domenica 14 febbraio 2021

"L'Oratorio d'Amore 1893-1903" di Diego Angeli

 

L'Oratorio d'Amore 1893-1903 è il titolo della seconda e più consistente opera poetica di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937); in verità è anche l'ultima, dato che Angeli, pur continuando a pubblicare versi in varie riviste, dopo questo volume poetico non ne fece uscire altri a sua firma fino alla sua morte. Dell'autore, si può dire che la poesia fu una delle tante discipline a cui si dedicò, e nemmeno la più rilevante, visto che se oggi qualcuno lo ricorda, è per i suoi romanzi, le sue novelle e qualche saggio di guerra. Il libro in questione, che fu pubblicato dalla Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C., in Roma, nel 1904, si sostanzia in 141 pagine e 66 poesie. Non si può nascondere, leggendo questi versi, che Angeli subì una decisiva influenza dalla poesia di Gabriele D'Annunzio, in particolare dalle raccolte L'Isotteo. La Chimera (1889) e Poema paradisiaco (1893); nel contempo, però, mi pare giusto identificare un felice sviluppo e una certa originalità in queste liriche di Angeli, che, già dalla precedente raccolta La Città di Vita (1896), mostravano una capacità indiscussa dello scrittore toscano nel trattare quei temi così cari al decadentismo e al simbolismo, in modo personale e tutt'altro che banale. In queste pagine Angeli approfondisce il discorso iniziato otto anni prima, dimostrandosi oltre tutto un precursore della corrente o scuola crepuscolare, data la malinconia che affiora in diverse composizioni poetiche comprese in questo libro e scritte, come si evince dal sottotitolo, nell'arco di un decennio. Volendo, una volta di più, prendere come riferimento l'antologia Dal simbolismo al déco, si nota che il critico Glauco Viazzi, pur inserendo Angeli nella sezione Ideosimbolisti, esteti, ermetisti, non seleziona alcuna poesia da L'Oratorio d'Amore, preferendo attingere dalle tante liriche che lo scrittore fiorentino pubblicò su riviste prestigiose come Il Marzocco e Poesia; me ne meravigliai e tutt'ora me ne meraviglio, ma noto altresì che nella parte critica, che fa da presentazione a quella antologica, Viazzi cita alcune poesie di questo volume, come si può leggere nel frammento che di seguito riporto, in cui si pone l'accento sul lato psicologico di determinati versi:

 

[...] l'Angeli scrive un rituale d'invocazione, il suo è un esorcismo evocato, ma la Donna rimarrà per sempre l'inattingibile, l'Assente. Se ne ha riprova nel caso in cui l'immagine presenta valenza erotica non latente ma esplicita se non proprio accentuata, e la si può presumere referenziale: si tratta sempre di un reale pensato, ridotto a ricordo, il colloquiale si rivolge sempre ad una assenza (Sopra una gavotta antica), la rimemorazione prevale anche sul versante del presente (La notte dei gigli, caratterizzata com'è, e insistentemente, dalla morte dei gigli, si trasforma in manifestazione esorcistica per contrastare l'assenza e la dissoluzione).¹

 

In riferimento a ciò e per concludere, riporto i testi delle due poesie nominate da Viazzi e presenti ne L'Oratorio d'Amore alle pagine 25 (Sopra una gavotta antica) e 68-70 (La notte dei gigli).

 

 

NOTE

1) Da Dal simbolismo al déco, a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981, tomo primo, pp. 95-96.

 

 

 

 


 

 

 

SOPRA UNA GAVOTTA ANTICA

 

Tutti i lilla fioriranno

nei giardini pieni di fontane.

Ricordate? fu l'altro anno

le promesse non son state vane.

 

Mi avevate detto di venire un giorno

e per voi raccolsi tutti i lilla in fiore.

Ma son morti i lilla! Quando al fin ritorno

voi farete? Quando questo nuovo amore?

 

Ricordate? Ricordate?

Io m'inchino a voi divotamente.

Belle labbra tanto amate

voi non mi rifiuterete niente.

 

Suoneranno in gloria vostra i violini

tra le architetture lievi di mortelle

e vedremo a notte splendere le stelle

mentre odoreranno forte i gelsomini.

 

Ecco, il lilla è già appassito,

la Gavotta muore in lontananza,

muore il mio sogno infinito...

Dite? Dite? Non c'è più speranza?

 

Roma.

 

 

 

 

LA NOTTE DEI GIGLI

 

Morivano i gigli esalando

profumi più ardenti, più gravi:

e si udivano a quando a quando

da lunge richiami soavi.

 

E si udivan misteriosi

accordi sull'ali del vento

e scintillavan radiosi

mille astri nel firmamento.

 

Ed anche si udivan bisbigli

confusi e scrosciar di torrenti:

e tutti morivano i gigli

più gravi, più impuri, più ardenti.

 

Io stavo sul tuo seno, come

fuori del mondo e della vita.

Io stavo sul tuo seno come

in una più lontana vita.

 

Tutto era lontano, ma tutto

viveva nell'animo mio

ed ero sommerso in un flutto

profondo di un profondo oblio.

 

Dove la gran spiaggia sonante

su cui bevvi il filtro letale?

dove il naviglio veleggiante

nel vespro, sull'acqua d'opale?

 

Dove le parole che mai

ho sentito tanto soavi?

Ah i gigli morivano ormai

più impuri, più ardenti, più gravi.

 

Ed io stretto fra le tue braccia

bevevo quel profondo aroma

e tu reclinavi la faccia

su me tra la morbida chioma;

 

e tacevi tutta anelando

ed il tuo respiro segnava

i minuti. Ma fin da quando

quel lento gioire indugiava?

 

Ma quando sarebbe svanito?

Coll'alba? Si udivano canti

lontani, si udiva infinito

il murmure d'acque scroscianti.

 

— Dimani? rispondi, dimani?

ti dissi cercando li intenti

tuoi sguardi, cercando le mani

tue ghiacce — Mi senti? mi senti?

 

Ma tu mi stringesti più forte

al seno ed avesti una sola

parola, ma fino alla morte

sentirò quella tua parola.

 

E tu lo sapevi, tu china

su me — tra la chioma ondosa

era la bocca sibillina

quasi una purpurea rosa —

 

tu l'anima offristi: e fu allora

ogni ultima forza distrutta.

Io vissi una vita in quell'ora

e bevvi quell'anima, tutta.

 

Firenze, maggio.

 

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