domenica 7 marzo 2021

La nobiltà nella poesia italiana decadente e simbolista

 

In questi versi, numericamente prevalgono i re e le regine, seguiti dai principi e dalle principesse; a parte qualche barone, il resto dei titoli nobiliari è pressoché assente. Le regine sono descritte in vario modo: pensose, disperate o libidinose, quasi sempre si rivelano sofferenti e, in qualche caso, muoiono. Non vale lo stesso discorso per i re, descritti durante le loro occupazioni preferite o - in un'aura di fiaba - alla stessa stregua degli dei; fa eccezione Lucini, che dà la parola ad un re colmo d'ira e di disperazione: quasi al limite della pazzia. I principi invece, spesso si trovano in luoghi isolati, seppur circondati da esseri viventi curiosi, che li spiano. Anche le principesse, più rare, vivono situazioni d' un isolamento forzato, che è dovuto a problemi fisici. Tito Marrone, infine, dedica una poesia alle uniche nobildonne presenti nella Chanson de Roland, ponendo l'attenzione al lato più tragico dell'opera in versi scritta durante il medioevo, che appartiene alla migliore tradizione popolare francese.

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "Saba" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Ugo Betti: "Il figlio del re" e "La principessina cieca" in "Il Re pensieroso" (1922).

Enrico Cavacchioli: "La regina adultera" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Cosimo Giorgieri Contri: "La caccia" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Corrado Govoni "Gli uomini e i cani del re" in "Gli aborti" (1907).

Gian Pietro Lucini: "I Baroni" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Gian Pietro Lucini: "Il Re" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Enzo Marcellusi: "Il re" in "I canti violetti" (1912).

Tito Marrone: "Alda e Braminonda" in «Rivista di Roma», ottobre 1905.

Aldo Palazzeschi: "Il figlio d'un Re" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "Il Principe Bianco" e "La principessa bianca" in "Lanterna" (1907).

Aldo Palazzeschi: "Regina Paolina", "Regina Carmela" e "Regina Carlotta" in "Poemi" (1909).

Antonio Rubino: "La Regina che non dorme" in «Poesia», ottobre 1908.

Carlo Vallini: "L'offerta del Re" in "Un giorno e altre poesie" (1967).

Remigio Zena: "Il mio nome è Cristiana..." in "Le Pellegrine" (1894).

 

 

 

 Testi

 

 

 IL RE

di Gian Pietro Lucini

 

I.

«Ahi, sono il Re, son la Dominazione,

triste di vecchie Torri e di Palazzi.

Antico nome! Io vidi sulli arazzi

scolorirsi le imprese a compassione;

vidi cader le pietre del bastione

nel fango della gora. Anche i topazzi

smuntano al serto, e m'irridono i lazzi

sanguinosi del garrulo buffone.

 

Ahi! vecchio nome: delle Principesse

forse nate da me, non mi ricordo,

cercano filtri dalle Pitonesse

e incantano alla mia prossima morte;

son troppo stanco, ahimè!... quel lieve accordo

d'arpa giovane e sana oltre le porte,

 

II.

queste ferre porte del maniero!

Non vogliate suonar gioja ai festini!

Vecchio Re, vecchio Re! torbido e latero.

Ma io sono la Patria; io sui destini

siedo; a me la zagaglia ed il cimiero.

Son la Città, le Dame ed i Bambini,

la Legge!.. Oh il biondo imberbe cavaliero...

Via, Paggio, tra le Belle a inocui inchini.

 

E queste Principesse... e questi canti?

Ma chiudete nel carcere le bionde

creature mal nate. Ahi! Nell'incanti

d'un bieco strangolar non ho io visto

delle mani liliali, erte e gioconde

stendersi gloriose al grande acquisto?»

 

III.

Tutti mi odiano qui?... Non me ne importa.

Io porto tutto l'oro del paese

dentro al cuore. Chi è là? Che fa la scorta?

Perché s'arruginisce il mio palvese?

Flora, sei troppo bella! Alcun ti ha scorta

nel bagno forse, od un Barone inglese

s'immagò de' tuoi occhi? Oh! questa porta

che stride, Flora!... Chiudi. No, senza difese,

 

povero vecchio! Ma volete sgozzarmi?...

Io porto tutto il Mondo dentro al cuore

ma bevetemi il sangue, tutto il sangue!

Il Boja, il Boja, li Alabardieri, l'armi...

Flora, mia dolce; un veleno;.. oh quel fiore

turgido come un bimbo... e chi langue

 

IV.

la forca, Boja!.. No; non bestemmiate.

Perché vi son dei giovani? La vita

non termina con me? L'arrubinate

labra di Flora stillano un'ardita

malia d'intenzioni; l'ingemmate

mamme voglion dei bimbi. L'Archimandrita

mi sposerà con lei: oh, superate,

sfondate la Torre... Oh la sparita

 

Flora in un lago di sangue! Pietà!

Non vogliate sgozzarmi; son pazzo,

verrò con voi, coi giovani; ho paura;

sono cieco, son sordo, in una oscura

notte che non ha fine, e il mio palazzo

suda veleni, incesti... Via!... Chi è là?!..»


 (da "Il Libro delle Imagini Terrene")

 

 

 

 

 

LA REGINA CHE NON DORME

di Antonio Rubino

 

Su pel cielo in funerei trofei

la conglobata caligine dorme:

varcano l'aria invisibili torme

sciamando forte come scarabei.

 

Ora che l'Ombra attinge con l'enorme

chioma l'arco, non è chi veda Lei,

ma bene sente gli occhi medusei

dell'Ombra la Regina che non dorme.

 

Morsa dal desiderio che non dorme,

poi che il cuore le torcano gl'incubi,

ripete ella il suo lungo urlo uniforme;

 

ma la morta città dei mausolei

è vuota d'echi. Muovono le nubi

su pel cielo fantastici imenei.

 

(dalla rivista «Poesia», ottobre 1908)

 

 

Gustav Klimt, "Porträt der Baroness Elisabeth Bachofen-Echt"
(da questa pagina web)


 

 

 

domenica 28 febbraio 2021

Omaggio personale alla poesia e alla prosa di Giacomo Leopardi


 


Sarebbe del tutto inutile aggiungere, in questo mio post, ulteriori, inutili parole alle tante, ben più importanti, che sono state dedicate all'opera poetica di Giacomo Leopardi. Per questo mi limiterò a sottolineare l'estrema importanza che ha avuto, per me, la poesia leopardiana, conosciuta già sui banchi della scuola media inferiore (che frequentavo nella seconda metà degli anni '70 del XX secolo), e approfondita negli anni successivi, grazie a nuovi e diversi libri scolastici. Quand'ero un adolescente timido, introverso e solitario, leggere alcuni dei versi scritti da Giacomo Leopardi, mi aiutò non poco; fu, per me, come scoprire un amico virtuale: un amico che mi ha preceduto di qualche secolo, ma che ebbi la fortuna di conoscere e di sentire vicino, malgrado la sua assenza. Devo anche aggiungere che grazie al Leopardi ho cominciato ad amare questo tipo di arte; e devo ammettere che la poesia, in precedenza, non mi attraeva più di tanto; proprio tramite la conoscenza dei migliori versi di Giacomo Leopardi, ebbi modo di capire che, grazie alla poesia, era possibile provare emozioni fortissime, scoprire che c'era un identico modo di pensare, amare, soffrire e vivere, tra un essere umano vissuto nella prima parte del XIX secolo e un altro (me stesso), che, non ancora maggiorenne, si era appena incamminato verso l'ultimo ventennio del XX secolo. Scoprii, insomma, che la poesia, la prosa e tutta l'arte in generale, hanno l'imparagonabile potere di unire generazioni vissute in epoche lontane e diversissime. Tra le liriche dello scrittore marchigiano che più mi piacquero ricordo Il sabato del villaggio, L'infinito, Alla luna, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta... Purtroppo, cogli anni, ho trascurato sempre di più i versi di Leopardi, attirato da altri poeti italiani; ciò non toglie che ancora oggi egli sia per me un poeta di fondamentale importanza.

Il mio omaggio a questo scrittore immortale e dotato di un talento veramente eccezionale si conclude con la trascrizione di tre suoi conosciutissimi capolavori, che poi sono quelli che ho amato e tutt'ora amo di più, seguiti da due frammenti in prosa estratti rispettivamente dai Pensieri e dallo Zibaldone.

 

 


 


 

IL PASSERO SOLITARIO

 

 D'in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finché non more il giorno;

Ed erra l'armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell'aria, e per li campi esulta,

Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

Gli altri augelli contenti, a gara insieme

Per lo libero ciel fan mille giri,

Pur festeggiando il lor tempo migliore:

Tu pensoso in disparte il tutto miri;

Non compagni, non voli,

Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;

Canti, e così trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

 Ohimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia,

E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de' provetti giorni,

Non curo, io non so come; anzi da loro

Quasi fuggo lontano;

Quasi romito, e strano

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch'omai cede alla sera,

Festeggiar si costuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa.

Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case, e per le vie si spande;

E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,

Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

Steso nell'aria aprica

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

 Tu, solingo augellin, venuto a sera

Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume

Non ti dorrai; che di natura è frutto

Ogni vostra vaghezza.

A me, se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all'altrui core,

E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro

Del dì presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest'anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirommi, e spesso,

Ma sconsolato, volgerommi indietro.

 

(da "Poesie e prose", Hoepli, Milano 1983, pp. 33-34)

 

 

 

 

 ALLA LUNA

 

 O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, né cangia stile,

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l'affanno duri!

 

(da "Poesie e prose", Hoepli, Milano 1983, p. 36)

 

 

 

 

IL SABATO DEL VILLAGGIO

 

 La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in mano

Un mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno;

E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava,

Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei

Ch'ebbe compagni dell'età più bella.

Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre

Giù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta.

I fanciulli gridando

Su la piazzuola in frotta,

E qua e là saltando,

Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,

Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.

 Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l'altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s'affretta, e s'adopra

Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

 Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

È come un giorno d'allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

 

(da "Poesie e prose", Hoepli, Milano 1983, pp. 65-66)



 

 

Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita; come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime.

(da "Poesie e prose", Hoepli, Milano 1983, p. 582)

 



 

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi.

 

(da "Poesie e prose", Hoepli, Milano 1983, p. 589)

 

 

 

 

 

 

domenica 21 febbraio 2021

Antologie: Antologia della Poesia Cattolica Italiana del Novecento

 

Tra le antologie ad argomento religioso che riguardano la poesia italiana del Novecento, merita una certa considerazione anche questa che uscì a Roma nel 1959, grazie all'UNISC, ovvero all'Unione poeti e scrittori italiani Cattolici. Il curatore è Mario Nanteli (1899-1962), che per quest'opera antologica ottenne il VII premio nazionale di critica letteraria «Cosenza 1959». Dopo una lunga prefazione (ben 64 pagine!), l'antologia inizia con tre poesie di Giovanni Alfredo Cesareo; la poetessa Elena Bono chiude la ricca selezione che comprende 89 poeti. In appendice viene inserita un'ultima e poco conosciuta composizione in versi di Gabriele D'Annunzio, scritta dal poeta abruzzese dopo una visita al celeberrimo affresco L'ultima cena di Leonardo da Vinci. Ai versi del vate, segue un ulteriore saggio riassuntivo che, a mio avviso, va ad appesantire ulteriormente la parte dedicata all'approfondimento e quindi risulta superfluo. Chiudo, come di consueto, riportando l'elenco dei poeti che sono presenti coi loro versi in questa vecchia antologia.

 

 


 

ANTOLOGIA DELLA POESIA CATTOLICA ITALIANA DEL NOVECENTO

 

Cesareo G. A., Novaro A. S., Bertacchi G., Negri Ada, Chiesa F., Occhipinti G., Orsini L., Gerace V., Marrone T., Paolucci P., Papini G., Calcara A., Tozzi F., Mazzoni O., Govoni C., Rosati M., Del Carmelo I., Rebora C., Onofri A., De Maria F., Di Natale R., Melli R., Valeri D., Giuliotti D., D'Alba A., Barile A., Ungaretti G., Villaroel G., Hermet A., Carrieri G., Comi G., Fallacara L., Titta Rosa G., Tosatti B. M., Umani G., Jenco E., Vernieri N., Rivosecchi M., Fiumi L., Bonavia Calogero, Alvano D., Grande A., Pezzani R., Novelli G., Betocchi C., Abbondio V., Pesce-Gorini E., Giacobbe O., Marvardi U., Ademollo E., Vitali M., Capizzano Verri B., Fasolo U., Mercuri S., Josia A., Varisco S., Tosto De Caro A., Dell'Era I., Scafile F., Papasogli G., Marzoli G., Gargiuto G., Consalvatico T., De Simone G., Durand F., Spediacci M., Berardelli F., Corsaro A., Capasso A., D'Amuri M. I., Stipi L. G., Testaverde P., Bevilacqua S., De Franchis C., Rebellato B., Gizzi C., Turoldo D. M., D'Angelo A., Musolino G., Dore G., Del Colle G., Ubiali A., Guidacci M., Frattini A., Tagliabue F., Bettelli C., Carbone D., Bono E.

domenica 14 febbraio 2021

"L'Oratorio d'Amore 1893-1903" di Diego Angeli

 

L'Oratorio d'Amore 1893-1903 è il titolo della seconda e più consistente opera poetica di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937); in verità è anche l'ultima, dato che Angeli, pur continuando a pubblicare versi in varie riviste, dopo questo volume poetico non ne fece uscire altri a sua firma fino alla sua morte. Dell'autore, si può dire che la poesia fu una delle tante discipline a cui si dedicò, e nemmeno la più rilevante, visto che se oggi qualcuno lo ricorda, è per i suoi romanzi, le sue novelle e qualche saggio di guerra. Il libro in questione, che fu pubblicato dalla Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C., in Roma, nel 1904, si sostanzia in 141 pagine e 66 poesie. Non si può nascondere, leggendo questi versi, che Angeli subì una decisiva influenza dalla poesia di Gabriele D'Annunzio, in particolare dalle raccolte L'Isotteo. La Chimera (1889) e Poema paradisiaco (1893); nel contempo, però, mi pare giusto identificare un felice sviluppo e una certa originalità in queste liriche di Angeli, che, già dalla precedente raccolta La Città di Vita (1896), mostravano una capacità indiscussa dello scrittore toscano nel trattare quei temi così cari al decadentismo e al simbolismo, in modo personale e tutt'altro che banale. In queste pagine Angeli approfondisce il discorso iniziato otto anni prima, dimostrandosi oltre tutto un precursore della corrente o scuola crepuscolare, data la malinconia che affiora in diverse composizioni poetiche comprese in questo libro e scritte, come si evince dal sottotitolo, nell'arco di un decennio. Volendo, una volta di più, prendere come riferimento l'antologia Dal simbolismo al déco, si nota che il critico Glauco Viazzi, pur inserendo Angeli nella sezione Ideosimbolisti, esteti, ermetisti, non seleziona alcuna poesia da L'Oratorio d'Amore, preferendo attingere dalle tante liriche che lo scrittore fiorentino pubblicò su riviste prestigiose come Il Marzocco e Poesia; me ne meravigliai e tutt'ora me ne meraviglio, ma noto altresì che nella parte critica, che fa da presentazione a quella antologica, Viazzi cita alcune poesie di questo volume, come si può leggere nel frammento che di seguito riporto, in cui si pone l'accento sul lato psicologico di determinati versi:

 

[...] l'Angeli scrive un rituale d'invocazione, il suo è un esorcismo evocato, ma la Donna rimarrà per sempre l'inattingibile, l'Assente. Se ne ha riprova nel caso in cui l'immagine presenta valenza erotica non latente ma esplicita se non proprio accentuata, e la si può presumere referenziale: si tratta sempre di un reale pensato, ridotto a ricordo, il colloquiale si rivolge sempre ad una assenza (Sopra una gavotta antica), la rimemorazione prevale anche sul versante del presente (La notte dei gigli, caratterizzata com'è, e insistentemente, dalla morte dei gigli, si trasforma in manifestazione esorcistica per contrastare l'assenza e la dissoluzione).¹

 

In riferimento a ciò e per concludere, riporto i testi delle due poesie nominate da Viazzi e presenti ne L'Oratorio d'Amore alle pagine 25 (Sopra una gavotta antica) e 68-70 (La notte dei gigli).

 

 

NOTE

1) Da Dal simbolismo al déco, a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981, tomo primo, pp. 95-96.

 

 

 

 


 

 

 

SOPRA UNA GAVOTTA ANTICA

 

Tutti i lilla fioriranno

nei giardini pieni di fontane.

Ricordate? fu l'altro anno

le promesse non son state vane.

 

Mi avevate detto di venire un giorno

e per voi raccolsi tutti i lilla in fiore.

Ma son morti i lilla! Quando al fin ritorno

voi farete? Quando questo nuovo amore?

 

Ricordate? Ricordate?

Io m'inchino a voi divotamente.

Belle labbra tanto amate

voi non mi rifiuterete niente.

 

Suoneranno in gloria vostra i violini

tra le architetture lievi di mortelle

e vedremo a notte splendere le stelle

mentre odoreranno forte i gelsomini.

 

Ecco, il lilla è già appassito,

la Gavotta muore in lontananza,

muore il mio sogno infinito...

Dite? Dite? Non c'è più speranza?

 

Roma.

 

 

 

 

LA NOTTE DEI GIGLI

 

Morivano i gigli esalando

profumi più ardenti, più gravi:

e si udivano a quando a quando

da lunge richiami soavi.

 

E si udivan misteriosi

accordi sull'ali del vento

e scintillavan radiosi

mille astri nel firmamento.

 

Ed anche si udivan bisbigli

confusi e scrosciar di torrenti:

e tutti morivano i gigli

più gravi, più impuri, più ardenti.

 

Io stavo sul tuo seno, come

fuori del mondo e della vita.

Io stavo sul tuo seno come

in una più lontana vita.

 

Tutto era lontano, ma tutto

viveva nell'animo mio

ed ero sommerso in un flutto

profondo di un profondo oblio.

 

Dove la gran spiaggia sonante

su cui bevvi il filtro letale?

dove il naviglio veleggiante

nel vespro, sull'acqua d'opale?

 

Dove le parole che mai

ho sentito tanto soavi?

Ah i gigli morivano ormai

più impuri, più ardenti, più gravi.

 

Ed io stretto fra le tue braccia

bevevo quel profondo aroma

e tu reclinavi la faccia

su me tra la morbida chioma;

 

e tacevi tutta anelando

ed il tuo respiro segnava

i minuti. Ma fin da quando

quel lento gioire indugiava?

 

Ma quando sarebbe svanito?

Coll'alba? Si udivano canti

lontani, si udiva infinito

il murmure d'acque scroscianti.

 

— Dimani? rispondi, dimani?

ti dissi cercando li intenti

tuoi sguardi, cercando le mani

tue ghiacce — Mi senti? mi senti?

 

Ma tu mi stringesti più forte

al seno ed avesti una sola

parola, ma fino alla morte

sentirò quella tua parola.

 

E tu lo sapevi, tu china

su me — tra la chioma ondosa

era la bocca sibillina

quasi una purpurea rosa —

 

tu l'anima offristi: e fu allora

ogni ultima forza distrutta.

Io vissi una vita in quell'ora

e bevvi quell'anima, tutta.

 

Firenze, maggio.