mercoledì 23 dicembre 2020

La cornamusa

 I.

Suono di cornamusa lento lento

nell'aria solitaria e grigia io sento:

eco lontana, fievole lamento,

suono di cornamusa lento lento.


II.

O lento suon di cornamusa, alfine

dopo tanto silenzio riudito,

sei forse l'ombra delle mie divine

malinconie, sei forse un mesto invito?


Donde? Dai giorni dell'adolescenza

tenera? O pur dai giorni dell'amore?

O rechi il gemmeo sogno delle aurore

montane nella tua lenta cadenza?


Prati nell'alba, o suon di cornamusa,

e, presso, le montagne alte di neve;

e tu t'effondi nel silenzio greve,

lento lamento della cornamusa.


III.

Oh non cessare, cornamusa lenta;

versami tutta in cuor la tua parola

che ammonisce nell'ombra e che rammenta!


Ch'io mi profondi in lei, ch'io mi risenta

qual ero allora, simile ad ajuola

in cui germogli tenera sementa.





La cornamusa è il titolo di una poesia di Angiolo Orvieto (Firenze 1869 - ivi 1967). Io l'ho trascritta dal volume Verso l'Oriente, pubblicato dall'editore Treves di Milano nel 1902; qui la si legge alle pagine 197-200. Sempre nel 1902, la medesima poesia comparve anche nella rivista «L'Illustrazione Popolare»; qui, però, c' è una variante al 9° verso della seconda parte (Gemi al posto di Prati) e manca la dedica: Ad Angelo Conti, presente nella raccolta citata (come si nota anche nella foto in alto). successivamente, La cornamusa riapparve in una ulteriore raccolta poetica dello scrittore toscano¹, e, infine, in Poesie scelte: volume che ripercorre tutta la carriera poetica di Orvieto². Il tema della poesia è rappresentato dallo strumento musicale detto "cornamusa" e dal suo tipico suono. La cornamusa appartiene alla famiglia degli oboi, ed è molto usata in paesi del nord Europa come il Regno Unito e l'Irlanda. In Italia, invece, è molto più usata la zampogna, che in parte somiglia alla cornamusa. E forse pensando al suono delle zampogne, il poeta, ascoltando un ritmo blando che fuoriesce da una cornamusa, con malinconia ricorda i tempi ormai lontani della sua adolescenza; e proprio ascoltando quel suono così dolce e suadente, ha l'impressione di tornare a vivere quei giorni, sentendosi come un'aiuola in cui rigermogli a primavera la tenera seminagione.

 

 

NOTE

1) Si tratta di La primavera della cornamusa, Bemporad, Firenze 1925.

2) Poesie scelte fu pubblicato da Leo S. Olschki Editore in Firenze nel 1979; La cornamusa si legge alle pagine 201-202.

domenica 20 dicembre 2020

Le ciaramelle

 Udii tra il sonno le ciaramelle,

ho udito un suono di ninne nanne.

Ci sono in cielo tutte le stelle,

ci sono i lumi nelle capanne.

 

Sono venute dai monti oscuri

le ciaramelle senza dir niente;

hanno destata ne’ suoi tuguri

tutta la buona povera gente.

 

Ognuno è sorto dal suo giaciglio;

accende il lume sotto la trave;

sanno quei lumi d’ombra e sbadiglio,

di cauti passi, di voce grave.

 

Le pie lucerne brillano intorno,

là nella casa, qua su la siepe:

sembra la terra, prima di giorno,

un piccoletto grande presepe.

 

Nel cielo azzurro tutte le stelle

paion restare come in attesa;

ed ecco alzare le ciaramelle

il loro dolce suono di chiesa;

 

suono di chiesa, suono di chiostro,

suono di casa, suono di culla,

suono di mamma, suono del nostro

dolce e passato pianger di nulla.

 

O ciaramelle degli anni primi,

d’avanti il giorno, d’avanti il vero,

or che le stelle son là sublimi,

conscie del nostro breve mistero;

 

che non ancora si pensa al pane,

che non ancora s’accende il fuoco;

prima del grido delle campane

fateci dunque piangere un poco.

 

Non più di nulla, sì di qualcosa,

di tante cose! Ma il cuor lo vuole,

quel pianto grande che poi riposa,

quel gran dolore che poi non duole;

 

sopra le nuove pene sue vere

vuol quei singulti senza ragione:

sul suo martòro, sul suo piacere,

vuol quelle antiche lagrime buone!





Ecco una poesia di Giovanni Pascoli che entrò di diritto tra le più ricordate e amate già dall'infanzia di generazioni e generazioni. Come si può notare dalla foto qui sopra, era presente nel libro delle letture che usavo durante il quarto anno scolastico delle elementari. Le ciaramelle fa parte della raccolta Canti di Castelvecchio, in cui compare già dalla prima edizione; il testo che ho trascritto nel post, proviene da una ottima edizione critica pubblicata dalla Rizzoli nella collana BUR, a partire dal 1983¹. Per quanto concerne il significato del titolo, è bene precisare che la ciaramella è uno strumento musicale popolare, a fiato (in parte somigliante al flauto), molto usato in tempi ormai lontanissimi, soprattutto in alcune regioni italiane del centro e del sud. In questa poesia, però, il termine "ciaramella" sta ad indicare la zampogna: strumento antico, dal suono particolare e facilmente riconoscibile, usato nei secoli passati dai pastori, in special modo nei giorni che precedono il Natale. Come molti sapranno, era usanza che tali pastori, già dai primi giorni del mese di dicembre, attraversassero le strade di paesi e città, suonando con le zampogne i classici canti natalizi e, nello stesso tempo, raccogliessero le eventuali offerte (in denaro o in beni alimentari) delle genti che incontravano lungo il cammino. In questi versi il poeta, che sta ancora dormendo quando si annuncia un nuovo giorno (presumibilmente è un giorno che precede di poco il Natale), percepisce nel dormiveglia il suono festoso di questi strumenti proprio nei pressi della sua abitazione. A questo punto si alza dal letto e si affaccia alla finestra: è ancora buio di fuori, e il cielo è stellato; in lontananza vede un lumicino rosso, non ben identificato; proprio da quella luce fioca gli sembra che provenga il suono delle ciaramelle. Da questa visione misteriosa e incantata, nel Pascoli nascono pensieri ed emozioni che lui stesso descrisse in una prosa di quel periodo:

 

Ho sentito suonare la zampogna dei monti. Non era cominciato il crepuscolo mattutino. S'udiva sul lastrico appena appena qualche scalpiccìo che pareva d'uomini già stanchi sin dal primo principio della faticosa giornata. In uno di quei fondi ove, oltre tutto il resto, manca l'aria, ardeva un lume rosso. Di là dentro veniva quel dolce suono d'organo pastorale antico come gli antichi pastori che erravano con le greggi prime addomesticate. Ne usciva la voce mesta e soave della fanciullezza d'ognun di noi con quell'accorarsi non si sapeva perché, con quello sperare non si sapeva di che, con quel bisogno improvviso di godersi a piangere al collo della madre, chi l'aveva ancora. Le stelle brillavano ancora nel cielo così bello e puro. Quel canto di zampogna pareva dovesse avere un'eco nel firmamento. Quel focherello di quaggiù, così umile e rossastro, pareva avere un perché di cui le stelle di lassù, così limpide e d'oro, fossero consapevoli. Di lì a poco le stelle impallidirono e scomparvero insensibilmente. Il lumino si spense e la sinfonia pastorale si tacque e il piccolo rito finì. E all'apparire dell'alba cominciò il tramestio e lo scalpitìo soliti, con quel doloroso sforzo di voci strascicate, di piedi strascicati, di vite strascicate.²

 

La poesia Le ciaramelle fece la sua prima apparizione nella rivista «La Riviera Ligure» del 15 marzo 1902; entrò quindi a far parte dei Canti di Castelvecchio dall'edizione del 1903.

 

 

NOTE

1) Quella che ho preso in considerazione è la 3° edizione, uscita nel 1993; qui la poesia si trova alle pagine 113-117.

2) Il frammento prosastico l'ho trascritto dall'edizione citata dei Canti di Castelvecchio, dove si legge alla pagina 113.

domenica 13 dicembre 2020

La politica in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Nella mia vita l'interesse per la politica è apparso raramente, e in quei periodi sporadici, non ci ho trovato mai gran che di particolarmente appassionante. Certamente è una scienza importantissima, necessaria e determinante per far sì che nazioni singole o comunità nazionali possano essere amministrate nel miglior modo possibile. Ritengo che quello del politico sia un mestiere richiedente una preparazione specifica; non credo, in questo campo come in tanti altri, che l'improvvisazione sia possibile per ottenere risultati decenti. Passando al contenuto di questo post, penso che nella politica ci sia ben poca poesia, e questi versi che ho scelto lo stanno a dimostrare. Sono preponderanti, infatti, brevi poesie o epigrammi che esternano disillusione, aspre critiche, sentenze ironiche nonché sarcastiche. Però non manca qualche anima appassionata, che palesa la sua fede onesta e sincera. Per fortuna anche in politica, tra tanti megalomani, farabutti, opportunisti e furbetti, si trovano ancora persone serie, che sono guidate da una passione vera, che credono nei fondamentali e imprescindibili valori della democrazia e che andrebbero sempre riconosciuti e premiati.

 

LA POLITICA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

MARX ED ENGELS IERI ED OGGI

di Alfonso Berardinelli (1943)

 

Chiamiamo comunismo

il movimento reale

che abolisce lo stato di cose

presente.

Chiamiamo stato di cose

presente

il movimento reale

che abolisce il comunismo.

 

(da "L'inconscio politico. 36 poesie su commissione", Castelvecchi, Roma 1998, p. 12)

 

 

 

 

I MINISTRI

di Paolo Buzzi (1874-1956)

 

A colpi di fischi e di sistri

noi, poeti, vi spazzeremo, o Farisei sinistri!

 

(da "Popolo canta così!", Facchi, Milano 1920, p. 230)

 

 

 

 

POETI SOCIALISTI

di Adriano Guerrini (1923-1986)

 

Poeti socialisti, il vostro cuore

deciso ma turbato, il vostro verso

malcerto ma sottile, ci ricordano

cose lontane: i secoli d'argento,

Commodiano, Boezio.

 

Siamo anche noi con voi, con la giustizia,

con la storia; e altrimenti non possiamo:

uno solo è il cammino dei poeti.

Ma il fiume della storia a noi ha dato

lo sguardo calmo e assorto.

 

Noi senza miti, noi che non diremo:

«Dopo i poeti, i soldati ed i borghesi,

siamo infine i fedeli esecutori

delle leggi», noi, solo, umanamente,

per la legge del meglio.

 

Siamo con voi. Ma siamo ancora prima

di voi, con chi parlava antiche lingue

o cantava la sera al trotto lento

del postiglione; e siamo anche già dopo,

quando si dirà «allora».

 

(da "Poesie politiche", All'Insegna del Pesce d'Oro", Milano 1976, p. 15)

 

 

 

 

DALL'INTERNO

di Valerio Magrelli (1957)

 

La funzione profilattica

del linguaggio politico

consiste nell'impedire un contatto

diretto tra le cose. Grazie allo

sviluppo dei nuovi materiali,

il codice è oramai ridotto a un velo

impercettibile (starei per dire inconsutile),

che fa sentire tutto

dove non passa niente.

 

(da "Didascalie per la lettura di un giornale", Einaudi, Torino 1999, p. 11)

 

 

 

 

AD ALCUNI RADICALI

di Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

 

Lo spirito, la dignità mondana,

   l’intelligente arrivismo, l’eleganza,

l’abito all’inglese e la battuta francese,

   il giudizio tanto più duro quanto più liberale,

la sostituzione della ragione alla pietà,

   la vita come scommessa da perdere da signori,

vi hanno impedito di sapere chi siete:

   coscienze serve della norma e del capitale.

 

(da "Poesia italiana del Novecento", Garzanti, Milano 1992, vol. II, p. 871)

 

 

 

 

POLITICA ESTERA

di Giovanni Raboni (1932-2004)

 

Chi parla ha da dire

le cose che dice e forse no

o forse altre. Ma è un fatto che chi tace

lascia che tutto gli succeda e quel ch'è peggio

lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano

a qualcun altro.

 

(da "Epigrammi italiani", Einaudi, Toino 2001, p. 354)

 

 

 

 

SOGNO DI UN ATTIVISTA POLITICO

di Nelo Risi (1920-2015)

 

All'alba sono venute a prendermi le guardie

del Papa per trarmi in giudizio. Con le mazze

hanno abbattuto la porta dell'alloggio.

- Non è possibile, ho detto, ci deve essere

un errore, non è più il tempo del Santo Uffizio.

Uno esibì una bolla, me la fecero ingoiare

pergamena piombi e tutto. Così forte

la loro intimazione che mi svegliai di botto.

Battevano alla porta, era la polizia con un mandato.

 

[da "Di certe cose (poesie 1953-2005)", Mondadori, Milano 2006, p. 127]

 

 

 

 

OPICINA 1947

di Umberto Saba (1883-1957)

 

Risalii quest’estate ad Opicina.

Era con me un ragazzo comunista.

Tito sui muri s’iscriveva, in vista,

sotto, della mia bianca cittadina.

 

Nell’ora dei ricordi vespertina

Sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista,

oggi, se penso quella camerista

che ci servì con volto d’assassina.

 

Due vecchie ebree, testarde villeggianti,

io, quel ragazzo, parlavamo ancora

lassù italiano, tra i sassi e l’abete.

 

«Dopo il nero fascista il nero prete;

questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora –

diceva il mio compagno – aver rimpianti?»

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 562)

 

 

 

 

UN SOCIALISTA

di Luigi Siciliani (1881-1925)

 

Popolo, molto tu soffri: io tutti i tuoi mali ho nel cuore.

  Per dissiparli, voglio, popolo mio, godere.

 

(da "Corona", Modes, Roma 1907, p. 34)

 

 

 

 

DOROTEO

di Saverio Vollaro (1922-1986)

 

Uncini, addome scudato

con disegni di croci.

Nessuno sa dov'è nato,

nei materassi d'un curato,

dopo un uragano

di quelli che sfondano

e lavano la campagna

e poi viene una minuta folla

di creature senza amore, al limite

tra il ragno, la moschetta

e il fiore.

 

Ha poche giunture

solo per qualche genuflessione (però

prega meno di noi),

barba, niente cerone,

colorito di natura, verso il pallido,

leggermente renale, di gallina sotto sforzo.

 

Misogino, misurato e ministro,

sorride come una paletta al sole,

si chiama Doroteo,

ama l'agricoltura.

 

(da "Poesia satirica nell'Italia d'oggi", Guanda, Parma 1964, pp. 207-208)

 

"Inaugurazione della XXI Legislatura del Regno d'Italia,
da "La Domenica del Corriere" del 24 giugno 1900
(da questa pagina web)




mercoledì 9 dicembre 2020

Gli amici

 

Questa poesia è stata scritta da Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) e fa parte del volume I fantasmi di pietra, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1977. Più precisamente è la sessantottesima e terzultima poesia di detto libro, e si trova a pagina 87. È la triste constatazione, da parte del poeta, di essere stato tradito da coloro che si definivano o che lui stesso pensava fossero amici. L'occasione che dimostra il tradimento, reale o simbolica che sia, è una promessa non mantenuta: Vigolo ha visto questi falsi amici allontanarsi da lui non prima di averlo rassicurato sul fatto che sarebbero tornati presto, e lo avrebbero portato con loro. Il poeta ha atteso ore ed ore con la speranza di vederne tornare almeno uno, ma nulla è avvenuto. La parte finale della poesia è ancora più amara, ed esprime in modo chiaro una fortissima sensazione di solitudine che prova il protagonista di questa spiacevole vicenda, il quale ha la netta impressione di essere già morto, perché ormai nessuno si ricorda più della sua presenza, della sua esistenza stessa: si sente come se tutti gli esseri umani si siano definitivamente dimenticati di lui, lasciandolo così nella più completa desolazione interiore.

 



 

   Gli amici mi avevano detto:

Aspettaci qui, torneremo a prenderti.

E io solo ad aspettare

un'ora, due ore.

Si fa notte: gli amici

si sono scordati: non vengono più.

 

  Stai lì solo,

terribilmente solo.

Ecco cosa vuol dire essere morti;

si scordano di passare a riprenderti.


 

  

domenica 6 dicembre 2020

La neve nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La neve nelle poesie dei simbolisti fa riferimento spesso ad una freddezza dell'anima, il manto nevoso rappresenta un aristocratico e tetro isolamento dal resto dell'umanità; il poeta, chiuso nel suo mondo sognante, intende frapporre tra sè ed il resto del mondo un folto strato di materia fredda sì da evitare qualsivoglia contatto umano. Ma a volte la neve ha tutt'altro significato, e ben più terribile: essa, insieme al freddo che invade ogni luogo circostante, è un chiaro presentimento di morte; infatti, nelle descrizioni di diversi poeti, il paesaggio è desolato, e si notano soltanto delle figure alquanto fosche (carri funebri, corvi, fantasmi...) che contribuiscono in modo netto a rendere l'anima del poeta spaurita, sconfortata e triste. In altri casi la neve, in quanto bianca, si ricollega ai simboli di purezza e sincerità, che riportano nella memoria dei poeti il felice periodo infantile.

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "La sonata nella neve" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Diego Angeli: "Giorno d'inverno a Lunghezza" in "La città di Vita" (1896).

Diego Angeli: "La madonna della neve" in «Il Marzocco», ottobre 1897.

Giovanni Camerana: "Folta è la neve" in "Poesie" (1968).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Neve" in "Poesie" (1912).

Sergio Corazzini: "Sonetto della neve" in "Le aureole" (1905).

Guglielmo Felice Damiani: "Idillio fugace" in "Lira spezzata" (1912).

Giuliano Donati Pétteni: "Neve" in "Intimità" (1926).

Augusto Ferrero: "Fantasma invernale" in "Nostalgie d'amore" (1893).

Aldo Fumagalli: "La canzone mistica" in "Arcate" (1913).

Diego Garoglio: "Città sotto la neve" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Giulio Gianelli: "Prima neve" in "Mentre l'esilio dura" (1904).

Giacomo Gigli: "In Siberia" in "Maggiolata" (1904).

Emilio Girardini: "Nevicata" in "Chordae cordis" (1920).

Corrado Govoni "La neve" in "Gli aborti" (1907).

Luigi Gualdo: "Paesaggio" in "Le Nostalgie" (1883).

Olindo Malagodi: "Vette di neve" in "Poesie vecchie e nuove" (1928).

Nicola Marchese: "Nivale" in "Le Liriche" (1911).

Nino Oxilia: "Ha nevicato..." in "Canti brevi" (1909).

Giovanni Pascoli: "Orfano" e "Nevicata" in "Myricae" (1900).

Antonio Rubino: "Neve sotto la luna" in "Versi e disegni" (1911).

Giovanni Tecchio: "Neve" in "Canti" (1931).

 

 


Testi

 

LA CANZONE MISTICA

di Aldo Fumagalli

 

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Ne la piazza, nessuno: i tronchi spogli

Che vegliano ne l'aria immota e scura.

La basilica antica, sotto il velo

È bianca e impallidisce il suo profilo...

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Un mendìco vicino a la colonna

Sembra una macchia nera, sul terreno...

 

Chi s'avanza lontano? Dei cavalli

Neri, di sogno; non han ferri e muti

Camminano e non toccano la terra...

E dietro un carro nero ed una bara.

Passa quel morto su la bianca neve

Passa la gente nera, nera, nera.

Tace la piazza avvolta nel suo velo;

Non un ramo si move intorno ai tronchi,

Ed il vento non agita la neve...

 

La bara avanza lenta, grave, nera,

E non sembra passare, tanto è lungo

Il cammino che corre presso i tronchi.

Nevica: bianca neve su la neve

in un silenzio mistico e solenne.

 

(da "Arcate")

 

 

 

 

NEVICATA

di Emilio Girardini

 

Il paesaggio interminato stanca:

una pianura immersa ne la neve

con il mulino a vento ed una pieve

ne la monotonia de l'aria bianca.

 

Nevica ancora e mandano singhiozzi

soffocati nel cuore i miei ricordi;

somigliano, o campana, ai suoni sordi

che tu, di neve rivestita, strozzi.

 

In una solitudine lontana

e, come questa, senza tracce, danno

i ricordi nel cuor, cinto di panno,

spenti rintocchi, come i tuoi, campana.

 

Pure il cielo solcar qualche pensiero

mio tardo vedo, come la pianura,

tutta bianca d'un bianco che spaura,

vede passare qualche corvo nero.

 

(da "Chordae cordis")



Claude Monet, "Snow at Argenteuil"
(da questa pagina web)