domenica 19 agosto 2018

I funerali nella poesia italiana decadente e simbolista

Essendo il funerale un rito che si celebra dopo la dipartita di un essere umano, è evidente che in queste poesie vi sia un riferimento alla morte. Non sempre però trattasi di morte fisica: in alcuni casi, dove si assiste ad una vera e propria messa in scena funebre, a morire è l'anima o il cuore del poeta, volendo in tal modo costui mostrare il suo totale distacco dalla vita terrena. Un altro modo per evidenziare quest'ultimo stato, che ricorre non di rado in queste poesie, è il funerale-farsa o, meglio, il funerale allegro; come a dire che la vita non è stata una cosa importante e che la sua perdita può diventare un sollievo oppure un occasione per riderci un po' su. Personalmente odio i funerali, ed è molto difficile che vi partecipi; quando, qualche anno fa, mia madre morì, rispettai la sua volontà di non avere alcun funerale. Confesso che mi sarebbe costato molto esservi presente.




FUNERALE
di Ugo Betti

Per una, vestita di raso celeste
Con la vanga una fossa ho da scavare.
Il mio bene sottoterra ho da posare,
Piano....
Che non si sciupi la sua bella veste.

Aveva gli occhi turchini turchini
Come i nastri dell'abito da festa.
Aveva lievi e fatati scarpini
Per camminare e ballare più lesta....

Quando piangevo
Ella veniva perché non piangessi più,
E m'arruffava i capelli, con un riso
Tremulo negli occhi blu.

Se udivo un tinnire di braccialetti
Con che batticuore guardavo la porta!
Ed ora ho in braccio una creatura morta,
Assai leggera, tutta vestita di merletti....
La porto senza pianto e senza pena,
E la cullo con questa cantilena....

Ma di cantare sono stanco!
Ed anche me dovete seppellire.
Sotto la testa mettetemi un guanciale bianco
E poi nella terra lasciatemi dormire.

Mettetemi un guanciale, per pietà
Dei miei capelli, e fatemi dormire
Supino, nell'oscurità.

(da "Il re pensieroso", Treves, Milano 1922)




FUNERALE
di Massimo Bontempelli

D'una fanciulla che moria tra 'l greggio
Lavoro, a un solco reclinando il fronte,
Lento or seguiva il funebre corteggio;

E sentiva io salir da gole pronte
Ed espandersi un canto, e il bianco stuolo
Mover vedea lungo l'opposto monte:

Pur lontano così, che un motto solo
Non mi giungea dei lamentosi accenti
Onde nel canto diffondeasi il duolo.

Ma in breve a me parea che quei dolenti
Spiriti, quelle voci ansie lontane
Che a tratti m'adducea l'ala dei venti,

Non fosser voci che di bocche umane
Foggiate a ricontare umano pianto
Prendesser forma di «Ave» e di letane,

Ma che le cose tutte, e tutto quanto
Un novo senso della iddia Natura
S'armonizzasse in questo unico canto: —

« — Ave, e per sempre, o lieta creatura
Che germinata in mezzo ai nostri amori
Sfioristi a un tratto, vittima immatura.

Cantiamo oggi su te funebri cori
Noi, della terra più robusti figli,
Che resistemmo ad opere maggiori.

Primi scorgendo i petali vermigli
Scolorar delle rose entro i giardini,
E inaridir sul dritto stelo i gigli,

E cespi ed erbe e fior' contriti e chini,
Sentimmo il colpo e immaginammo il lutto;
Ma l'annunzio correa tutti i confini.

Già il gran duol prendea voce, e per l'asciutto
Greto dei rivi una gemente vena
Scaturìa a mormorar col molle flutto,

E il murmure salìa, quale acqua in piena.
Su alle frondi che s'uniano al fremito
Sì come il cielo alla pietà terrena.

Erbe fiori arie acque così d'un gemito
Solo piangiam tua sconsolata sorte,
E percote nei monti ultimi il tremito.

Ave, e per sempre, o creatura forte,
Che dura a travagliar la ingrata terra
Salda non fosti all'appressar di morte.

Oggi, perché fu tronca la tua guerra
Di vita che con noi movesti in gara
Al fato che invincibile ti afferra.

Perché eri sana e di dissidio ignara,
E a noi quel cor che lieta ognor ti volse
Fraternamente ti rendeva cara,

Perché del sol, che oggi ti si tolse,
E dei cieli e di noi tanto hai gioito
Quant'altra mai umana anima accolse, —

Noi celebriamo il funeral tuo rito,
Noi cielo e terra, e l'orrida notizia
Gettiam viva ai confln dell'infinito.

Ad esaltar la natural mestizia — ».

(da "Egloghe", Streglio, Torino 1904)




IL MORTORIO DI BIBIA
di Paolo Buzzi

Bibia, vecchia zitella zoppa e ricca
è morta l'altro ieri.
Lasciato ha eredi
tutti, che la seguiranno al funerale,
e zoppi e storpi poveri della città.

La nuova è corsa via
per le stamberghe di soffitta e di cantina,
pe' fienili e le fogne e le panchette e i gradini
di chiesa e di convento e gli archi
di ponte pieni di danze moscerine sul canale.

È l'ora del mortorio.
Si muove. Avanza. Il prete, zoppo.
Il carro pare che zoppichi coi cavalli.
E, dietro, l'esercito delle grucce e dei saltelli.

Un lieve movere umano
a ritmo lento.
Hai mai veduto andare, in vento di marzo,
i ramiciattoli d'ippocastano sui viali?

Fosco è il colore della marmaglia sbilenca
sulla strada civica dove la primavera si riversa.

E segue una sua sghemba
linea che, veramente, pare
sopra una diritta linea di secoli
l'eterno passo necroforo claudicante dell'Umanità.

Tetano o mazurka,
l'ossa loro, i loro nervi ballano
sotto l'archettata d'uno spasimo.
Fango v'è, per pioggia recente, sulla strada.
L'orme gialle hanno il disegno fuggevole
dei vecchi burri che friggono,
e le stampelle bucano
di piccoli botri acquitrinosi obliqui
la melma che sghignazza e, forse, gode
essere calpestata, finalmente,
da un'orda di miserabili felici.

Vi sono vecchi e giovani,
maschi e femmine.
Prima le femmine
fanno il corteo più denso di cenci,
sbattocchiano la mota e se ne ingioiellano
d'agate spente le sottane
sdruscite, alla meccanica guasta
degli arti male invisibili.
Poi, gli uomini, d'ogni colore e forma,
ironici, con zampe di gallo profonde
agli occhi, fin sulle tempie e le guance
rigate di rughe perverse.
Qua e là un verde di tabe,
molti d'un rosso nasuto di vernaccia.
Adocchiano quasi tutti le belle donne
ferme curiose a ridere
nelle cornici di pietra delle finestre
o sui plinti prolissi del lastricato.
E, traballando avanti,
borbottano requiem osceni.

Dove marciano?
Fin là dove si reggano.
Marcerebbero fino alle stelle.
Ma non arriveranno fino al cimitero.
Ecco:
uno stramazza, vinto
dalla sua gamba di legno che si sfascia.
Ne cascano sovra altri sei.
La coda si squassa, scompiglia, rompe.
Il carro, lo fermano.
È tutto caduto il corteo.

Una barricata di corpi umani
irta di legni di grucce e di stinchi
tiene ora la via dove rideva la gente.
Vi sono dei volti e delle nuche nel fango.
Contro la primavera
l'ammasso nerastro
ha dei riscossoni d'enorme talpa accoppata.
E molti, ora, s'odono gridare e piangere
nel mucchio insueto e all'intorno.

E due si son dati a morire.
Ecco, sotto il pasticcio di membra
le due mani diverse, stecchite, ma avide pari
che prendono il vuoto
come la loro parte sudata d'eredità.

(da "I Poeti futuristi", Edizioni di Poesia, Milano 1912)




FUNERALE ALLEGRO
di Francesco Cazzamini Mussi

Che dolcezza! ecco, la vita
ci riserba grandi gioie;
stamattina ho seppellita,
senza pompe e senza noie,

quella stolta illusione
che si chiama, sai?: l'amore
Senza alcuna commozione,
senza il minimo dolore,

l'ho portato al cimitero
de' miei sogni. Quante croci!
Per il tacito sentiero
borbottavano le voci

de' superstiti ideali:
«Lux perpetua luceat eo!»
proprio come ai funerali
d'un cristiano: «Luceat eo!»

E la lieta compagnia
se ne andava alla dimora
della pace. Che allegiia,
pe' viandanti di buon'ora!

Nel silenzio tutt'intorno
riposavano gli avelli:
si schiariva il nuovo giorno,
pispigliavano gli uccelli.

Fu l'amore sotterrato
senza tante cerimonie,
fu l'amore sotterrato
senza tante querimonie;

ne l'epigrafe si scrisse,
né la colpa fu d'alcuno...
Era onesto, non si disse
per non far torto a nessuno.

(da "Le amare voluttà", Baldini, Castoldi & C., Milano 1910)




IL FUNERALE
di Cosimo Giorgieri Contri

La giovinezza morta
io voglio qui posare,
qui dove più sue chiare
ghiare apre il lago d'Orta.

Lambe la curva duna
l'acqua con un respiro;
dormon composti in giro
li orti sotto la luna:

e dove tu sconfini,
lago, il tacente raggio
segna come un passaggio
bianco di gelsomini.

— Ricordi i gelsomini
di un perso agosto? È ancora
il loro odor che odora
dei pensili giardini? —

E giù nella profonda
acqua, nel vitreo gorgo,
ella, non triste, io scorgo
che lentamente affonda.

Protende ella un'estrema
volta le bianche braccia
verso di me: la faccia
forse a l'addio le trema;

indi e s'immerge, quale
Ofelia a' glauchi abissi...
indugiano i prolissi
capelli il funerale.

(dalla rivista «Nuova Antologia», luglio 1906)




SOGNO D'UN FUNERALE
di Corrado Govoni

Per la riva deserta d'un canale,
sbucò (ma donde?) un lungo funerale.

Eran due file rigide di frati,
con gli abiti di rosso e incappucciati;

e portavan de le torce fumose
che ferivano l'acque paludose;

e recitavano alternatamente
delle preghiere, lamentosamente.

Dietro veniva una gran croce nera,
seguita da una funebre bandiera

e da un carro, guidato da un becchino
con la parrucca bianca col codino.

I cavalli indossavan panni a scacchi
e scuotevano lugubri pennacchi.

Niente corone. Solo una lanterna
splendea sinistra sulla cassa interna.

Poi il corteo volta in fretta in fretta
e s'infila per una via stretta

e tortuosa, tra giganti muri
su cui sembra che l'ombra s'impauri.

Così erano quattro funerali,
due centrali e due laterali,

che procedevano per la Certosa
accelerando l'andatura ansiosa.

Ed io li osservavo (da che posto?);
e mi pareva d'essere discosto

e vicino, e di non veder che saie
bianche e bucate da livide occhiaie,

che allargavan la strada ed ogni aspetto
producendo un macabro e strano effetto.

Le occhiaie si allargavan si allargavano
ingoiando i vestiti, e allontanavano

anche i muri, e non ci restò più niente,
e l'ombra s'affiaccò pesantemente.

Mentre io stavo istupidito e assorto,
pensando a quel convoglio ed a quel morto,

ecco apparire ancora il funerale,
per la deserta riva del canale,

e le due file rigide di frati,
con gli abiti di rosso e incappucciati:

la croce nera, la bandiera nera
chiazzata del dolore della cera,

ed il carro guidato dal becchino
dalla parrucca bianca col codino,

ed i cavalli con i panni a scacchi,
che scuotevan i lugubri pennacchi.

(da "Poesie scelte", Taddei, Ferrara 1918)




CORTEO FUNEBRE
di Achille Leto (1872-1963)

Immaginate più squallente cosa
d'un funebre corteo, fuori le porte
della vecchia città, quando piovosa
muor la giornata e cadono le morte

foglie degli autunnali alberi? Posa
sul nero carro una ghirlanda; assorte
genti van dietro; per la via fangosa,
al suo passaggio, è un brivido di morte.

Qualche ombrello si schiude ora che piove
più forte, quindi una fungaia nera
di cupolette. Ora il corteo si scioglie.

I cavalli son fradici: van dove
debbono andare: già si è fatto sera;
e via di trotto sulle morte foglie.

(da "Piccole ali", Sandron, Milano-Palermo-Napoli 1914)




IL FUNERALE
di Nicola Moscardelli

Ho accompagnato all'ultima dimora
il mio povero cuore che è morto.
Malato da un pezzo, poveretto,
Dio se l'è richiamato,
che sia benedetto!
Recitiamo una prece
sul povero cuore
morto chi sa di che male.
Quanti dottori lo visitarono!
Lo guardarono
l'osservarono
non dissero nulla;
aveva una ben strana malattia
il cuore dell'anima mia.
È morto, ora, poveretto,
che sia benedetto.
Vorrei piangerlo, ma non posso più:
vorrei amare ma non so più!...
C'è un vuoto nell'animo mio
che non si colmerà più.
Il povero cuore non palpita più,
non trema più:
una ben strana malattia
lo prese per la via,
il povero cuore mio!
Chi lo sa, chi lo sa
di che è morto il mio cuore?

(da "La Veglia", Unione Arti Grafiche, L'Aquila 1913)




FUNERALE
di Edoardo Mottini

Il nero forno sforna un biscotto,
un biscotto dorato, con la croce;
ma l'odore non è di pasta fina,
è un odore di cera e di cantina.
E il dolce è secco, rotola sui rulli
con un rimbombo sordo. Sei garzoni
l'hanno afferrato per le sei maniglie,
lo imbucano nel gurge della chiesa
ove il gran pasticcere lo conforta
col cognac extra dell'asperges teso.

Presto, presto, che il dolce non infrolli!
Cantando l'inno, al lume di candele,
lo si deponga sul desco fiorito
del vermineo convito!

(da "Rose nel pruneto", Taddei, Ferrara 1921)




FUNERALE
di Walter Ottolenghi

Anche il silenzio
ha un'ora in cui riposa,
un luogo in cui riposa.
Questa notte
mi par disteso qui,
fra gli stendardi bruni di foglie
che scivolano dai muretti
come zendadi melanconici
di donne abbandonate!
Un pianto sottile
sgorga dagli occhi, senza luce,
di questi volti
tuffati nel buio!
Un'umida bambagia
s'è posata sui prati,
gettata da innumerevoli mani,
e gli occhi del cielo
che guardano,
tremano tutti
nello sguardo d'argento!
Ad un angolo d'una via
ho incontrato il silenzio,
questo,
che riposava come un gigante
e il suo petto ansimante
sussultava nel mio!
... Un fanale... un fanale... un fanale
corteo di luci
come a un funerale
che passi fra due muri nudi,
altissimi,
quali roccie di granito
sospese
su l'abisso del buio!
Io devo camminare,
e non so camminare
che nel mezzo della via
umida,
vischiosa,
come se tutto il pianto
che ho pianto
fosse steso ai miei piedi
perch'io lo veda
e mi specchi in me stesso!
Nel fondo il fiume
ha il rumore d'un crine
solcato da un pettine enorme.
È l'ampia treccia dell'acqua
quella del gigante che dorme?
Nella chiarezza metallica del rivo
si scompongono
le goccie dei fanali
e dilagano in pozze preziose.
Attende una finestra aperta
qualcuno che s'inquadri nel vano
e mi par la cornice
d'un assente
che non ritorni più.
Pur ieri attesi,
in una veglia meravigliosa
una figura sottile,
un volto d'ambra e di rosa,
ed ieri non venne,
né domani verrà!
Una carezza fredda
mi solca la schiena,
una carezza infantile,
ed ho voglia di piangere: Mamma!
Ma nel buio
si riposa il silenzio,
non lo voglio svegliare,
no! Seguo il funerale,
lento, uguale:
un fanale... un fanale... un fanale...
ed è l'anima mia
che accompagno al camposanto,
senza un pianto,
sotto la finestra
che guarda giù,
nell'attesa d'un volto
che non ritorna più!

(da "Luce", Milano 1922)




AI FUNERALI DI UNA GIOVINETTA
di Francesco Pastonchi

Pallida eretta fra le singhiozzanti,
Senza lacrima o prece, a lungo assorta
Ella stette. Pensò forse la corta
Giovinezza e i ventenni sogni infranti.

Ma quando ai chiari fragorosi schianti
Dell'organo, la turba a un tratto insorta
Parve guidar nei cieli alti la morta
Con più serena gloria di canti:

Vidi su me quegli occhi aperti e fisi
Interrogare: — A che pensi? Non senti
Il poter della morte? E s'io morissi! —

Né rispondere io seppi con sorrisi;
Ma tremai come un albero che i venti
Scuotano al ciglio di profondi abissi.

(da "Belfonte", Streglio, Torino 1903)




IL MIO FUNERALE
di Ernesto Ragazzoni

Quando, uditemi amici, quando avvenga
che questa che mi rosica cirrosi
il fegato e dintorni m'abbia rosi,
come cirrosi fa che si convenga,

quando il medico, chiusa la sua cura,
ordinerà «portatelo pur via!»,
io voglio, per andar a casa mia
sottoterra, una magna sepoltura.

Ravvivatemi a tocchi di carmino
sapientemente la figura smunta;
questo fate, e indoratemi la punta
del naso e spruzzolatemi di vino

odoroso, che non m'abbia più l'aspetto
di un comune cadavere, e i capelli
fatemi tutti di vïola belli
e un non mai visto m'abbia cataletto.

Trascinino la mia spoglia mortale
sei porcellini tinti in verde e giallo
e Francesco Pastonchi, alto, a cavallo,
proclami «Che stupendo funerale!»

Cento musici in abito d'arconte
annunzino la mia corsa a Plutone
soffiando ampi venti di polmone
in cave corna di rinoceronte.

E cento bande strepitino poi
di strumenti impensati, impreveduti:
clisocorni, arcoflauti, fiascoimbuti,
trombicefali ed arpe-innaffiatoi.

Accorrano le turbe al pio passaggio
e a strilli, ad urla, a voci mozze e mezze,
si narrino le mie scelleratezze
e mi paia d'udire il lor linguaggio:

«Era il Gran Kan, il Padiscià degli orsi,
«Dei Bramini ridea, come di paria
«Era padrone di un castello in aria
«E si beveva il cielo in quattro sorsi

«Viveva nei più luridi angiporti...
«non aveva la testa troppo salda...
«Mangiava il cardo con la bagna calda
«di notte in compagnia di beccamorti.»

Infine sempre mi si tolga al sole
in una cripta, a un labirinto in fondo;
e tutti quanti i fior che sono al mondo,
tralci di rose, cespi di vïole,

effondano la loro primavera
fin giù nel buio delle mie caverne.
Ma siccome son io ch'ho da goderne,
i miei fiori piantateli in maniera

che le radici siano volte in alto
e le corolle sboccino sotterra...
Di sopra al sasso poi che mi rinserra
questa epigrafe scrivasi in ismalto:

«Qui giace ERNESTO RAGAZZONI D'ORTA
«nacque l'otto gennaio mille ed ottocentosettanta»
e sotto, questo motto:
«D'essere stato vivo non gl'importa».

(da "Poesie", Martello, Milano 1956)


Gustave Courbet, A Burial at Ornans
(da questa pagina)

domenica 12 agosto 2018

I luoghi misteriosi nella poesia italiana decadente e simbolista


Sotto la dicitura: "luoghi misteriosi", ho voluto qui raggruppare delle poesie che parlassero di posti più o meno reali, dove si sono svolti o si svolgono degli eventi incomprensibili e strani. Le ambientazioni variano abbastanza, ma non di rado si ripetono: ci sono mura, palazzi, serre, giardini, valli, paludi, pianure, deserti... A volte, questi luoghi sono inaccessibili, o pericolosi, altre volte fanno da confine invalicabile, nascondendo un mondo inaccessibile e inconoscibile. I personaggi che vi compaiono hanno tutti, come caratteristica principale, una profonda e insondabile enigmaticità; spesso si tratta di figure femminili, come la "Figlia del Passato" della poesia di Baccelli. In più di un caso è il poeta, in compagnia di una donna, a visitare degli edifici non completamente definiti. Spesso, in questi territori tutt'altro che accoglienti, non compare alcuna traccia d'umanità, ma, semmai, esemplari piuttosto inquietanti di fauna e di flora.
Non sono assenti, ovviamente, simbolismi più o meno nascosti. Per esempio, in diverse poesie si assiste ad un'ascesa - per mezzo di scale o arrampicandosi su una montagna -, dove i protagonisti  si avvicinano ad una mèta ignota, o non completamente chiara (la morte?). Palese è invece, in una poesia di Arturo Graf, l'immagine dell'imbarcazione abbandonata, appoggiata su uno scoglio, che rappresenta la vana speranza. Ricorrente è la parola "morte", sia essa ad indicare il nome di un luogo preciso (La valle della morte di Antonio Rubino), sia, come nel caso delle poesie di Corazzini e di Sotto il salice di Arturo Graf, quale terrificante emblema di una situazione, di un fatto o di una collettività. 




Poesie sull'argomento

Alfredo Baccelli: "La valle perduta" in "Poesie" (1929).
Adelchi Baratono: "Muro di cinta" e "La serra" in "Sparvieri" (1900).
Gustavo Botta: "Palude" in "Alcuni scritti" (1952).
Enrico Cavacchioli: "La muraglia" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Notte d'autunno" in "I canti di Pan" (1920).
Girolamo Comi: "Ne le pianure solitarie" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Toblack" in "L'amaro calice" (1905).
Sergio Corazzini: "La tipografia abbandonata" in "Marforio", marzo 1903.
Auro D'Alba: "Lirica Comune" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Italo Dalmatico: "La guida" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "Eliana" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Luisa Giaconi: "Il deserto" in "Tebaide" (1912).
Corrado Govoni: "Serre" in "Le Fiale" (1903).
Domenico Gnoli: "La valletta bruna" in "Poesie edite e inedite" (1907).
Arturo Graf: "Speranza" e "Paesaggio" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "Sotto il salice" in "Dopo il tramonto" (1893).
Arturo Graf: "Il canneto" in "Morgana" (1901).
Luigi Gualdo: "Paesaggio" in "Le Nostalgie" (1883).
Giuseppe Lipparini: "Negli orti della saggezza" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Giuseppe Lipparini: "Il rudere" in "Stati d'animo e altre poesie" (1917).
Enzo Marcellusi: "Affricam teneo" in "I canti violetti" (1912).
Nicola Marchese: "Cammeo" in "Le Liriche" (1911).
Pietro Mastri: "Il tabernacolo" e "Il muro" in "L'arcobaleno" (1900).
Angiolo Orvieto: "La Valle senza Sole" in "Verso l'Oriente" (1902).
Aldo Palazzeschi: "Il cancello" e "Il manto" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "I prati di Gesù" in "Poemi" (1909).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Il macigno" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Antonio Rubino: "La valle della Morte" in «Poesia», ottobre 1908.
Cristoforo Ruggieri: "Lo scoglio" in "Ritmi" (1900).
Fausto Salvatori, "Siede una donna taciturna e i piani" in "In ombra d'amore" (1929).
Emanuele Sella: "La primavera celeste" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Giovanni Tecchio: "Umbrae mysterium" in "Mysterium" (1894).
Aurelio Ugolini: "Paesaggio intimo" in "Viburna" (1908).
Guido Vitali: "L'aliga" in "Voci di cose e d'uomini" (1906).
Giuseppe Zucca: "Palude pontina" in "Io" (1921).




Testi


IL CANCELLO
di Aldo Palazzeschi

L’oscuro viale dai mille cipressi
che porta al cancello del grande piazzale
è aperto a la gente.
Soltanto il cancello non s’apre.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
In una carretta ch’è piccolo letto
due monache nere conducono attorno
pel grande piazzale, il Signore,
padrone del grande castello.
Cent’anni à il Signore
padrone del grande castello!
Lo portano attorno due monache nere,
attorno al castello ch’è in mezzo al piazzale.
Non ode non vede la gente
che al vano dei ferri del grande cancello
sta ferma a guardare.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
Ogn’anno a quel grande cancello
s’aggiunge una nuova colonna di ferro:
il posto d’un altro a guardare.

(da "I cavalli bianchi")




UMBRAE MYSTERIUM
di Giovanni Tecchio

Languiva ancor ne l'occidente il giorno
con una luce che facea stupore.
Parea quasi funereo l'autunnale
vespro e ci guardavam spesso d'in torno
come presi da un senso di timore.
Quello pareva un vespero fatale:
triste moriva, triste assai quel giorno.

Ne l'aria c'era non so che lamento.
Nel silenzio solenne di quell'ora
sognava forse l'Anima ammalata.
Tristi cadean le foglie gialle al vento.
Ritorna a quel ricordo umiliata
l'Anima ed a quell'erme rive ancora.
Ne l'aria c'era non so che lamento.

Andavam soli, senza meta, errando
per il parco. Tacevan le fontane
che, in quel silenzio antico, armoniose
facean tra il verde un dì murmure blando.
Pur narrava una Venere lontane
storie d'amore liete e dolorose,
che andavan lungi per il parco errando.

Giungemmo ad un castello antico, immenso.
Per l'alta scala tutta quanta bianca
incominciammo taciti a salire.
Incombeva il silenzio cupo e intenso.
Ansare ella s'udìa: forse era stanca,
poi che sentii 'l suo braccio illanguidire.
D'avanti a noi s'ergea il castello immenso.

Ella era stanca. Per la scala, muti,
sostammo allora. Era già morto il giorno;
era triste, assai triste quella sera
in quei luoghi lontani e sconosciuti.
Deserto il parco si stendea d'in torno
tutto ne l'ombra misteriosa e nera.
E discendemmo per la scala, muti.

(da "Mysterium")


Arnold Böcklin, "Landschaft mit Burgruine anagoria"
(da questa pagina)


domenica 5 agosto 2018

"L'arcobaleno" di Pietro Mastri


Pietro Mastri (nome d'arte di Pirro Masetti) è oggi un poeta totalmente ignorato. Pure ebbe un suo periodo d'oro agli albori del XX secolo, quando fu pubblicato, dall'editore Zanichelli di Bologna, un volume di versi intitolato L'arcobaleno. Mastri aveva alle spalle soltanto un altro libro, uscito ben otto anni prima, che ebbe qualche lode da Pompeo Bettini, il quale vedeva nelle prime liriche del nostro, qualcosa che faceva pensare ad un grande, futuro poeta. L'occasione di mettersi in mostra arrivò, per Mastri, grazie alla nascita di una rivista letteraria: Il Marzocco, diretta inizialmente dai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e, successivamente dallo stesso Mastri. Questa rivista acquistò in breve tempo grande importanza grazie agli ottimi collaboratori di cui si poteva avvalere e, soprattutto, grazie agli illustri poeti che lì pubblicarono in "anteprima" i loro versi; tra questi spicca senz'altro il nome di Giovanni Pascoli: a quel tempo autentico e forse unico maestro per molti giovani autori di versi, ed anche per Mastri. Quest'ultimo cominciò a pubblicare in modo assiduo sul Marzocco i suoi componimenti poetici a partire dal 1897; molti di questi, con poche varianti, entrarono a far parte de L'arcobaleno: volume di versi uscito nel 1900 presso l'editore Zanichelli in Bologna (fu ripubblicato nel 1920 con alcune varianti). Questa appena citata è un'opera poetica che, in verità, molto deve a Pascoli, in particolare alle Myricae. La predilezione per l'ambiente agreste, la meraviglia e l'attenzione nei confronti delle semplici manifestazioni della natura, le piccole cose e i personaggi umili presenti nelle campagne e nei paesi dell'entroterra sono argomenti poetici che accomunano il poeta romagnolo e quello toscano. Mastri seppe far tesoro della lezione pascoliana per approfondire e proseguire il discorso già iniziato nelle Myricae. La differenza tra i due poeti si nota soltanto in poche poesie, dove Mastri mostra la sua vicinanza e la sua simpatia nei confronti della poesia decadente e simbolista, che allora era nella fase più evolutiva. Alcune di queste poesie le si può trovare nella prima sezione del libro: Le oscure visioni (che già nel titolo mostra molte attinenze con la poetica or ora citata). Altre si incontrano in ulteriori sezioni e sono le migliori (mi riferisco a Il tabernacolo, Il muro e Passeggiata autunnale). Interessante e attinente, da questo punto di vista, è anche la sezione Quarti di luna. Mastri proseguì sulla stessa strada di L'arcobaleno anche negli anni successivi; ne fa testo la raccolta Lo specchio e la falce: uscita dopo sette anni e a cui spero di poter dedicare un ulteriore post. Concludo selezionando, dalla prima edizione de L'arcobaleno, quelle tre poesie che ho testé nominato e che rappresentano uno dei momenti più alti del nostro decadentismo poetico.




IL TABERNACOLO

Vedi? Alla cantonata è un breve armario
chiuso; e dinanzi accesa una votiva
lampada, cui non manca olio d'oliva
giammai, giammai, come in un santuario.

Pure, non vi si ferma anima viva;
nessuno più vi recita il rosario.
Chi dunque ha cura di quel solitario
tabernacolo? Chi la fiamma avviva?

Ascolta: è voce che, se a tarda notte
lo sperso viandante qua s'aggiri,
veda e oda cose onde il cammino affretta.

(Guizza la fiamma: stride una civetta.)
Vede un'ombra che prega, e da sospiri
ode le preci e da gemiti rotte.




IL MURO

Una solinga via fa capo al muro;
alto ed oscuro per crepacci antichi;
dalla cui sommità pendono intrichi
d'ellera, come ancor neri cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi...
Io non lo so, che cinga il vecchio muro.

Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo
da invisibili frasche ora mi giunge;
ed un garrir di passeri, più lunge,
da invisibili tetti. Ma che cinga
il vecchio muro in questa via solinga,
io non lo so: né bramo di saperlo.

Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore
pallide in volto d'un pallor di cera,
cui sa d'incenso l'ampia veste nera,
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni rosa che muore.

Fors'anche un cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta il passeraio?
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio,
nido di merli? Ed erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un marmoreo biancore
stagna, com'acqua lucida in un prato.

O forse un dolce solitario asilo
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi;
mani allacciate, occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta.
La luna poi vedrà stamparsi netta
un'ombra in terra, un duplice profilo.

O, chi sa mai ?, come talor si vede
retto da un vecchio un gracile bambino,
regge il muro uno squallido giardino.
E dietro, forse, un giovinetto langue;
e chino l'avo su quel volto esangue,
spengersi mira il suo ultimo erede...

Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo dello scabro muro,
lievemente oscillano nel puro
vespro così, com'ispidi cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi i lor pensieri.




PASSEGGIATA AUTUNNALE

Io vo lentamente sotto la pioggia
di foglie morte, per questo viale.
Oh rigidi olmi nel cielo autunnale,
fra un vel di nebbia! Oh lugubre pioggia!

Ed or crepitanti e come contorte
da fuoco, or tacite come vane ombre,
le foglie cadono, cadono Ingombre
son tutte le cose di questa morte.

Oh! tutto n'è ingombro. La roggia chiazza
adombra il terreno, gli argini, i muri,
i vuoti sedili: cumuli oscuri
qua e là si elevano, lustri di guazza.

Eppure io ben vedo, fra un polverìo
denso, com' è quando turbina il vento,
qualcuno a un suo rude lavoro intento:
spazzare, ammucchiare con gran fruscìo.

E vedo passare carri ricolmi
di queste piccole morte... Che vale?
Oh! senza posa, ma placida, eguale,
cade la pioggia dall'alto degli olmi.

Da tutti, da tutti gli alberi cade
vicino e lontano la triste pioggia,
senza posa, senza posa: la roggia
chiazza si allarga, dilaga ed invade...

Io vo lentamente. Sotto il mio piede,
ecco, via via qualche foglia percossa
manda un lieve scricchiolìo come d'ossa
fragili, e infranta di subito cede.

Ecco: una foglia mi sfiora la mano,
cadendo; un'altra mi passa rasente
agli occhi sì ratta, che più son lente
le ciglia a schermirsi; un'altra pian piano

mi scende sull'òmero e alle mie vesti
s'appiglia... Ebbene: copritemi tutto,
copritemi, o foglie, del vostro lutto,
sì che il mio corpo gravato ne resti.

Anch'io vo' giacere sul nudo suolo,
che vide le nostre fuggevoli orme;
tornare alla terra, cumulo informe,
su cui gli uccelletti fermino il volo.

Non io vi sentii con l'anima (oh Aprile!)
dall'esili gemme schiudervi al sole,
tenere come le prime parole 
ch'escano incerte da labbro infantile?

Non io vi mirai, quando agili e pronte
ad ogni aura, le verdi esultanze
vostre, ampiamente, con tremole danze
d'ombre, stormivano sulla mia fronte?

Ed ora è la morte... E sia! Cadete,
cadete, o foglie, vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco, sì, tutto è vano,
come noi siamo e come voi siete.


domenica 29 luglio 2018

Antologie: "L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo"


Questa antologia è, per me, la migliore mai pubblicata tra quelle che si occupano di poesia italiana dell'Ottocento e del Novecento. Uscì per la prima volta nel 1963, presso l'editore Martello di Milano. I curatori, Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, sono stati a loro volta eccellenti poeti. Rammento che, prima di avere l'opportunità di comperarla, ne captai l'importanza, per il motivo che veniva spesso citata in diversissimi ambiti e su svariati libri, in quanto in essa era possibile trovare nomi difficilmente rintracciabili altrove; inoltre, non sono poche le antologie che usufruirono di questo volume, per selezionare dei testi di poeti poco considerati, i cui libri erano e sono di difficile reperibilità. E la peculiarità dell'antologia è sostanzialmente questa: qui sono stati selezionati alcuni poeti ignorati dalle altre opere similari, oppure inseriti soltanto in antologie settoriali. A tal proposito, mi preme ricordare, tra i nomi qui presenti, a titolo prettamente esemplificativo, quelli di Ernesto Ragazzoni, Guelfo Civinini, Gustavo Botta, Sandro Baganzani, Enrico Somaré, Silvio Catalano, Francesco Flora, Giacomo Prampolini, Libero Bigiaretti, Antonio Rinaldi e Alberico Sala; non mancano, inoltre, un gran numero di poeti dialettali. In queste pagine non si fa distinzione tra grandi e piccoli poeti (a parte lo spazio dedicato a ciascuno di essi): tutti compaiono in fila, uno dopo l'altro, con le loro poesie; ed è anche questa una scelta opportuna, visto che sono veramente troppe le antologie in cui si distinguono i poeti "sommi", "superiori", "minori" ecc. oppure quelle in cui ogni poeta è incasellato in una scuola o in un movimento. L'arco temporale di cui l'antologia si occupa è quello che va dall'unità d'Italia (all'incirca il 1861) ai primi anni '60 del XX secolo. I poeti sono ordinati per anno di nascita e a ciascuno di loro è stata riservata sia una breve presentazione che una bibliografia delle opere e della critica. Ecco infine l'elenco dei 152 poeti presenti nelle 1386 pagine di questo stupendo libro. 

L'ANTOLOGIA DEI POETI ITALIANI DELL'ULTIMO SECOLO



Giosuè Carducci, Domenico Gnoli, Emilio Praga, Vittorio Betteloni, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Arturo Graf, Giovanni Pascoli, Vittoria Aganoor, Salvatore Di Giacomo, Pompeo Bettini, Cesare De Titta, Gabriele D'Annunzio, Adolfo De Bosis, Angiolo Silvio Novaro, Gian Pietro Lucini, Sebastiano Satta, Pietro Mastri, Mario Novaro, Enrico Thovez, Giovanni Cena, Ada Negri, Luisa Giaconi, Ernesto Ragazzoni, Francesco Chiesa, Umberto (Berto) Barbarani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Guelfo Civinini, Paolo Buzzi, Sibilla Aleramo, Filippo Tommaso Marinetti, Rocco Galdieri, Giuseppe Lipparini, Francesco Pastonchi, Ardengo Soffici, Giulio Gianelli, Gustavo Botta, Francesco Gaeta, Enrico Pea, Giovanni Papini, Sandro Baganzani, Guido Gozzano, Umberto Saba, Carlo Chiaves, Corrado Govoni, Piero Jahier, Clemente Rebora, Marino Moretti, Arturo Onofri, Aldo Palazzeschi, Umberto Zerbinati, Virgilio Giotti, Dino Campana, Delio Tessa, Fausto Maria Martini, Aldo Spallicci, Carlo Michelstaedter, Alfredo Luciani, Sergio Corazzini, Diego Valeri, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Luciano Folgore, Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Edoardo Firpo, Giuseppe Villaroel, Enrico Somaré, Mario Venditti, Luigi Fallacara, Silvio Catalano, Girolamo Comi, Ettore Serra, Oreste Ferrari, Riccardo Bacchelli, Francesco Flora, Vann'Antò, Maria Barbara Tosatti, Manlio Dazzi, Biagio Marin, Luigi Bartolini, Ugo Betti, Elpidio Jenco, Lionello Fiumi, Nicola Moscardelli, Giorgio Vigolo, Luciano Nicastro, Vittorio Clemente, Filippo De Pisis, Eugenio Montale, Adriano Grande, Carlo Saggio, Corrado Pavolini, Giacomo Noventa, Giacomo Prampolini, Sergio Solmi, Vincenzo Guarnaccia, Salvatore Quasimodo, Eurialo De Michelis, Eugenio, Ferdinando Palmieri, Raffaele Carrieri, Mario Dell'Arco, Sandro Penna, Libero Bigiaretti, Cesare Pavese, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Aldo Capasso, Renzo Laurano, Beniamino Dal Fabbro, Antonio Barolini, Gaetano Arcangeli, Lorenzo Calogero, Guglielmo Petroni, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Lino Curci, Vittorio Sereni, Siro Angeli, Luigi Fiorentino, Umberto Bellintani, Alberto Mondadori, Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Antonio Rinaldi, Vittorio Bodini, Giorgio Bassani, Franco Fortini, Angelo Romanò, Nelo Risi, Margherita Guidacci, Andrea Zanzotto, Biagia Marniti, Pier Paolo Pasolini, Bartolo Cattafi, Luciano Erba, Alberico Sala, Elio Filippo Accrocca, Ottaviano Giannangeli, Roberto Roversi, Franco Costabile, Paolo Volponi, Luciano Luisi, Mario Gori, Elio Pagliarani, Roberto Sanesi.