Pietro Mastri (nome
d'arte di Pirro Masetti) è oggi un poeta totalmente ignorato. Pure ebbe un suo
periodo d'oro agli albori del XX secolo, quando fu pubblicato, dall'editore
Zanichelli di Bologna, un volume di versi intitolato L'arcobaleno. Mastri aveva alle spalle soltanto un altro libro,
uscito ben otto anni prima, che ebbe qualche lode da Pompeo Bettini, il quale
vedeva nelle prime liriche del nostro, qualcosa che faceva pensare ad un grande,
futuro poeta. L'occasione di mettersi in mostra arrivò, per Mastri, grazie alla
nascita di una rivista letteraria: Il Marzocco,
diretta inizialmente dai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e, successivamente
dallo stesso Mastri. Questa rivista acquistò in breve tempo grande importanza
grazie agli ottimi collaboratori di cui si poteva avvalere e, soprattutto,
grazie agli illustri poeti che lì pubblicarono in "anteprima" i loro
versi; tra questi spicca senz'altro il nome di Giovanni Pascoli: a quel tempo
autentico e forse unico maestro per molti giovani autori di versi, ed anche per
Mastri. Quest'ultimo cominciò a pubblicare in modo assiduo sul Marzocco i suoi componimenti poetici a
partire dal 1897; molti di questi, con poche varianti, entrarono a far parte de
L'arcobaleno: volume di versi uscito
nel 1900 presso l'editore Zanichelli in Bologna (fu ripubblicato nel 1920 con
alcune varianti). Questa appena citata è un'opera poetica che, in verità, molto
deve a Pascoli, in particolare alle Myricae.
La predilezione per l'ambiente agreste, la meraviglia e l'attenzione nei
confronti delle semplici manifestazioni della natura, le piccole cose e i
personaggi umili presenti nelle campagne e nei paesi dell'entroterra sono
argomenti poetici che accomunano il poeta romagnolo e quello toscano. Mastri
seppe far tesoro della lezione pascoliana per approfondire e proseguire il
discorso già iniziato nelle Myricae.
La differenza tra i due poeti si nota soltanto in poche poesie, dove Mastri
mostra la sua vicinanza e la sua simpatia nei confronti della poesia decadente
e simbolista, che allora era nella fase più evolutiva. Alcune di queste poesie
le si può trovare nella prima sezione del libro: Le oscure visioni (che già nel titolo mostra molte attinenze con la
poetica or ora citata). Altre si incontrano in ulteriori sezioni e sono le migliori
(mi riferisco a Il tabernacolo, Il muro e Passeggiata autunnale). Interessante e attinente, da questo punto
di vista, è anche la sezione Quarti di
luna. Mastri proseguì sulla stessa strada di L'arcobaleno anche negli anni successivi; ne fa testo la raccolta Lo specchio e la falce: uscita dopo
sette anni e a cui spero di poter dedicare un ulteriore post. Concludo
selezionando, dalla prima edizione de L'arcobaleno,
quelle tre poesie che ho testé nominato e che rappresentano uno dei momenti
più alti del nostro decadentismo poetico.
IL TABERNACOLO
Vedi? Alla cantonata
è un breve armario
chiuso; e dinanzi
accesa una votiva
lampada, cui non
manca olio d'oliva
giammai, giammai,
come in un santuario.
Pure, non vi si ferma
anima viva;
nessuno più vi recita
il rosario.
Chi dunque ha cura di
quel solitario
tabernacolo? Chi la
fiamma avviva?
Ascolta: è voce che,
se a tarda notte
lo sperso viandante
qua s'aggiri,
veda e oda cose onde
il cammino affretta.
(Guizza la fiamma:
stride una civetta.)
Vede un'ombra che
prega, e da sospiri
ode le preci e da
gemiti rotte.
IL MURO
Una solinga via fa
capo al muro;
alto ed oscuro per
crepacci antichi;
dalla cui sommità
pendono intrichi
d'ellera, come ancor
neri cernecchi
su certe fronti
ruvide di vecchi...
Io non lo so, che
cinga il vecchio muro.
Di là, nel vespro, il
martellar d'un merlo
da invisibili frasche
ora mi giunge;
ed un garrir di
passeri, più lunge,
da invisibili tetti.
Ma che cinga
il vecchio muro in
questa via solinga,
io non lo so: né
bramo di saperlo.
Che?... Forse l'orto
d'un convento... Suore
pallide in volto d'un
pallor di cera,
cui sa d'incenso
l'ampia veste nera,
vanno per quelle
aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire,
attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni
rosa che muore.
Fors'anche un
cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta
il passeraio?
V'è qualche siepe
fatta ora sterpaio,
nido di merli? Ed
erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un
marmoreo biancore
stagna, com'acqua
lucida in un prato.
O forse un dolce
solitario asilo
d'amore... Ecco il
viale dei sorrisi;
mani allacciate,
occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta
la villa e aspetta.
La luna poi vedrà
stamparsi netta
un'ombra in terra, un
duplice profilo.
O, chi sa mai ?, come
talor si vede
retto da un vecchio
un gracile bambino,
regge il muro uno
squallido giardino.
E dietro, forse, un
giovinetto langue;
e chino l'avo su quel
volto esangue,
spengersi mira il suo
ultimo erede...
Tace ogni suono
ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo
dello scabro muro,
lievemente oscillano
nel puro
vespro così,
com'ispidi cernecchi
su certe fronti
ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi
i lor pensieri.
PASSEGGIATA AUTUNNALE
Io vo lentamente
sotto la pioggia
di foglie morte, per
questo viale.
Oh rigidi olmi nel
cielo autunnale,
fra un vel di nebbia!
Oh lugubre pioggia!
Ed or crepitanti e
come contorte
da fuoco, or tacite
come vane ombre,
le foglie cadono,
cadono Ingombre
son tutte le cose di
questa morte.
Oh! tutto n'è
ingombro. La roggia chiazza
adombra il terreno,
gli argini, i muri,
i vuoti sedili:
cumuli oscuri
qua e là si elevano,
lustri di guazza.
Eppure io ben vedo,
fra un polverìo
denso, com' è quando
turbina il vento,
qualcuno a un suo
rude lavoro intento:
spazzare, ammucchiare
con gran fruscìo.
E vedo passare carri
ricolmi
di queste piccole
morte... Che vale?
Oh! senza posa, ma placida,
eguale,
cade la pioggia
dall'alto degli olmi.
Da tutti, da tutti
gli alberi cade
vicino e lontano la
triste pioggia,
senza posa, senza
posa: la roggia
chiazza si allarga,
dilaga ed invade...
Io vo lentamente.
Sotto il mio piede,
ecco, via via qualche
foglia percossa
manda un lieve
scricchiolìo come d'ossa
fragili, e infranta
di subito cede.
Ecco: una foglia mi
sfiora la mano,
cadendo; un'altra mi
passa rasente
agli occhi sì ratta,
che più son lente
le ciglia a
schermirsi; un'altra pian piano
mi scende sull'òmero
e alle mie vesti
s'appiglia... Ebbene:
copritemi tutto,
copritemi, o foglie,
del vostro lutto,
sì che il mio corpo
gravato ne resti.
Anch'io vo' giacere
sul nudo suolo,
che vide le nostre
fuggevoli orme;
tornare alla terra,
cumulo informe,
su cui gli uccelletti
fermino il volo.
Non io vi sentii con
l'anima (oh Aprile!)
dall'esili gemme
schiudervi al sole,
tenere come le prime
parole
ch'escano incerte da
labbro infantile?
Non io vi mirai,
quando agili e pronte
ad ogni aura, le
verdi esultanze
vostre, ampiamente,
con tremole danze
d'ombre, stormivano
sulla mia fronte?
Ed ora è la morte...
E sia! Cadete,
cadete, o foglie,
vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco,
sì, tutto è vano,
come noi siamo e come
voi siete.
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