (1893); senza dimenticare, ovviamente, i poeti francesi e belgi che, già a partire dagli anni '60 dell'Ottocento, scrissero e pubblicarono opere in versi rientranti nei massimi capolavori del decadentismo e del simbolismo; ma, allo stesso tempo, non vi è dubbio che Tecchio seppe rielaborare quei temi e quelle atmosfere in modo del tutto personale, creando versi, almeno per me, indimenticabili.

In Canti, Tecchio presenta ai lettori più attenti una sintesi della sua poesia, attingendo dai suoi vecchi volumi e scegliendo ciò che ritiene migliore; questo libro va perciò considerato l'ultimo, ricapitolativo lavoro di un poeta ingiustamente trascurato, e che, a mio modesto parere, meriterebbe una rivalutazione. Ecco infine tre poesie estratte da Canti.  

 

 

Frontespizio del volume: Giovanni Tecchio, Canti

 

 

PALUDE

 

Nello stupor del cielo d'alabastro

Sommessamente ad ora ad or si lagna,

Voce universa, il pianto che ristagna

Sotto il poter malèfico d'un astro.

 

Cupe, nell'aer livido biancastro,

Immote e nere come una montagna,

Sopra la desolata erma campagna

Pendon le nubi di vapor salmastro.

 

Non frullo d'ala, non batter di greggia;

Nel cinereo incantesimo dell'aria

Sorde si sfaldan l'ore senza suono.

 

Sull'acquitrino una ninfea galleggia,

Urna di pario marmo funeraria,

Che in sé racchiude un cor nell'abbandono.

 

(da "Canti", p. 9)

 

 

 

 

SOGNO ETERNO

 

Nei silenzi della notte

van sospiri, voci rotte

d'angoscia, pianti,

d'anime schianti.

Dal suo trono eccelso la Morte

sui piani sogguata, sull'erte montane

di croci la nera coorte.

Lo scrosciar delle lacrime umane,

che gemon lontane lontane,

risuona profondo,

per la notte del mondo.

 

Beato, nel roseo mattino

d'aprile chi vide giocondo

tra fiori il cammino!

Non gli passò sull'anima

dell'universo pianto

il turbinar profondo.

Beato, d'un sogno l'incanto

non vide sfiorire, svanire...

E tutto d'intorno a lui tace,

e gli è dolce dormire

nella profonda pace,

sognare nel vago sorriso

d'eterna giovinezza,

la vita un eliso

d'eterna dolcezza!

 

Oh, di quel giorno il vespero

egli non vedrà mai,

né udrà per la notte col vento

insistente, terribile, mai

quell'eterno lamento,

lo scrosciar delle lacrime umane

che gemon lontane lontane,

risonare profondo,

per la notte del mondo!

 

(da "Canti", pp. 63-64)

 

 

 

 

NEVE

 

E neve e neve e neve...

E tutto intorno imbianca:

Passa un sussurro breve,

Il fru d'un'ala stanca.

 

Mentre nell'aria lieve

Danza la ridda bianca,

Una tristezza greve

Scende col dì che manca.

 

Chi studia a un lume fioco,

Chi dorme in letto morbido,

Chi ride accanto al foco;

 

Va un vecchierel lontano,

Un pan cercando e querulo

Stende la scarsa mano.

 

(da "Canti", p. 99)

domenica 6 marzo 2022

Le ombre nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Il termine "ombra", almeno nell'ambito della poesia decadente e simbolista, è stato molto usato ed abusato. Il significato così come la simbologia, non ha riferimenti stabili e precisi; nella maggior parte dei casi però, l'ombra o le ombre sono collegate col buio, con le tenebre e comunque con un concetto relativo all'oscurità in generale. Nella poesia di Diego Angeli, l'ombra di qualcosa o di qualcuno rimane impressa sul muro, come una macchia indelebile, e sembra presagire una sventura imminente. Nei versi di Galletti, un paesaggio lacustre, brumoso, in cui le ombre, al calar della sera, s'infittiscono sempre più, sta a simboleggiare l'anima del poeta, ormai stanca e rassegnata. Nella poesia di Baganzani, invece, l'ombra del corpo, che accompagna l'uomo dovunque esso sia, viene descritta come qualcosa di molto prezioso e amato, e viene definita "malinconia"; simile a quest'ultima, è la poesia di Garoglio, che aggiunge, alla vaga sensazione melanconica, una profonda e lapidaria meditazione sulla vita e sulla morte. Luisa Giaconi, nella poesia visionaria intitolata L'immagine, si vede apparire davanti agli occhi meravigliati l'ombra di sé stessa, com'era in un non precisato passato: forma pallida, dolente, muta, che racchiude nella sua delicata anima qualcosa di estremamente misterioso. Nella poesia di Gianelli l'ombra (o, meglio, il buio) è il poeta stesso, che generosamente ha donato i suoi raggi di luce a chi glieli chiedeva, fino a rimanerne totalmente privo; in questi versi il buio ha valenza di delusione nei confronti dell'umanità, che egoisticamente prende tutto ciò che può e non dà nulla. Girardini vede l'umanità come una fitta schiera di ombre che passano e ripassano per poi finire tutte in un "angol nero" che le inghiotte e che, ovviamente, rappresenta il misero della morte. D'insondabile mistero sono avvolti anche i versi di Tumiati, che descrive una tela raffigurante il ritratto di un filosofo, i cui lineamenti risultano imprecisati a causa dell'ombra fitta; soltanto si distingue lo sguardo fisso dell'uomo pensante. Più volte, in queste liriche, le ombre rappresentano le anime morte; esse, si materializzano quasi sempre durante le ore notturne, quando l'oscurità avvolge ogni cosa; spesso, questa sorta di fantasmi si lamentano per dei torti o delle violenze subite nella loro vita. Rare volte l'ombra rappresenta qualcosa di estremamente piacevole, come la sognata e rimpianta presenza di una donna amata, che fa risorgere nel poeta i momenti più belli vissuti insieme in un passato ormai lontano.

 

 

Poesie sull'argomento 


Diego Angeli: "Un'ombra" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Antonino Anile: "L'ombra" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).

Sandro Baganzani: "Senzanome" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Il convento" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Dino Campana: "Il canto della tenebra" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "L'ombra del nemico" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Annera l'ombra innanzi a te..." in "Poemi dell'ombra" (1923).

Arturo Colautti: "L'ombra" in "Canti virili" (1896).

Gabriele D'Annunzio: "Nel bosco" in "Elegie romane" (1892).

Federico De Maria: "La Tenebra" in "Voci" (1903).

Riccardo Forster: "L'ombra" in "La Fiorita" (1905).

Alfredo Galletti: "Ombra" in "Odi ed elegie" (1903).

Diego Garoglio: "L'ombra" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Luisa Giaconi: "L'immagine" e "Senz'ombra d'amore" in "Tebaide" (1912).

Giulio Gianelli: "Buio" in "Intimi vangeli" (1908).

Cosimo Giorgieri Contri: "La danzatrice dell'ombra" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Emilio Girardini: "Guardando il soffitto" in "Ruri" (1903).

Corrado Govoni "L'ombra Danaide" in "Gli aborti" (1907).

Remo Mannoni, "Ombre amiche" in «Gran Mondo», agosto 1904.

Pietro Mastri: "Tenebra marina" in "L'arcobaleno" (1900).

Arturo Onofri: "Uno sguardo" in "Liriche" (1914).

Angiolo Orvieto: "Risposta" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "E una candela nella sala enorme" in "Canti brevi" (1909).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sensazione d'ombra a valle" in «Idea Liberale», marzo 1896.

Umberto Saffiotti: "Le ombre" in "Le fontane" (1902).

Domenico Tumiati: "Ombra" e "Ombra di coro" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Nell'ombra" in "Umana" (1916).

Remigio Zena: "Toccata. In minore" in "Tutte le poesie" (1974).



Testi


L'OMBRA

di Riccardo Forster

 

Il tramonto con l'ultima favilla

si spegne in mare. Io vedo le colline

perder la luce e tacite d'un crine

nero chiomarsi. È notte nella villa.

 

Come sempre, come ieri, la tranquilla

sua Ombra non indugia sulle chine

rose, sull'erbe che han sete di brine

in ogni lor recondita fibrilla.

 

A poco a poco, tutta s'è raccolta

l'Ombra calata dall'illune cielo

nel gran mistero della notte folta.

 

Più non ricordi il sole come brilla

ardente nel meriggio. Un Ombra, un velo

è l'orizzonte della tua pupilla.

 

(da "La Fiorita", 1905)

 

 

 

 

E UNA CANDELA NELLA SALA ENORME

di Nino Oxilia

 

E una candela nella sala enorme:

riddano i mostri in mezzo all'ombra informe.

 

A tratti con la voce solitaria

un tarlo rode ... Un brivido è nell'aria.

 

L'ombra avanza ancora, ancora ... E quale

inganno è del gran letto funerale?

 

La tela si raggrinza ... E quale vita

si afferra ad essa con le scarne dita?

 

L'ombra invade la sala. Si distende ...

e si avvinghia ... e si snoda. Sulle tende

 

che celano le piante alte dell'orto

posa livido un teschio di morto.

 

(da "Canti brevi", 1909)



Odilon Redon , "Darkness"
(da questa pagina web)


domenica 27 febbraio 2022

La poesia di Giovanni Marradi


 


Giovanni Marradi non ebbe una vita particolarmente movimentata, e visse sempre nella sua città natale: Livorno, tra il 1852 e il 1922; pur non avendo completato gli studi, grazie all'aiuto di Ferdinando Martini divenne dapprima insegnante, quindi Provveditore agli studi nella sua Livorno. Poeta dalla vena facile e istintiva, fu sempre definito "carducciano"; in effetti, l'aggettivo gli calza a pennello; ciò è facilmente constatabile sia leggendo molti dei suoi migliori versi, sia perché fu lui stesso a definirsi un seguace del Carducci (che però non ebbe parole particolarmente lusinghiere nei suoi confronti). Il critico Luigi Baldacci affermò che Marradi fu il poeta che tenne in considerazione più di altri le Rime nuove di Giosuè Carducci; secondo lo stesso, ciò che avvicina l'opera poetica del livornese a quella del pietrasantino, è "un ambito comune di naturalismo". Sempre Baldacci, paragona la poesia di Marradi alla musica di Pietro Mascagni e ad alcune opere pittoriche dei macchiaioli; insomma, esistono elementi comuni, non solo tra i poeti toscani attivi nella seconda metà dell'Ottocento, ma anche tra artisti di vario genere nati nella stessa regione; tutti infatti presentano peculiarità ben identificabili, che vanno ricondotte all'area geografica in cui questi artisti vissero e crearono le loro opere migliori. Anche un altro critico insigne: Ferruccio Ulivi, vide nella poesia di Marradi evidenti accenti naturalistici, ma, pure, identificò certe somiglianze con alcuni versi di Gabriele D'Annunzio; tornando però a quanto scrisse il Baldacci, Marradi fu sempre o quasi polemico nei confronti della poesia dannunziana e non solo (criticò anche i versi di Giacomo Zanella e di Vittorio Betteloni), rimanendo fedele soltanto al "maestro" Carducci. Chiudo riportando un elenco delle opere poetiche di Marradi, seguito da quello delle migliori antologie in cui è stato incluso; infine, ho trascritto tre poesie da me particolarmente gradite di questo poeta, ormai quasi dimenticato.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Canzoni moderne", Zanichelli, Bologna 1879 (sotto lo pseud. di G. M. Labronio)

"Fantasie marine", Tip. Cino dei F.lli Bracali, Roma 1881.

"Mortuaria", Stab. Tipografico dell'Ordine, Ancona 1881.

"Ricordi lirici", Sommaruga, Roma 1884.

"Poesie", Triverio, Torino 1887.

"Nuovi canti", Treves, Milano 1891.

"Ballate moderne", Voghera, Roma 1894.

"Rapsodia garibaldina", Verri, Milano 1899.

"Poesie", Barbera, Firenze 1902 e successive.

 

  

Piatto anteriore della ottava tiratura stereotipa del volume: Giovanni Marradi, "Poesie", Barbera, Firenze 1923 

 

 

Presenze in antologie

 

"Poesie moderne (1815-1887)", raccolte e ordinate da Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1889 (pp. 459-461).

"Dai nostri poeti viventi", a cura di Eugenia Levi, Loescher & Seeber, Torino-Roma 1891 (pp. 123-128).

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 222-232).

"Aria sana", a cura di G. Lanzalone e B. Cocurullo, Stab. Tip. Fratelli Jovane Di G., Salerno 1908 (pp. 285-288).

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1251).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 247-250).

"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 135-136).

"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 303-305).

"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 425-428).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 304-310).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 172-179).

"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 129-131).

"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1057-1071).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 605-611).

"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (vol. II, pp. 2139-2158).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 265-270).

"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 449-453).

 

 

 

 

Testi

 

 

UNA RUPE

 

Terribile dirupo

che con la testa enorme

domini, eretto e cupo

fantasma, il ciel che dorme,

 

sei forse, entro la notte,

tacito al buio e al gelo,

lo spettro di Nembrotte

che scalar pensa il cielo?

 

Che fai, che fai, diritto

silenzioso e cupo,

contro il ciel confitto

terribile dirupo?

 

Non so; ma invidio, o monte,

l'ala de' tuoi falconi

quando l'aerea fronte

di nuvole incoroni.

 

Invidio le tue lotte

col dio che ti percote,

e fulminate e rotte

le tue foreste immote.

 

E alla tua cima invano

l'occhio e il desio s'aderge

da questo reo pantano

che stagna e mi sommerge.

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, pp. 126-127)

 

 

 

 

PALAZZO IN ROVINA

(DALLA ROCCA DI FOSSOMBRONE)

 

Era ostello di Duchi, e luce e suono

n'uscìa d'armi e di feste. Ora è stamberga

di proletari, e sdraiavi le terga

irreverenti l'ispido colono.

 

Pace a voi, Duchi. L'inclita magione

vostra ruina, e ad agio suo vi passa,

pei rotti muri, il popolo e il rovaio.

Or da' verdi pendii di Fossombrone

sovrasta indarno alla città giù bassa

l'aula del trono, ohimè, fatta granaio!

Pace a voi, morti. Sfolgora april gaio,

e ancor sul vostro secolar letargo

porta viole e oblio. — Principi, largo,

largo alla plebe che vi invade il trono!

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, p. 274)

 

 

 

 

 SOGNI E RICORDI

 

Scorre fra l'ingiallita erba che muore

un rivolo di limpida acqua viva,

e a me, sotto una mite ombra tardiva,

l'onda de' sogni scorre lenta in cuore.

 

Né mai fu così dolce il sogno alato

dell'avvenire, quando più lo infiora

la verde illusion della speranza,

come ora è dolce del lontan passato

la vision che sfuma e si scolora

nelle memorie, in cerula distanza.

Oh come, ormai, dell'avvenir che avanza

langue a me il sogno pallido ed incerto,

or che sfiorì del roseo tuo serto,

giovinezza mia, l'estremo fiore!

 

(da "Poesie", Barbèra, Firenze 1923, p. 328).

 

domenica 20 febbraio 2022

Antologie: "Antologia della Diana"

 

La Diana è il titolo di una rivista letteraria pubblicata a Napoli tra il gennaio del 1915 ed il marzo del 1917. Inizialmente vi collaborarono alcuni scrittori giovani, che avevano ben pochi punti in comune, a parte la volontà di rinnovare la letteratura italiana e quindi di rompere con la tradizione; tra di essi vi era anche il fondatore della rivista: Gherardo Marone. Ma, ad un anno dalla sua nascita, si può ben dire che La Diana fosse mutata decisamente in meglio; ciò grazie ad un programma meno fumoso e ad una linea culturale ben più definita, che si allontanava da un iniziale, generico futurismo, a vantaggio del neoliberismo e del frammentismo poetico. Già a partire dalla seconda metà del 1915, sulla Diana si potevano leggere scritti di prestigiosi autori italiani di quel preciso periodo; ma le collaborazioni, nei mesi a seguire, andarono sempre più infittendosi, comprendendo scrittori, critici e poeti come Massimo Bontempelli, Giuseppe Antonio Borgese, Paolo Buzzi, Benedetto Croce, Auro D'Alba, Salvatore Di Giacomo, Lionello Fiumi, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Piero Jahier, Elpidio Jenco, Carlo Linati, Francesco Meriano, Marino Moretti, Nicola Moscardelli, Arturo Onofri, Clemente Rebora, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Mario Venditti e Giuseppe Villaroel; assai sporadiche, invece, le presenze degli stranieri (si ritrova qualcosa di Tristan Tzara, Miguel de Unamuno e alcuni poeti nipponici). L'Antologia della Diana è un volume che fu pubblicato nel 1918 a Napoli, dalla Libreria della Diana (casa editrice che aveva già dato alle stampe diversi volumi dei collaboratori della rivista napoletana); al suo interno raccoglie scritti degli autori più significativi, già presenti nelle pagine della rivista; purtroppo, qualcuno di essi, all'uscita del volume era già deceduto a causa del conflitto mondiale imperversante, ma anche a causa della famigerata "Spagnola": malattia virale temibile che, anch'essa, si sviluppò in quegli anni. Chiudo riportando i nomi degli scrittori che figurano in quest'antologia, facendo seguire un asterisco a coloro che sono presenti con delle poesie o delle prose poetiche.

 

 


 

ANTOLOGIA DELLA DIANA

 

Benedetto Croce, Antonino Anile, Paolo Argira*, Guglielmo Bonuzzi, Antonio Bruno*, Paolo Buzzi*, Carlo Carrà*, Giovanni Cavicchioli*, Annunzio Cervi, Mario Cestaro*, Auro d'Alba*, Vincenzo Davico, Filippo De Pisis*, Salvatore Di Giacomo*, Lionello Fiumi*, Luciano Folgore*, Massimo Gaglione, Rocco Galdieri*, Telesio Interlandi*, Piero Jahier*, Elpidio Jenco, Carlo Linati, Eugenio Gara*, Corrado Govoni*, Giuseppe Lipparini*, F. T. Marinetti*, Gherardo Marone*, Armando Mazza*, Marino Moretti*, Alberto Neppi*, Arturo Onofri*, Mario Pant, Giovanni Papini*, Enrico Pea, Eugenio Prati, Renato Prisciantelli*, Mario Puccini, Giuseppe Ravegnani*, G. Titta Rosa*, Umberto Saba*, Alberto Savinio*, Camillo Sbarbaro*, Haruchichi Scimoi, Ardengo Soffici, Raffaele Uccella, Giuseppe Ungaretti*, Diego Valeri*, Mario Venditti*, Bruno Vignola*, Giorgio Vigolo*, Giuseppe Villaroel*.

 

domenica 13 febbraio 2022

Gli animali nei versi dei poeti crepuscolari


 


A volte, leggendo i versi dei poeti che più amo, ovvero i crepuscolari, ho notato la presenza di animali, che in alcuni casi, sono i protagonisti assoluti di determinate poesie. In effetti, rileggendo attentamente un po' tutti i loro versi, viene fuori che Gozzano così come Corazzini, Moretti, Govoni e Palazzeschi - tanto per citare i nomi più famosi di questa scuola - amavano gli animali, e alcuni tra loro ne avevano anche in casa o in giardino. Il più esagerato, in questo particolare settore, è ancora una volta Corrado Govoni, che già a partire dalla sua prima raccolta, Le fiale (1903), ne cita diversi; nei sonetti che occupano interamente questo libro di versi, infatti, compaiono passeri, api, rondini, cigni, pavoni, cardellini, tordi, beccacce e capinere. In Armonia in grigio et in silenzio (1903), già a partire dalla dedica - che riporto di seguito - si parla d'animali:

 

  Al mio bianco micio, affinché non mi graffi più le mani quando io giuoco con lui ed impari a non voler più assaltare i poveri canarini ogni volta che li vede, e di vivere sempre d'accordo con loro, come fa con la colombina.

 

E a proposito di gatti, questa raccolta contiene due poesie dedicate ai felini domestici: I gatti bianchi e La siesta del micio. Anche in Fuochi d'artifizio: volume poetico dello stesso Govoni, pubblicato nel 1905, i gatti sono più volte citati; a tal proposito, bellissima è la poesia intitolata Le litanie del mao. In queste pagine, oltre ai gatti, si parla più volte di rondini (animali particolarmente cari al poeta emiliano), come nei versi di Dialogo delle rondini tornate col poeta, dove, come fa ben capire il titolo, s'instaura una sorta di colloquio tra gli uccelli e l'autore dei versi, nel periodo in cui questi pennuti sono soliti ritornare a popolare i tetti delle città italiane. Per quel che riguarda Gli aborti (1907), ovvero l'ultimo volume prettamente crepuscolare di Govoni, mi limito ad elencare i titoli delle poesie in cui compaiono degli animali: Il tritone; La chiocciola; Il canto del gallo; Le api; Le farfalle; Gli uomini e i cani del re; Dove stanno bene gli uccelli; Ai corvi. Govoni, anche nelle raccolte successive, in cui abbracciò - soltanto parzialmente - altre correnti poetiche, continuò a descrivere moltissimi animali, praticamente fino all'ultimo libro di poesie pubblicato postumo.

Passando a Sergio Corazzini, nelle raccoltine del poeta romano vi sono soltanto brevi accenni ad animali come le rondini, i ragni, gli agnelli ed i gatti; a proposito dei felini, indimenticabili per me sono i versi di Bando, in cui Corazzini esprime il desiderio di dormire, proprio come un gatto, fino alla fine dei secoli. Ma è nei versi sparsi, rintracciabili in riviste e giornali del primissimo Novecento, che Corazzini inserisce qualche animale, erigendolo a protagonista del componimento poetico; è il caso dei due sonetti intitolati rispettivamente L'agnello e L'oca (il secondo è in dialetto romanesco); infine, torna di nuovo il felino più domestico del mondo nella breve poesia Il gatto e la luna.

Volendo ora parlare di Guido Gozzano, si può dire che già nella sua prima raccolta: La via del rifugio (1907), vi siano due sonetti in cui gli animali - in questo caso l'oca e il cardellino - sono presenti in modo importante; ne I colloqui (1911), rimangono impressi nella mente - tra i tanti indimenticabili - i versi in cui si parla di Makakita: lo scimpanzé freddoloso citato nella poesia In casa del sopravvissuto, che il poeta tiene in braccio, seduto davanti al caminetto, in una gelida giornata invernale. Non meno suadenti sono le disperate cetonie capovolte dell'ultima poesia della raccolta (è la seconda che porta il medesimo titolo di quest'ultima), che il poeta un tempo aiutava a rimettersi in piedi, spinto da un senso di pietà verso questi animaletti in chiara difficoltà. Si potrebbe andare ancora avanti, parlando dei grilli, delle falene e delle rondini: animali citati nel poema La signora Felicita ovvero la Felicità, e di altri ancora. Per ultime, ovviamente, si ricordano Le farfalle: protagoniste dell'omonimo poema mai pubblicato in vita dallo scrittore piemontese.

Anche Marino Moretti, già nella raccolta Poesie scritte col lapis (1910), si rivela amico degli animali; lo stanno a dimostrare diverse liriche, come La domenica dei cani randagi e La domenica dell'orso, entrambe rintracciabili nella sezione intitolata Le domeniche; di altro tono è un'altra poesia, intitolata Aquila, presente nella sezione Alcune poesie scritte con la penna; qui infatti il poeta romagnolo confessa la sua immensa ammirazione per il nobile rapace, cui vorrebbe assomigliare. In Poesie di tutti i giorni (1911), c'è un poema intitolato Frate Asino, in cui si narra la storia di un frate e di un asino; quest'ultimo improvvisamente apparso alle soglie del convento, e immediatamente accolto con entusiasmo dai religiosi. Con lo stesso titolo e con qualche variante, il poema fu riproposto da Moretti anche nella raccolta Il giardino dei frutti (1916).

Nelle primissime raccolte di Aldo Palazzeschi, e in particolare ne I cavalli bianchi (1905), alcuni animali compaiono nei paesaggi favolistici del tutto personali, caratterizzati da una sorta di accidia, d'irrigidimento molto vicino all'immobilismo, con cui il poeta toscano partecipò a modo suo alla stagione poetica cosiddetta crepuscolare. Pappagalli che si chiudono in un mutismo ostinato; civette posate sui rami degli alberi, che ridono guardando le acque tranquille del fiume che scorre sotto di loro; anguille enormi, che vivono dentro una vasca, e che la gente cerca di pescare per mangiarsele; cigni, pavoni e gatti (tutti rigorosamente bianchi) che circondano un principe particolarmente affascinante: sono questi gli animali che s'incontrano leggendo i primi versi di Palazzeschi; ma gli animali continueranno ad essere inclusi anche nelle raccolte futuriste dello scrittore fiorentino, con altri ruoli e, addirittura, con la possibilità di parlare, come nella poesia La morte di Cobò.

Fausto Maria Martini, nella sua prima raccolta intitolata Le piccole morte (1906), parla di alcuni animali, soprattutto uccelli, come nel componimento "In cordis vigilia", dove resta indelebile nella memoria la bellissima immagine dei passeri che volano verso un cipresso, e ivi si addormentano come nelle braccia /  d'una mamma per tutti. Un'altra poesia del medesimo libro s'intitola Le colombe; qui, però, i pennuti si fanno desiderare e vengono invocati dal poeta, che ne sente la mancanza. Nella successiva raccolta: Panem nostum..., gli animali sono presenti raramente; compaiono, per esempio, nella breve poesia La lucciola e il serpente, dove l'insetto e il rettile, così come la "farfalla d'oro" del penultimo verso, probabilmente rappresentano dei simboli ben precisi. Le rondini, invece, sono le protagoniste di altri versi e di una prosa poetica, che è possibile leggere nel volume Tutte le poesie (1969), e che comparvero per la prima volta in riviste del primo Novecento.  

Pochissime tracce di animali si trovano nell'unica raccolta di versi, Sogno e ironia, pubblicata da Carlo Chiaves nel 1910. C'è soltanto una poesia, intitolata Ragnateli, in cui lo scrittore piemontese loda il ragno, ovvero l'artefice di una tela perfetta; l'animaletto non viene mai nominato, ma è definito "artista", e, pur ammettendo che la sua opera possegga caratteristiche architettoniche praticamente impeccabili, comprende che, alla fine, tale capolavoro altro non è che una trappola, per catturare gli insetti di cui il ragno si nutre. Tra le Poesie sparse, presenti nel volume Tutte le poesie edite e inedite (1971), c'è un'altra lirica: Cappuccetto rosso, che è una vera e propria parodia della famosa favola; qui, il lupo famelico che divora Cappuccetto rosso, è divenuto un animale mansueto, simile ad un agnello, perché abilmente ammaestrato dalla diabolica ragazzina.

Giulio Gianelli, nella sezione finale - intitolata Due favole - che fa parte della sua raccolta poetica più importante: Intimi vangeli (1908), inserisce tre animali: una chioccia, una capretta e un'agnellina, che sono i protagonisti di due poesie assai semplici e delicate; entrambe, per determinate caratteristiche, ricordano certi versi di Giovanni Pascoli e di Angiolo Silvio Novaro.

Pochissimi riferimenti ad animali si rintracciano nell'opera poetica di Carlo Vallini; per citarne qualcuno, vi sono delle rondini che volano attorno alla casa del nonno scomparso nel quinto dei Sonetti della casa, in La rinunzia (1907); mentre in La pietà, settimo capitolo del poemetto Un giorno (1907), il poeta chiede clemenza a Dio, per una serie di sue mancanze e, tra le altre: per l'anima mia che si sente / a un tempo grande ed inane: / umile innanzi a un cane, / superba innanzi al saccente [...] pel piccolo insetto modesto / che s'affanna e che non si vede / e ch'io, camminando, col piede / inconsciamente calpesto.

Nelle poesie di Nino Oxilia non mancano certo degli animali; già nei Canti brevi (1909), si nota, qua e là, la presenza di corvi, rospi, lucciole e, soprattutto di rondini, come nei seguenti versi: Le rondini volano a sciami. / Si inseguono, vanno attorno / e pare che dicano «m'ami?» / «non vedi che è finito il giorno?». / Son lungi, cinguettano piano, / poi giungono e allora un umano / urlo, di pianto, di ebbrezza, / s'ode una voce infinita / che spasima nella gran chiarezza / l'inno alla vita. Ne Gli orti, raccolta che uscì postuma nel 1918 (il poeta era morto nella Grande Guerra durante l'anno precedente), indimenticabile è l'immagine del cane descritto nella poesia intitolata Ò visto: Ò visto le monache passare tra i letti / dell'ospedale, / passare piane leggere / con un ticchettìo di rosari / sulle gonne grossolane; / e avevano gli occhi buoni, / gli occhi sommessi e calmi, / e io mi sono ricordato di Dog, / del mio povero cane, / che mi guardava con occhi simili / quando io ero malato...

In Liriche (1904) di Tito Marrone, ci sono due poesie che vedono protagonisti gli animali; nella prima, intitolata Gli usignoli, e che si compone di soli otto versi, il poeta siciliano crea un paesaggio notturno e favoloso, reso ancor più affascinante dal meraviglioso canto degli usignoli. La seconda, che s'intitola Il gatto, è una sorta d'ammonimento per mettere in guardia gli uomini che, ingannati dall'apparenza tranquillizzante del felino, si provano ad accarezzarlo mentre dorme disteso sotto i raggi del sole; ma il gatto, infastidito dal gesto amichevole, improvvisamente si ribella e con le unghie ferisce la mano dell'improvvido essere umano, per poi tornare, di nuovo tranquillo, a crogiolarsi al sole.