domenica 5 agosto 2018

"L'arcobaleno" di Pietro Mastri


Pietro Mastri (nome d'arte di Pirro Masetti) è oggi un poeta totalmente ignorato. Pure ebbe un suo periodo d'oro agli albori del XX secolo, quando fu pubblicato, dall'editore Zanichelli di Bologna, un volume di versi intitolato L'arcobaleno. Mastri aveva alle spalle soltanto un altro libro, uscito ben otto anni prima, che ebbe qualche lode da Pompeo Bettini, il quale vedeva nelle prime liriche del nostro, qualcosa che faceva pensare ad un grande, futuro poeta. L'occasione di mettersi in mostra arrivò, per Mastri, grazie alla nascita di una rivista letteraria: Il Marzocco, diretta inizialmente dai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e, successivamente dallo stesso Mastri. Questa rivista acquistò in breve tempo grande importanza grazie agli ottimi collaboratori di cui si poteva avvalere e, soprattutto, grazie agli illustri poeti che lì pubblicarono in "anteprima" i loro versi; tra questi spicca senz'altro il nome di Giovanni Pascoli: a quel tempo autentico e forse unico maestro per molti giovani autori di versi, ed anche per Mastri. Quest'ultimo cominciò a pubblicare in modo assiduo sul Marzocco i suoi componimenti poetici a partire dal 1897; molti di questi, con poche varianti, entrarono a far parte de L'arcobaleno: volume di versi uscito nel 1900 presso l'editore Zanichelli in Bologna (fu ripubblicato nel 1920 con alcune varianti). Questa appena citata è un'opera poetica che, in verità, molto deve a Pascoli, in particolare alle Myricae. La predilezione per l'ambiente agreste, la meraviglia e l'attenzione nei confronti delle semplici manifestazioni della natura, le piccole cose e i personaggi umili presenti nelle campagne e nei paesi dell'entroterra sono argomenti poetici che accomunano il poeta romagnolo e quello toscano. Mastri seppe far tesoro della lezione pascoliana per approfondire e proseguire il discorso già iniziato nelle Myricae. La differenza tra i due poeti si nota soltanto in poche poesie, dove Mastri mostra la sua vicinanza e la sua simpatia nei confronti della poesia decadente e simbolista, che allora era nella fase più evolutiva. Alcune di queste poesie le si può trovare nella prima sezione del libro: Le oscure visioni (che già nel titolo mostra molte attinenze con la poetica or ora citata). Altre si incontrano in ulteriori sezioni e sono le migliori (mi riferisco a Il tabernacolo, Il muro e Passeggiata autunnale). Interessante e attinente, da questo punto di vista, è anche la sezione Quarti di luna. Mastri proseguì sulla stessa strada di L'arcobaleno anche negli anni successivi; ne fa testo la raccolta Lo specchio e la falce: uscita dopo sette anni e a cui spero di poter dedicare un ulteriore post. Concludo selezionando, dalla prima edizione de L'arcobaleno, quelle tre poesie che ho testé nominato e che rappresentano uno dei momenti più alti del nostro decadentismo poetico.




IL TABERNACOLO

Vedi? Alla cantonata è un breve armario
chiuso; e dinanzi accesa una votiva
lampada, cui non manca olio d'oliva
giammai, giammai, come in un santuario.

Pure, non vi si ferma anima viva;
nessuno più vi recita il rosario.
Chi dunque ha cura di quel solitario
tabernacolo? Chi la fiamma avviva?

Ascolta: è voce che, se a tarda notte
lo sperso viandante qua s'aggiri,
veda e oda cose onde il cammino affretta.

(Guizza la fiamma: stride una civetta.)
Vede un'ombra che prega, e da sospiri
ode le preci e da gemiti rotte.




IL MURO

Una solinga via fa capo al muro;
alto ed oscuro per crepacci antichi;
dalla cui sommità pendono intrichi
d'ellera, come ancor neri cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi...
Io non lo so, che cinga il vecchio muro.

Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo
da invisibili frasche ora mi giunge;
ed un garrir di passeri, più lunge,
da invisibili tetti. Ma che cinga
il vecchio muro in questa via solinga,
io non lo so: né bramo di saperlo.

Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore
pallide in volto d'un pallor di cera,
cui sa d'incenso l'ampia veste nera,
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni rosa che muore.

Fors'anche un cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta il passeraio?
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio,
nido di merli? Ed erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un marmoreo biancore
stagna, com'acqua lucida in un prato.

O forse un dolce solitario asilo
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi;
mani allacciate, occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta.
La luna poi vedrà stamparsi netta
un'ombra in terra, un duplice profilo.

O, chi sa mai ?, come talor si vede
retto da un vecchio un gracile bambino,
regge il muro uno squallido giardino.
E dietro, forse, un giovinetto langue;
e chino l'avo su quel volto esangue,
spengersi mira il suo ultimo erede...

Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo dello scabro muro,
lievemente oscillano nel puro
vespro così, com'ispidi cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi i lor pensieri.




PASSEGGIATA AUTUNNALE

Io vo lentamente sotto la pioggia
di foglie morte, per questo viale.
Oh rigidi olmi nel cielo autunnale,
fra un vel di nebbia! Oh lugubre pioggia!

Ed or crepitanti e come contorte
da fuoco, or tacite come vane ombre,
le foglie cadono, cadono Ingombre
son tutte le cose di questa morte.

Oh! tutto n'è ingombro. La roggia chiazza
adombra il terreno, gli argini, i muri,
i vuoti sedili: cumuli oscuri
qua e là si elevano, lustri di guazza.

Eppure io ben vedo, fra un polverìo
denso, com' è quando turbina il vento,
qualcuno a un suo rude lavoro intento:
spazzare, ammucchiare con gran fruscìo.

E vedo passare carri ricolmi
di queste piccole morte... Che vale?
Oh! senza posa, ma placida, eguale,
cade la pioggia dall'alto degli olmi.

Da tutti, da tutti gli alberi cade
vicino e lontano la triste pioggia,
senza posa, senza posa: la roggia
chiazza si allarga, dilaga ed invade...

Io vo lentamente. Sotto il mio piede,
ecco, via via qualche foglia percossa
manda un lieve scricchiolìo come d'ossa
fragili, e infranta di subito cede.

Ecco: una foglia mi sfiora la mano,
cadendo; un'altra mi passa rasente
agli occhi sì ratta, che più son lente
le ciglia a schermirsi; un'altra pian piano

mi scende sull'òmero e alle mie vesti
s'appiglia... Ebbene: copritemi tutto,
copritemi, o foglie, del vostro lutto,
sì che il mio corpo gravato ne resti.

Anch'io vo' giacere sul nudo suolo,
che vide le nostre fuggevoli orme;
tornare alla terra, cumulo informe,
su cui gli uccelletti fermino il volo.

Non io vi sentii con l'anima (oh Aprile!)
dall'esili gemme schiudervi al sole,
tenere come le prime parole 
ch'escano incerte da labbro infantile?

Non io vi mirai, quando agili e pronte
ad ogni aura, le verdi esultanze
vostre, ampiamente, con tremole danze
d'ombre, stormivano sulla mia fronte?

Ed ora è la morte... E sia! Cadete,
cadete, o foglie, vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco, sì, tutto è vano,
come noi siamo e come voi siete.


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