domenica 19 settembre 2021

La perdita dei figli in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Molto probabilmente, nella vita di un essere umano, non esiste dolore, per quanto intenso, simile a quello che si prova nel vedere un figlio morire prematuramente. Sopravvivere alla propria prole è innaturale; quando questo tristissimo evento accade, i genitori non riescono a farsene una ragione. Le dieci poesie che ho selezionato esprimono in versi, il dolore di dieci padri che hanno dovuto sopportare il supplizio della morte di un figlio. In questi casi, la scrittura può divenire una valvola di sfogo; un modo per scaricare sul bianco delle pagine di un quaderno, una sofferenza estrema e insopportabile; certo, questa è soltanto una lieve consolazione, poiché il dolore, quando si verifica un lutto del genere, non può essere eliminato in alcun modo, e può rimanere ben presente per il resto della vita.

 


 LA PERDITA DEI FIGLI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO


 

DISPERATA

di Jacopo Bocchialini (1878-1965)

 

Ti pregai con ciglia riarse

mi svelassi il bambino mio:

e svelarlo dovevi, o Dio,

se il tuo amore fu che lo arse!

 

Ma la voce a te non saliva,

dentro solo suonava al core...

Troppo in alto eri, o Signore:

ardea vana la fiamma viva.

 

Più non piansi: l'ira ti dissi

ch'era nata del mio dolore;

poi che vano era il mio amore

del mio odio solo rivissi.

 

E la bocca io n'ebbi amara,

n'ebbi amara tutta la vita;

ma pur l'ira cadea sfinita,

come un'onda sempre più rara.

 

Perché torno? Né odio né amore

a te guida il core riarso:

se demente egli t'è apparso

tu perdona al misero cuore.

 

Più non sono quel ch'ero, o Dio:

membra ho stanche, cuore distrutto;

nulla chiedo, perduto ho tutto...

ma rivelami il figlio mio!

 

(da "Nido nella siepe", Treves, Milano 1921, pp. 18-19)

 

 

 

 

IL DESERTO

di Edmondo Corradi (1873-1931)

 

Ell'era tutta bianca, in suo candore

di neve. E neve giù dal ciel di piombo

scendeva lentamente sulle siepi

sui sentieri deserti, sovra i campi

che si stendeano, muti, in lontananza.

Andava ella così nell'infinita

immensa solitudine ghiacciata.

E camminava così lieve, che

il suo piede sui margini, non una

traccia lasciava. A qual meta traeva

la leggiadra parvenza? A lei d'intorno

protendean le ramaglie desolate

i rami brulli, che piegavan sotto

il peso della neve. Io la seguivo

con lo sguardo smarrito. A poco a poco

la parvenza spariva. D'improvviso

tutto dinanzi a me fu bianco candido

sotto il cielo di piombo, e l'aer grigio

infuriò tra le piante e un cane sperso

in lontananze ignote, fece il verso

del lupo. Udii una squilla vibrare...

e non la vidi più. Sulla bambina

la neve cadde, ancora, ancora, ancora!

E una squilla vibrò lenta, sonora

e un canto malinconico diffuse

nell'aria morta le sue note. Morta!

 

(da "Dolce infanzia serena", Cappelli, Rocca S. Casciano 1919, pp. 67-68)

 

 

 

 

ZITTI! ZITTI!

di Luigi Crociato (Luigi Krischan, 1870-1935)

 

Zitti, zitti, bambini!... Non e vero

che vota e la sua culla:

È stato un sogno mesto e passeggero.....

Egli e là che trastulla...

È la il mio ninnolo,

la il mio Chinucci,

che imboccia per i tiepidi

molli labbrucci,

perché del bacio il fiore

se ne dischiuda, e olezzi il primo amore.

 

La testolina a riccioli,

bavella rubiconda,

bambini, è la, guardatela...

Da gli occhi azzurri come un fiordaliso,

oh, quanta e inenarrabile

soavità profonda...!

 

Eppur, non mai che brillino

d'un unico sorriso,

i belli e benedetti

melanconici occhietti...!

 

Con morbido ditino

le cose ei tocca appena;

non so perché; il mio Chino

forse le prova, e forse n'à gran pena...

 

Non à ancor data mai parola alcuna...

Forse quell'aura cerula

ch'annimba la sua cuna,

oscilla ancor di musiche

udite non so dove... Zitti... Zitti...!

Àn molto sonno quegli occhietti afflitti...

 

Non è ver che de l'alba

era in quel dì piu bianco...

Era una luce scialba,

e lui parea più stanco.

 

Ah, non è ver che un rigido

vento lo fe' di gelo...!

Ah, non è ver che l'angelo

è rivolato in cielo...!

Àn molto sonno quegli occhietti afflitti...

Bambini... Zitti... Zitti...

 

(da "Canta il selvaggio", Voghera, Roma 1912, pp. 37-38)

 

 

 

 

MORTE DI OFELIA

di Auro D'Alba (Umberto Bottone, 1888-1965)

 

M'hanno detto che fuori c'è il mondo

il mondo di prima.

Non l'ho creduto

e mi sono accostato al davanzale.

 

Ho visto passare gente

che non vestiva di nero,

l'erba negli orti, i giardini fioriti

il cielo d'un azzurro spietato.

 

Sono fuggito per non gridare.

 

Ma poi son tornato a guardare

se mi fossi ingannato.

No, non può essere vero

che tutto il mondo di prima

s'agiti ancora.

Forse non sanno

gli uomini

le cose

il sole

(ma il Cielo dovrebbe sapere)

che tu non cammini più

non cammini più sulla terra

dove ridendo imparasti il dolore.

 

Più tardi il Cielo si è messo a tremare.

 

Uomini, fermatevi un attimo,

spegnetevi, stelle,

è morta la mia creatura!

 

(da "Poesie", Ceschina, Milano 1961, p. 109)

 

 

 

 

I RIMASTI

di Giuseppe Gerini (1895-?)

 

La morte non discrimina,

Figliola.

Figlia mia, Figlia rapita

ancor giovane e bella.

 

E siamo noi, oggi,

tua madre ed io che ti generammo,

sono con noi

questi due stretti orfani...

 

i rimasti.

 

Forse, Signore,

per amare di più in questo esilio

fissando di qui lo sguardo,

che le lacrime

d'ora in ora fanno

più limpido e fermo,

nella vera eternità.

 

(da "Poesie 1928-1962", Guanda, Parma 1963, p. 157)

 

 

 

 

VORREI DORMIRE IN QUEL CAMPOSANTINO

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Vorrei dormire in quel camposantino

di Monte, nel paese di mia madre;

e sul lato del cuor, con me mio figlio.

Per spaventare il piccolo Aladino

lo portammo a veder dietro la casa

nella sua grotta l'orco sagginato

che russava col muso dentro il truogolo,

e le fate in castigo alla capanna

di gambi di granturco, oche spennate.

Era il tempo dei fieni; e i falciatori

si gettavano chicchirichì allegri

da collina a collina per richiamo.

S'apre lì in fondo all'aia col suo carro,

con le pervinche nere delle croci

ch'io vidi tutte curve dalla pioggia

con l'erba, il dì che fece il temporale:

di lì sbocciò l'arcoceleste; e il tuono

rotolò così basso e così gaio

come un sacco di noci sul granaio.

 

(da "Poesie 1903-1958", Mondadori, Milano 2000, p. 312)

 

 

 

 

LA MORTA

di Marino Marin (1860-1951)

 

Selva d'acacie in fior, tu lenta al giallo

mattin di tenui gocciole t'imperli,

né ancor dai remi il chioccolio de' merli

risponde lo squillar rauco del gallo.

 

Un brivido ha il silenzio alto fra l'erbe

qual se una larva innanzi al dì s'involi:

l'alto silenzio ha voci di dolore:

su lente acque, per via, cadono acerbe

lacrime e scarsi rai: noi siamo soli;

soli, ed a lei ne li occhi il riso muore.

Perché? Vede ella pur, tra fiore e fiore,

come io vedo, implorare umile e affranta

l'Altra, la Morta, questa larva santa

che fugge a lo squillar rauco del gallo?

 

(da "Luci e ombre", Zanichelli, Bologna 1904, p. 143)

 

 

 

 

CAMMINAVI DIETRO A NOI

di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

 

  Camminavi dietro a noi, e ora siamo noi che camminiamo dietro a te.

  Ti dicevamo. Così va fatto, Jacopo — e tu c'insegnasti come va fatto, e per sempre.

  Questo amore da cui discendevi, è esso ora che sale e ti cerca come il moribondo l'ossigeno.

  Tu che ricevesti la vita, sei tu che ora ce la dispensi.

  Chi ti nutriva si nutre di te, si colora di te, si orienta in te. Si volge a te per sapere che nome dare alle sue ore. La speranza ha il tuo volto. La felicità ha il tuo volto.

  Questo amore che si credeva qualcuno, è la tua umile e mansueta ombra. Si credeva tuo padrone, e ti serve in ginocchio. Pensava esistere senz'aiuto, e tu gli sei indispensabile. Il suo timone sei tu, la sua stella polare sei tu.

  Esso che ti giustificava, sei tu ora che lo giustifichi — e per sempre.

 

(da "Il fabbro armonioso", Treves, Milano 1922, pp. 15-16)

 

 

 

 

LETO VI

di Leonida Répaci (1898-1985)

 

Principia a nevicare

e io penso a quel bambino

che dorme nella zolla.

Questa neve che ora lo copre

egli non l'ha mai veduta

giacché neppur per un attimo

nel passaggio dal grembo materno

a quello della terra

ha aperto gli occhi.

Qualche voce gli dirà

che quel mantello posatosi

su lui è un regalo

di Natale ai bambini

nati morti.

Piccolo re immobile

di un presepe di ombre

egli aspetterà nella culla

gelida i Magi che invece

di oro incenso e mirra

gli portino quel latte

che ora soffre di non potere

sgorgare dal seno della madre

pallida.

 

(da "Poesie", Rubettino, Soveria Mannelli 1999, p. 84)

 

 

 

 

GRIDASTI: SOFFOCO

di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

 

Non potevi dormire, non dormivi...

Gridasti: Soffoco...

Nel viso tuo scomparso già nel teschio,

Gli occhi, che erano ancora luminosi

Solo un attimo fa,

Gli occhi si dilatarono... Si persero...

Sempre ero stato timido,

Ribelle, torbido; ma puro, libero,

Felice rinascevo nel tuo sguardo...

Poi la bocca, la bocca

Che una volta pareva, lungo i giorni,

Lampo di grazia e gioia,

La bocca si contorse in lotta muta...

Un bimbo è morto...

 

Nove anni, chiuso cerchio,

Nove anni cui né giorni, né minuti

Mai più s'aggiungeranno:

In essi s'alimenta

L'unico fuoco della mia speranza.

Posso cercarti, posso ritrovarti,

Posso andare, continuamente vado

A rivederti crescere

Da un punto all'altro

Dei tuoi nove anni.

Io di continuo posso,

Distintamente posso

Sentirti le mani nelle mie mani:

Le mani tue di pargolo

Che afferrano le mie senza conoscerle;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che diventano secche

E, sole - pallidissime -

Sole nell'ombra sostano...

La settimana scorsa eri fiorente...

 

Ti vado a prendere il vestito a casa,

Poi nella cassa ti verranno a chiudere

Per sempre. No, per sempre

Sei animo della mia anima, e la liberi.

Ora meglio la liberi

Che non sapesse il tuo sorriso vivo:

Provala ancora, accrescile la forza,

Se vuoi - sino a te, caro! - che m'innalzi

Dove il vivere è calma, è senza morte.

 

Sconto, sopravvivendoti, l'orrore

Degli anni che t'usurpo,

E che ai tuoi anni aggiungo,

Demente di rimorso,

Come se, ancora tra di noi mortale,

Tu continuassi a crescere;

Ma cresce solo, vuota,

La mia vecchiaia odiosa...

 

Come ora, era di notte,

E mi davi la mano, fine mano...

Spaventato tra me e me m'ascoltavo:

È troppo azzurro questo cielo australe,

Troppi astri lo gremiscono,

Troppi e, per noi, non uno familiare...

 

(Cielo sordo, che scende senza un soffio,

Sordo che udrò continuamente opprimere

Mani tese a scansarlo...)

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, pp. 180-181)



Iliá Repin, "Ivan il Terribile e suo figlio"
(da questa pagina web)


domenica 12 settembre 2021

Gli occhi nella poesia italiana decadente e simbolista

 

I versi dei poeti simbolisti parlano spesso di occhi femminili, che posseggono una serie di requisiti e, direi, di poteri tali da ipnotizzare chi li osserva. A volte sono paragonati a pietre preziose (Angeli, Cena), altre volte ai laghi e alle ruote dei pavoni, come fa Govoni, che in Ottavario degli occhi elenca una serie di tipologie relative agli occhi, tutte associate a determinate categorie dell'umanità. Ci sono dei poeti (Guglielminetti, Oxilia) che ripensano agli sguardi fuggitivi del passato, rammaricandosi del fatto che il tempo abbia travolto inesorabilmente quegli occhi incontratisi per brevissimo tempo. A volte l'occhio non è umano, come nella poesia di Garoglio, che vede l'orbita lunare simile ad un occhio stanco, che lo osserva "infermo attediato senza alcuna / speranza..."; alla stessa stregua, Venditti vede l'occhio lunare il quale, stanco di vegliare "su 'l mondo che soffre e non dorme", piangendo si sprofonda nel mare. C'è poi un'aura di mistero che di sovente aleggia nella presenza di occhi quanto mai insondabili e di cui non si conosce neppure il proprietario (in quest'ultimo caso essi terrorizzano il povero poeta che si sente osservato in qualunque momento); Moscardelli invece, identifica degli occhi che si aggirano per le strade del mondo in ogni momento, in cerca di "fratelli lontani / sperduti, sconosciuti".

 

 

 

 Poesie sull'argomento

 

Diego Angeli: "I suoi occhi" e "Il mistero degli occhi" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Giovanni Cena: "Gli occhi" e "Quegli occhi" in "In umbra" (1899).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Gli occhi" in "Le poesie" (1912).

Guglielmo Felice Damiani: "Occhi" in "Lira spezzata" (1912).

Arturo Foà: "Gli occhi" in "Le vie del'anima" (1912).

Diego Garoglio: "Occhio velato..." in "Sovra il bel fiume d'Arno" (1913).

Corrado Govoni: "I tuoi occhi" e "Ottavario degli occhi" in "Gli aborti" (1907).

Amalia Guglielminetti: "Occhi ignoti" in "Le Seduzioni" (1909).

Corrado Govoni: "Laghi" in "Le fiale" (1903).

Enzo Marcellusi: "Gli occhi" in "I canti violetti" (1912).

Nicola Moscardelli: "Occhi" in "La Veglia" (1913).

Ada Negri: "Gli occhi" in "Dal profondo" (1910).

Nino Oxilia: "Al tetro buio crocicchio..." in "Canti brevi" (1909).

Giovanni Tecchio: "Gli occhi" in "Canti" (1931).

Mario Venditti: "Il martire insonne" in "Il terzetto" (1911).

 

 

 

 Testi

 

 

QUEGLI OCCHI

di Giovanni Cena

 

Perché..? Perché, rincasando,

dovere tutte le sere

passare per quelle nere

colonne dell'atrio? Quando

 

la grande porta ebbi aperta,

tremarono i miei ginocchi.

Sempre, sempre quegli occhi

dentro la tenebra incerta!

 

Ristettero i piedi gravi...

Dover passare, lambire

quasi il suo corpo, sentire

quegli occhi rossastri, cavi,

 

larghi così che vie più

parevano dilatarsi!

Io lo sentivo già farsi

presso. Ma come si fu

 

in mezzo a l'atrio, stette.

Densa era l'ombra su lui.

Fuggire negli angoli bui?

Strisciare lungo le strette

 

pareti? Ma come, se

sentivo il suo petto ansare

su me, la bocca alitare

rapida, calda, su me?

 

Immoto stetti: non più di

un attimo. Ah! infinito!

E guardai inorridito

gli occhi. E sentii come ignudi

 

coltelli gelidi, acuti

lungo le carni strisciare.

Gridare volli, gridare...

Grevi erano i labri e muti.

 

Quando mi scossi, salii

rapido, come avessi ale:

e seguianmi per le scale

ansamenti e scivolii.

 

Apersi, chiusi, ed entrai

sotto le coltri tremante.

Rimasi per un istante

soffocato... Ascoltai...

 

Udii alcuni rintocchi

lontani, brevi... Ripresi

fiato. Poi tutto mi stesi...

Orrore! con chiusi gli occhi,

 

io vidi, vidi quegli occhi

traverso le ciglia, sempre,

traverso le coltri! Sempre

quegli occhi! Sempre quegli occhi!

 

(da "In umbra", 1899)

 

 

 

 

GLI OCCHI

di Giovanni Tecchio

 

Stan la vita e la morte in fondo agli occhi:

Tra la raminga umana folla ascosi,

Balsami sono all'anima preziosi,

O pur sottili acuminati stocchi.

 

E neri e ardenti, donde pare scocchi

Quasi un dardo mortal; dolci e amorosi,

Aridi e freddi o in lacrime pietosi,

Di virtù pieni o dal dolor non tocchi.

 

In voi, vivi carbonchi, o torvi o queti,

O del color del mare occhi sereni

Di vergini sognanti e di poeti;

 

Soavi occhi di pie, candide suore,

In voi, tinti d'amore o di veleni,

L'arduo mistero è in tutti voi del cuore.

 

(da "Canti", 1931)



Odilon Redon, "Closed Eyes"
(da questa pagina web)


 

domenica 5 settembre 2021

"Dall'anima. Ricordi e sogni" di Costanzo Gazzera

 

Poeticamente parlando, il nome di Costanzo Gazzera è legato ad un solo volumetto di versi, intitolato Dall'anima. Ricordi e Sogni. Questo libriccino fu pubblicato dall'editore Streglio di Torino nel 1898. Ora, rimane difficile stabilire chi sia Costanzo Gazzera; mi sembra improbabile infatti che si tratti del famoso archeologo italiano nato a Bene Vagienna nel 1778 e morto a Torino nel 1859; ed è improbabile sia per il fatto che, nell'anno in cui uscì questo volumetto, costui fosse scomparso da ben quarant'anni, ma anche perché, leggendo i versi della raccolta, ci si accorge che appartengono ai tempi in cui il libro andò alle stampe, e non possono essere stati scritti mezzo secolo prima. Questa tesi è confermata anche dal sito Internet Culturale, in cui è possibile consultare i cataloghi delle più o meno grandi biblioteche italiane, e che, nella scheda del libro in questione, aggiunge al nome di Costanzo Gazzera la dicitura: "omonimi non identificati". Dato quindi per certo che si tratta di omonimia, mi preme aggiungere che questi pochi versi furono scritti da un eccellente poeta, e che il volumetto, nel periodo in cui fu pubblicato, venne segnalato da alcune riviste importanti. La raccolta Dall'anima (Ricordi e sogni è il sottotitolo) si compone di 27 poesie, racchiuse in 56 pagine. Dopo il preambolo: tre sonetti preceduti dalla dicitura Alla memoria de' miei fratelli DOMENICO ed ONORATO, seguono tre sezioni intitolate rispettivamente: IL DRAMMA, TRISTE ANIMA e LE CONSOLATRICI DELLA VITA. Leggendo tutte le poesie, ciò che emerge maggiormente è un senso di profonda tragicità - dovuto anche alle dolorose esperienze personali - e un saldo legame familiare; non è un caso che in molte di queste poesie i protagonisti siano i parenti più stretti del poeta. Quest'ultimo elemento (ma anche il primo è pertinente) avvicina decisamente il Gazzera alla poetica di Giovanni Pascoli, ed in particolare ai temi della raccolta Myricae, che proprio in quegli anni veniva pubblicato dal poeta romagnolo, con edizioni nuove e arricchite di ulteriori versi. Un altro elemento che si nota chiaramente è un frequente riferimento all'acqua, che quasi sempre è collegata alla morte (nella poesia Il gorgo, per esempio, si parla di un tragico evento che coinvolse due giovinetti). Infine, soprattutto nelle ultime liriche, il Gazzera pone in risalto le figure femminili, siano esse vere (la sorella, la madre e la sposa), siano immaginarie o leggendarie (Ofelia, l'amante e la musa); tutte quante o quasi, vengono incluse nella terza sezione che porta un titolo molto simile a quello di una raccolta di Giovanni Alfredo Cesareo, ma che non credo possa avere avuto alcuna influenza sul Gazzera. Ricordo infine che, a quanto ne so, altri due sonetti del medesimo autore, esclusi da questa raccolta, furono pubblicati nel medesimo anno della sua uscita, ovvero nel 1898, dalla Gazzetta letteraria. Dopo Dall'anima, di Costanzo Gazzera non si seppe più nulla, e nemmeno si è mai saputo se questo fosse il suo vero nome o soltanto uno pseudonimo (forse proprio questo elemento fece sì che in molti ritennero l'archeologo scomparso da quarant'anni quale autore di questi versi). Chiudo riportando due fra le migliori poesie tratte da Dall'anima.

 

 

 


 

 

 

L'ANIMA

 

L'azzurro, la porpora e l'oro

distendon lor riso nei cieli

con mutevol vicenda:

poi tendono lividi veli

le nubi, chiudenti tremenda

ruina in lor seno.

 

Poi migran pel cielo sereno,

com'esili fiocchi di lana,

candidi cirri a schiere:

fioriscon nel cielo una vana

vicenda di mostri e chimere

le nubi dileguanti.

 

Un lembo dei cieli cangianti

io penso esser l'anima, gioia

del sole a quando a quando.

Poi nubi vi tende la noia,

e nembi il dolore: migrando

sempre passano i sogni.

 

(da "Dall'anima. Ricordi e sogni", Streglio, Torino 1898, p. 27)

 

 

 

 

L'AMANTE

 

Da la mia fronte, o Amica ignota ancora,

tu con le dita tremule trarrai

la invisibil ghirlanda, ond'ebbi assai

spine al cervel che tutto ne dolora.

 

Io avrò ne gli occhi una novella aurora,

la bella luce ch'io non vidi mai...

O qual corona al capo mio darai

tutta di sogni, o Amica ignota ancora?

 

Ecco, tra il vel di lagrime che gli occhi

lucido offusca, or io ti vedo, o Ignota,

che me, me chiami alla novella via:

 

e mi par che una dolce melodia

lenta mi giunga, pallida, remota...

O fantasma, ecco, a te piego i ginocchi.

 

(da "Dall'anima. Ricordi e sogni", Streglio, Torino 1898, p. 52)