Molto probabilmente, nella vita di un essere umano, non esiste dolore, per quanto intenso, simile a quello che si prova nel vedere un figlio morire prematuramente. Sopravvivere alla propria prole è innaturale; quando questo tristissimo evento accade, i genitori non riescono a farsene una ragione. Le dieci poesie che ho selezionato esprimono in versi, il dolore di dieci padri che hanno dovuto sopportare il supplizio della morte di un figlio. In questi casi, la scrittura può divenire una valvola di sfogo; un modo per scaricare sul bianco delle pagine di un quaderno, una sofferenza estrema e insopportabile; certo, questa è soltanto una lieve consolazione, poiché il dolore, quando si verifica un lutto del genere, non può essere eliminato in alcun modo, e può rimanere ben presente per il resto della vita.
DISPERATA
di Jacopo
Bocchialini (1878-1965)
Ti pregai con
ciglia riarse
mi svelassi il
bambino mio:
e svelarlo
dovevi, o Dio,
se il tuo amore
fu che lo arse!
Ma la voce a te
non saliva,
dentro solo
suonava al core...
Troppo in alto
eri, o Signore:
ardea vana la
fiamma viva.
Più non piansi:
l'ira ti dissi
ch'era nata del
mio dolore;
poi che vano era
il mio amore
del mio odio solo
rivissi.
E la bocca io
n'ebbi amara,
n'ebbi amara
tutta la vita;
ma pur l'ira
cadea sfinita,
come un'onda
sempre più rara.
Perché torno? Né
odio né amore
a te guida il
core riarso:
se demente egli
t'è apparso
tu perdona al
misero cuore.
Più non sono quel
ch'ero, o Dio:
membra ho
stanche, cuore distrutto;
nulla chiedo,
perduto ho tutto...
ma rivelami il
figlio mio!
(da "Nido
nella siepe", Treves, Milano 1921, pp. 18-19)
IL DESERTO
di Edmondo
Corradi (1873-1931)
Ell'era tutta
bianca, in suo candore
di neve. E neve
giù dal ciel di piombo
scendeva
lentamente sulle siepi
sui sentieri
deserti, sovra i campi
che si stendeano,
muti, in lontananza.
Andava ella così
nell'infinita
immensa
solitudine ghiacciata.
E camminava così
lieve, che
il suo piede sui
margini, non una
traccia lasciava.
A qual meta traeva
la leggiadra
parvenza? A lei d'intorno
protendean le
ramaglie desolate
i rami brulli,
che piegavan sotto
il peso della
neve. Io la seguivo
con lo sguardo
smarrito. A poco a poco
la parvenza
spariva. D'improvviso
tutto dinanzi a
me fu bianco candido
sotto il cielo di
piombo, e l'aer grigio
infuriò tra le
piante e un cane sperso
in lontananze
ignote, fece il verso
del lupo. Udii
una squilla vibrare...
e non la vidi
più. Sulla bambina
la neve cadde,
ancora, ancora, ancora!
E una squilla
vibrò lenta, sonora
e un canto
malinconico diffuse
nell'aria morta
le sue note. Morta!
(da "Dolce
infanzia serena", Cappelli, Rocca S. Casciano 1919, pp. 67-68)
ZITTI! ZITTI!
di Luigi Crociato (Luigi Krischan, 1870-1935)
Zitti, zitti,
bambini!... Non e vero
che vota e la sua
culla:
È stato un sogno
mesto e passeggero.....
Egli e là che trastulla...
È la il mio
ninnolo,
la il mio
Chinucci,
che imboccia per
i tiepidi
molli labbrucci,
perché del bacio
il fiore
se ne dischiuda,
e olezzi il primo amore.
La testolina a
riccioli,
bavella
rubiconda,
bambini, è la,
guardatela...
Da gli occhi azzurri
come un fiordaliso,
oh, quanta e
inenarrabile
soavità
profonda...!
Eppur, non mai
che brillino
d'un unico
sorriso,
i belli e
benedetti
melanconici
occhietti...!
Con morbido
ditino
le cose ei tocca
appena;
non so perché; il
mio Chino
forse le prova, e
forse n'à gran pena...
Non à ancor data
mai parola alcuna...
Forse quell'aura
cerula
ch'annimba la sua
cuna,
oscilla ancor di
musiche
udite non so
dove... Zitti... Zitti...!
Àn molto sonno
quegli occhietti afflitti...
Non è ver che de
l'alba
era in quel dì
piu bianco...
Era una luce
scialba,
e lui parea più
stanco.
Ah, non è ver che
un rigido
vento lo fe' di
gelo...!
Ah, non è ver che
l'angelo
è rivolato in
cielo...!
Àn molto sonno
quegli occhietti afflitti...
Bambini...
Zitti... Zitti...
(da "Canta
il selvaggio", Voghera, Roma 1912, pp. 37-38)
MORTE DI OFELIA
di Auro D'Alba (Umberto Bottone, 1888-1965)
M'hanno detto che
fuori c'è il mondo
il mondo di
prima.
Non l'ho creduto
e mi sono
accostato al davanzale.
Ho visto passare
gente
che non vestiva
di nero,
l'erba negli
orti, i giardini fioriti
il cielo d'un
azzurro spietato.
Sono fuggito per
non gridare.
Ma poi son
tornato a guardare
se mi fossi
ingannato.
No, non può
essere vero
che tutto il
mondo di prima
s'agiti ancora.
Forse non sanno
gli uomini
le cose
il sole
(ma il Cielo
dovrebbe sapere)
che tu non
cammini più
non cammini più
sulla terra
dove ridendo
imparasti il dolore.
Più tardi il
Cielo si è messo a tremare.
Uomini, fermatevi
un attimo,
spegnetevi,
stelle,
è morta la mia
creatura!
(da
"Poesie", Ceschina, Milano 1961, p. 109)
I RIMASTI
di Giuseppe
Gerini (1895-?)
La morte non
discrimina,
Figliola.
Figlia mia,
Figlia rapita
ancor giovane e
bella.
E siamo noi,
oggi,
tua madre ed io
che ti generammo,
sono con noi
questi due
stretti orfani...
i rimasti.
Forse, Signore,
per amare di più
in questo esilio
fissando di qui
lo sguardo,
che le lacrime
d'ora in ora
fanno
più limpido e
fermo,
nella vera
eternità.
(da "Poesie
1928-1962", Guanda, Parma 1963, p. 157)
VORREI DORMIRE IN
QUEL CAMPOSANTINO
di Corrado Govoni (1884-1965)
Vorrei dormire in
quel camposantino
di Monte, nel
paese di mia madre;
e sul lato del
cuor, con me mio figlio.
Per spaventare il
piccolo Aladino
lo portammo a
veder dietro la casa
nella sua grotta
l'orco sagginato
che russava col
muso dentro il truogolo,
e le fate in
castigo alla capanna
di gambi di
granturco, oche spennate.
Era il tempo dei
fieni; e i falciatori
si gettavano
chicchirichì allegri
da collina a
collina per richiamo.
S'apre lì in
fondo all'aia col suo carro,
con le pervinche nere
delle croci
ch'io vidi tutte
curve dalla pioggia
con l'erba, il dì
che fece il temporale:
di lì sbocciò
l'arcoceleste; e il tuono
rotolò così basso
e così gaio
come un sacco di
noci sul granaio.
(da "Poesie
1903-1958", Mondadori, Milano 2000, p. 312)
LA MORTA
di Marino Marin (1860-1951)
Selva d'acacie in
fior, tu lenta al giallo
mattin di tenui
gocciole t'imperli,
né ancor dai remi
il chioccolio de' merli
risponde lo
squillar rauco del gallo.
Un brivido ha il
silenzio alto fra l'erbe
qual se una larva
innanzi al dì s'involi:
l'alto silenzio
ha voci di dolore:
su lente acque,
per via, cadono acerbe
lacrime e scarsi
rai: noi siamo soli;
soli, ed a lei ne
li occhi il riso muore.
Perché? Vede ella
pur, tra fiore e fiore,
come io vedo,
implorare umile e affranta
l'Altra, la
Morta, questa larva santa
che fugge a lo
squillar rauco del gallo?
(da "Luci e
ombre", Zanichelli, Bologna 1904, p. 143)
CAMMINAVI DIETRO
A NOI
di Angiolo Silvio
Novaro (1866-1938)
Camminavi dietro a noi, e ora siamo noi che
camminiamo dietro a te.
Ti dicevamo. Così va fatto, Jacopo — e tu
c'insegnasti come va fatto, e per sempre.
Questo amore da cui discendevi, è esso ora
che sale e ti cerca come il moribondo l'ossigeno.
Tu che ricevesti la vita, sei tu che ora ce
la dispensi.
Chi ti nutriva si nutre di te, si colora di
te, si orienta in te. Si volge a te per sapere che nome dare alle sue ore. La
speranza ha il tuo volto. La felicità ha il tuo volto.
Questo amore che si credeva qualcuno, è la
tua umile e mansueta ombra. Si credeva tuo padrone, e ti serve in ginocchio.
Pensava esistere senz'aiuto, e tu gli sei indispensabile. Il suo timone sei tu,
la sua stella polare sei tu.
Esso che ti giustificava, sei tu ora che lo
giustifichi — e per sempre.
(da "Il
fabbro armonioso", Treves, Milano 1922, pp. 15-16)
LETO VI
di Leonida Répaci (1898-1985)
Principia a
nevicare
e io penso a quel
bambino
che dorme nella
zolla.
Questa neve che
ora lo copre
egli non l'ha mai
veduta
giacché neppur
per un attimo
nel passaggio dal
grembo materno
a quello della
terra
ha aperto gli
occhi.
Qualche voce gli
dirà
che quel mantello
posatosi
su lui è un
regalo
di Natale ai
bambini
nati morti.
Piccolo re
immobile
di un presepe di
ombre
egli aspetterà
nella culla
gelida i Magi che
invece
di oro incenso e
mirra
gli portino quel
latte
che ora soffre di
non potere
sgorgare dal seno
della madre
pallida.
(da
"Poesie", Rubettino, Soveria Mannelli 1999, p. 84)
GRIDASTI: SOFFOCO
di Giuseppe
Ungaretti (1888-1970)
Non potevi
dormire, non dormivi...
Gridasti:
Soffoco...
Nel viso tuo
scomparso già nel teschio,
Gli occhi, che
erano ancora luminosi
Solo un attimo
fa,
Gli occhi si
dilatarono... Si persero...
Sempre ero stato
timido,
Ribelle, torbido;
ma puro, libero,
Felice rinascevo
nel tuo sguardo...
Poi la bocca, la
bocca
Che una volta
pareva, lungo i giorni,
Lampo di grazia e
gioia,
La bocca si
contorse in lotta muta...
Un bimbo è
morto...
Nove anni, chiuso
cerchio,
Nove anni cui né
giorni, né minuti
Mai più
s'aggiungeranno:
In essi
s'alimenta
L'unico fuoco
della mia speranza.
Posso cercarti,
posso ritrovarti,
Posso andare,
continuamente vado
A rivederti
crescere
Da un punto
all'altro
Dei tuoi nove
anni.
Io di continuo
posso,
Distintamente
posso
Sentirti le mani
nelle mie mani:
Le mani tue di
pargolo
Che afferrano le
mie senza conoscerle;
Le tue mani che
si fanno sensibili,
Sempre più
consapevoli
Abbandonandosi
nelle mie mani;
Le tue mani che
diventano secche
E, sole -
pallidissime -
Sole nell'ombra
sostano...
La settimana
scorsa eri fiorente...
Ti vado a
prendere il vestito a casa,
Poi nella cassa
ti verranno a chiudere
Per sempre. No,
per sempre
Sei animo della
mia anima, e la liberi.
Ora meglio la
liberi
Che non sapesse
il tuo sorriso vivo:
Provala ancora,
accrescile la forza,
Se vuoi - sino a
te, caro! - che m'innalzi
Dove il vivere è
calma, è senza morte.
Sconto,
sopravvivendoti, l'orrore
Degli anni che
t'usurpo,
E che ai tuoi
anni aggiungo,
Demente di
rimorso,
Come se, ancora
tra di noi mortale,
Tu continuassi a
crescere;
Ma cresce solo,
vuota,
La mia vecchiaia
odiosa...
Come ora, era di
notte,
E mi davi la
mano, fine mano...
Spaventato tra me
e me m'ascoltavo:
È troppo azzurro
questo cielo australe,
Troppi astri lo
gremiscono,
Troppi e, per
noi, non uno familiare...
(Cielo sordo, che
scende senza un soffio,
Sordo che udrò
continuamente opprimere
Mani tese a
scansarlo...)
(da
"Poesie", Newton Compton, Roma 1992, pp. 180-181)
Iliá Repin, "Ivan il Terribile e suo figlio" (da questa pagina web) |
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