domenica 1 agosto 2021

Roma in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Roma è la mia città di nascita ed è anche la città in cui vivo, quindi non potevano mancare, in questo blog, delle poesie dedicate a quella che è stata definita "Città eterna". Io non so se sia veramente eterna, ma certamente Roma è una delle metropoli più belle e visitate del mondo. I poeti che ho scelto in questa selezione, non sono tutti romani, ma tutti hanno amato Roma e la gran parte di essi ha vissuto molti anni nella capitale italiana. Questi versi a volte parlano di specifici luoghi romani, che possono essere quartieri, piazze o tratti di strade famosissime; Corazzini definisce "Isola dei morti" la nota Isola Tiberina, poiché tanti anni or sono, vi si trovava un vero e proprio lazzaretto in cui, purtroppo, andavano a morire migliaia di persone gravemente malate. Ci sono poeti che descrivono Roma in determinate stagioni; altri si ricordano di particolari momenti della loro vita nella capitale italiana; altri ancora si lamentano dei comportamenti spesso assunti da determinati romani. Un discorso a parte merita Giorgio Vigolo: poeta nato e vissuto sempre a Roma, che ha decantato, sia in verso che in prosa, le infinite bellezze di Roma in modo incantevole, e che qui certamente non poteva essere assente.

 

 

 

COLOSSEO

di Elio Filippo Accrocca (1923-1996)

 

Da quella mia finestra

penetra, nell'orchestra

assorto, il gaio colle

che al molle oppio del nome si richiama

e dice a rude, che ama, pietra (come

nel verde può sua brama

nascondere?): "La trama

del suo lento raggiro non si perde".

 

(da "Ritorno a Portonaccio, Mondadori, Milano 1959, p. 126)

 

 

 

 

AURELIA ANTICA

di Elena Clementelli (1923-2019)

 

  Sulla pomposa porta pontificia

piegano il dorso pini sconosciuti.

Consueto passaggio

che la fretta di tutti i giorni

a pertugio obbligato riduce.

Oggi ci astrae

nella sosta allo scatto del semaforo

il contorno di cose che un chiarore

alto di luna fa scure e precise,

mentre si placa la malattia d'andare

sempre fuggendo,

fissi gli occhi a un vuoto

che l'esistere stesso pone in forse

o ha già annientato.

No,

se trionfa anche un solo istante

questa capacità di assumere

un brivido esteriore di vita

e farlo nostro nello stupore

da cui sempre nasce e rinasce la coscienza

d'essere presenti.

 

(da "Così parlando onesto", Garzanti, Milano 1977, p. 35)

 

 

 

 

ISOLA DEI MORTI

di Sergio Corazzini (1886-1907)

 

Il lampione di San Bartolomeo

non si rassegna alla sua mala sorte;

il tragico fanale della Morte

rinnovella il martirio prometeo?

 

Veglia se vada il funebre corteo

del morto ignoto oltre le fosche porte

ove già tante creature morte

stanno come in un fetido museo.

 

Su le pietre, dai luridi lenzuoli

cola il sangue nerastro degli umani

che agonizzaron, nella notte, soli.

 

Ritto, immoto, su l’isola terribile,

per i fratelli che sono lontani

arde il fanale d’odio inestinguibile.

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1992, p. 139)

 

 

 

 

PRIMAVERA ROMANA

di Donata Doni (pseud. di Santina Maccarone, 1913-1972)

 

Non puoi rifiutarla.

Ti assale con i suoi fiori

la primavera.

Le cascate dei glicini

lungo le strade,

i grappoli dei lillà

nei chioschi dei fiorai,

le rose che si affacciano

dai cancelli delle case,

le candide siepi di spirea,

le calle immacolate,

il rosa tenue dei gerani

spinto oltre i balconi.

E tanti tanti altri fiori.

Ti tradisce un risveglio nel cuore

che la neve

di lunghi inverni

rese di pietra.

Un tremore sottile

come l'aura che passa

tra le acacie in boccio.

Non puoi rifiutarla.

Anche per te,

per i tuoi occhi smemorati

è venuta la primavera.

 

                            Roma 27 aprile 1971

 

(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, pp. 85-86)

 

 

 

 

PORTA SAN GIOVANNI

di Luciana Frezza (1926-1992)

 

Il mio vecchio quartiere

con un sospiro di colori e odori

risuscita con me nel mezzogiorno

sfumato dal primo caldo, si leva

brulicante preghiera alla basilica

- ingranaggio di marmi e antri gelidi

soverchiati dall'azzurro e l'alta passeggiata dei Dodici -

festeggia il mio ritorno

con rosse trombe distese

all'ombra dei baracconi

la porchetta soave

le conocchie di spigo per la veglia

della notte stregata.

 

Città sangue

tante volte rifiutata

per quante ho rifiutato me stessa,

oggi festosa e lacera, impugnata

bandiera della mia vita, dai tempi

dai luoghi, è questo il nostro incontro.

 

(da "Comunione col fuoco. Opera poetica", Editori Internazionali Riuniti, Urbino 2013, p. 297)

 

 

 

 

A VILLA MEDICI

di Adriano Grande (1897-1972)

 

Protese mani, le foglie del fico

varcano i muri. Ne sbucano, sassi

della rena d'un rivolo, gli acerbi

frutti azzurrini. Più oltre, dai rami

curvi del cedro, verdi cenci pendono

immoti. Ancor più dietro è il candelabro

storto d'un pino verdescuro; e ancora

più dietro, vaghi ciuffi frastagliati,

schizzano in aria le palme giganti.

Cime e poi cime di aguzzi cipressi

frugano il cielo. Sembran strane piume

di corvo, gonfi pennelli nerastri.

Come cornici di spesso velluto

siepi di tasso e lauro, di mortella

e d'oleandro esaltano aiuole,

vasche, gradini, grotteschi e viali;

forme sapienti quanto le facciate

dei palazzi, rossastre, che il riverbero

sfuma e corrode...

                      È quando la feroce

immensa estate romana tramuta

persino le colonne in tronchi d'albero,

quando gli antichi monumenti oscillano

nella calura come in uno specchio

e le statue si fan creature vive,

pigre, stordite di sole e d'azzurro.

 

(da "Acquivento", Carpena, Sarzana 1962, pp. 106-107)

 

 

 

 

IL PALATINO

di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

 

Sui morbidi cuscini del tempo

il corpo riposa

nel torrido meriggio d'estate.

Il pensiero

non ha la forza di evocare

né ombre né fantasmi

e l'occhio appena sorprende

dei vapori trasparenti

che salgono dalla terra

e il calore discioglie e discolora

nella luce.

Bevute dal sole

le pietre sono bianche

come tombe anonime e deserte

riarse

e le fronde palpitano leggere

di un'aspirazione celeste.

Pel cocente abbandono

i sensi

percepiscono soltanto un profumo:

il presente puzza

e il futuro è termine vago...

il passato non puzza più

ha un vago profumo di foglie secche

il passato.

 

(da "Cuor mio", Mondadori, Milano 1977, pp. 55-56)

 

 

 

 

BELLA ROMA

di Mario Tobino (1910-1991)

 

Bella Roma

quando al tramonto

l'ocra dei palazzi risponde

al sole che se ne va,

mormorio di infinite storie,

archivio di secoli.

Ma, ohimè!

ci sono i romani viventi,

quelli di oggi,

grossi di parole,

si muovono da facchini,

un'orda di bisonti.

 

(da "L'asso di picche. Veleno e Amore secondo", Mondadori, Milano 1974)

 

 

 

 

IO SONO VISSUTO

di Giorgio Vigolo (1894-1983)

 

Io sono vissuto da lunga

epoca in questa città di rimorsi,

di colossei bruciati dal sole,

di nere chiese vendicative;

da lungo tempo il mio sonno accoglie

una fuga di secoli la notte,

come dormissi nel letto d'un fiume

e alta sulla mia testa

andasse l'onda dei morti.

 

Tralucono dentro al mio sonno

gl'incendi dei grandi templi

e i cavalli corrono

sui ponti notturni a Castello

dove la scure è levata.

 

- Ferma, ferma la mano del boja,

grida la voce afona dei sogni:

ma già la mia testa è caduta.

 

(da "La luce ricorda", Mondadori, Milano 1967, pp. 247-248)

 

 

 

 

QUANDO TORNAI A ROMA

di Saverio Vollaro (1922-1986)

 

Quando tornai a Roma pioveva da due giorni,

s'erano ingrossate le fogne

e le fontane salivano diritte senza lavare.

 

I preti e i gatti dormivano

nei loro buchi solenni, una macchia di professori

usciva dal ministero coprendosi di giornali.

 

Il Tevere agitava le prime disgrazie

ed erano chiusi i circoli siciliani.

Vidi operai che riparavano la via Olimpica

 

usando un semolino a pronta presa

conservato nei bidoni, scope e mazzetti di rami.

 

(da "Romoli e rome", Mondadori, Milano 1962, p. 108)



Giovanni Paolo Panini, "Roma antica"
(da questa pagina web)


lunedì 26 luglio 2021

La pietà

 

Mio Dio, se tu veramente

fossi per noi come un padre,

se il Dio che mia madre

chiamava buono e clemente,

se invece di esser l’eterna

vicenda di quello che è,

tu fossi per noi come un re

che benignamente governa,

quale io t’immagino ancora

a volte, con semplicità,

vorrei domandarti pietà

per tutto ciò che dolora:

per l’anima mia che si sente

a un tempo grande ed inane:

umile innanzi ad un cane,

superba innanzi al saccente;

per gli uomini cupi e corrosi,

provati da tutte le prove;

pei poveri senza ricovero

che chiedono un po’ di elemosina;

per la donna a cui nello specchio

il segno del tempo già appare;

per chi deve ancor lavorare

essendo già stanco e già vecchio;

pel piccolo insetto modesto

che s’affanna e che non si vede

e ch’io, camminando, col piede

inconsciamente calpesto;

per tutte le anime buone

di cui s’ignorano i nomi;

per gli asini senza diplomi

che soffrono sotto il bastone;

per gli uomini a cui non somigli,

perché sono gobbi o storpiati;

pei ciechi; per gl’impiegati

che mettono al mondo dei figli:

per tutto ciò che si offre

all’offesa senza difesa;

pel male che non si palesa

da chi n’è colpito e ne soffre!

Per tanto eterno soffrire,

mio Dio, ti chiedo pietà:

ma più ti chiedo pietà

per me, che non so piú soffrire!

 

Stanchezza di questi miei

giorni ch’io vivo a ogni costo!

Un poco d’aria al mio posto

ed io non esisterei.

Per chi vive, chi non esiste

è come se stesse nascosto:

un altro gli occupa il posto

vuotandogli il calice triste.

Il calice: poiché la vita

è come una mensa imbandita,

su cui, da perfetto villano,

il prossimo è lesto di mano.

A volte però gli va male:

il dolce è un impasto di sale,

e un servo bizzarro, il Destino,

gli ha reso imbevibile il vino:

ma l’uomo per ciò non s’arresta,

finché un giramento di testa

lo smemora da tutti i mali

fra il gaudio dei commensali.

La storia un po’ matta e un po’ seria

ha questa morale: miseria.

 

L’uomo era un po’ di materia

che nulla vedeva e sentiva:

un soffio improvviso l’avviva

ed eccoti l’Uomo-Miseria:

s’abbranca - il perché non lo sa -

a un lembo rotondo d’ignoto,

e via che parte nel vuoto

a tutta velocità:

il tempo di dire: - Son qui -

senza capir ciò che dice

e di gridar ch’è infelice...

poi, zitto. Tutto finì.

Stupore di me, senza fine!

Io stesso che vedo e che sento

mi trovo in quel dato momento

che sta tra il principio e la fine!

Mio Dio, se tu mi prometti

di esistere veramente,

ti prego d’esser clemente

con tutti noi poveretti;

ma se per caso ti sbrachi

per noi d’un gran riso beffardo,

usaci questo riguardo:

di crederci tutti ubriachi.

 



 

La pietà è il titolo del settimo capitolo del poemetto Il giorno, di Carlo Vallini (Milano 1885 - ivi 1920). Tale poemetto fu pubblicato in un esiguo volume dall'editore Streglio di Torino nel 1907. Lo stesso, entrò a far parte, con il resto delle poesie di Vallini, nel volume Un giorno e altre poesie, pubblicato da Einaudi in Torino nel 1969. Infine, nel 2010 il poemetto è stato di nuovo stampato nel libro Un giorno e La rinunzia, uscito grazie all'editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Io ebbi modo di leggere quest'opera poetica interessantissima, all'interno dell'antologia Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, Milano 1983); qui, fortunatamente, viene riportata per intero (La pietà si trova alla pagina 652 e seguenti, come dimostra anche la foto sopra). Devo dire che mi piacque immediatamente, e la ritengo tutt'ora uno dei risultati più significativi e affascinanti della poesia crepuscolare. Questo capitolo - come del resto quasi tutti gli altri - di Un giorno, è direttamente collegato con quello che lo precede; dopo aver parlato dell'amore in modo disincantato, il poeta si rivolge a Dio da non credente (e quindi il tutto appare una farsa), chiedendogli di avere un senso di pietà per gli esseri viventi che provano dolore; da qui Vallini cita una serie di categorie - umane e non - che per qualche motivo soffrono (e una volta di più vengono fuori dei versi estremamente ironici), per giungere ad un discorso esclusivamente personale, che rivela una stanchezza di vivere giunta ormai al colmo. Poi, Vallini esterna altre considerazioni che hanno a che vedere con l'assurdità della vita e con un giudizio impietoso verso l'umanità intera, descritta in questo caso come è, senza alcun velo pietoso. Qui, come in altri punti del poemetto, emerge il pessimismo, se non il nichilismo del poeta piemontese: modus operandi che proseguirà in forma ancor più palese in alcune famose liriche dell'amico Guido Gozzano. Nella parte finale di questo capitolo, ritorna di nuovo quell'ironia amara che aveva caratterizzato l'inizio dello stesso, e che è alla base di questo poemetto indimenticabile. Veramente un peccato che, dopo Un giorno, Vallini non pubblicò più nulla, a parte qualche rara poesia su riviste dell'epoca; infine, a causa delle gravi ferite riportate durante la Grande Guerra, morì a soli trentacinque anni.

 

domenica 25 luglio 2021

Per organo di Barberia

 

Pagina 713 del volume: "I problemi", D'Anna, Messina-Firenze 1975


I.

Elemosina triste

di vecchie arie sperdute,

vanità di un’offerta

che nessuno raccoglie!

Primavera di foglie

in una via diserta!

Poveri ritornelli

che passano e ripassano

e sono come uccelli

di un cielo musicale!

Ariette d’ospedale

che ci sembra domandino

un’eco in elemosina.

 

II.

Vedi: nessuno ascolta.

Sfogli la tua tristezza

monotona davanti

alla piccola casa

provinciale che dorme;

singhiozzi quel tuo brindisi

folle di agonizzanti

una seconda volta,

ritorni su` tuoi pianti

ostinati di povero

fanciullo incontentato,

e nessuno ti ascolta.

 

 

Questa è, insieme a Desolazione del povero poeta sentimentale, la poesia più famosa di Sergio Corazzini (Roma 1886 - ivi 1907). Fu pubblicata per la prima volta nel volumetto intitolato Piccolo libro inutile, stampato nella Tipografia Operaia di Roma nel 1906. Questo libriccino, oltre alle poesie di Corazzini, contiene anche i versi di Alberto Tarchiani (Roma 1885 - ivi 1964): un amico di Sergio che in seguito abbandonò la poesia per intraprendere la carriera diplomatica. Io lessi questa lirica tanti anni fa, in un libro scolastico dei tempi del liceo da cui ho tratto la foto che apre questo post; per la verità, non la lessi sui banchi di scuola, perché il programma di allora non includeva i poeti crepuscolari. Soltanto alcuni anni dopo, recuperai chissà come alcuni libri di scuola finiti nello sgabuzzino della mia casa; così, quasi in modo casuale, ebbi la ventura di leggere questa bellissima poesia. Già il titolo mi lasciò perplesso, poiché non sapevo cosa fosse un organo di Barberia; immediatamente m'informai: trattasi di uno strumento musicale simile ad un piccolo organo, montato su ruote e suonato utilizzando una manovella; era spesso usato più di un secolo fa, dai suonatori ambulanti; era facile allora, soprattutto nelle piazze delle città, incontrarne qualcuno che lo suonasse, affinché il pubblico dei passanti apprezzasse la musica emessa, e donasse qualche moneta al suonatore. Forse inutile aggiungere - poiché mi pare fin troppo evidente - che il poeta in questi versi si paragona allo strumento musicale; i suoi versi sono inutili e inascoltati, così come la musica monotona e obsoleta che proviene dall'organetto; il ripetersi, l'ostinarsi del poeta a scrivere versi che nessuno legge, è uguale al replicarsi delle ariette musicali dell'organo di Barberia, che vibrano nell'aria tra la completa indifferenza della gente che passa da quelle parti. Ricordo infine che la raccolta di Corazzini e Tarchiani è stata ristampata in tempi piuttosto recenti (con una interessante presentazione e introduzione), dall'editore San Marco dei Giustiniani di Genova (vedi foto sottostante).  


Frontespizio del volume: Sergio Corazzini e Alberto Tarchiani, "Piccolo libro inutile", introduzione di Stefania Iannella, San Marco dei Giustiniani, Genova 2013