domenica 19 agosto 2018

I funerali nella poesia italiana decadente e simbolista

Essendo il funerale un rito che si celebra dopo la dipartita di un essere umano, è evidente che in queste poesie vi sia un riferimento alla morte. Non sempre però trattasi di morte fisica: in alcuni casi, dove si assiste ad una vera e propria messa in scena funebre, a morire è l'anima o il cuore del poeta, volendo in tal modo costui mostrare il suo totale distacco dalla vita terrena. Un altro modo per evidenziare quest'ultimo stato, che ricorre non di rado in queste poesie, è il funerale-farsa o, meglio, il funerale allegro; come a dire che la vita non è stata una cosa importante e che la sua perdita può diventare un sollievo oppure un occasione per riderci un po' su. Personalmente odio i funerali, ed è molto difficile che vi partecipi; quando, qualche anno fa, mia madre morì, rispettai la sua volontà di non avere alcun funerale. Confesso che mi sarebbe costato molto esservi presente.




FUNERALE
di Ugo Betti

Per una, vestita di raso celeste
Con la vanga una fossa ho da scavare.
Il mio bene sottoterra ho da posare,
Piano....
Che non si sciupi la sua bella veste.

Aveva gli occhi turchini turchini
Come i nastri dell'abito da festa.
Aveva lievi e fatati scarpini
Per camminare e ballare più lesta....

Quando piangevo
Ella veniva perché non piangessi più,
E m'arruffava i capelli, con un riso
Tremulo negli occhi blu.

Se udivo un tinnire di braccialetti
Con che batticuore guardavo la porta!
Ed ora ho in braccio una creatura morta,
Assai leggera, tutta vestita di merletti....
La porto senza pianto e senza pena,
E la cullo con questa cantilena....

Ma di cantare sono stanco!
Ed anche me dovete seppellire.
Sotto la testa mettetemi un guanciale bianco
E poi nella terra lasciatemi dormire.

Mettetemi un guanciale, per pietà
Dei miei capelli, e fatemi dormire
Supino, nell'oscurità.

(da "Il re pensieroso", Treves, Milano 1922)




FUNERALE
di Massimo Bontempelli

D'una fanciulla che moria tra 'l greggio
Lavoro, a un solco reclinando il fronte,
Lento or seguiva il funebre corteggio;

E sentiva io salir da gole pronte
Ed espandersi un canto, e il bianco stuolo
Mover vedea lungo l'opposto monte:

Pur lontano così, che un motto solo
Non mi giungea dei lamentosi accenti
Onde nel canto diffondeasi il duolo.

Ma in breve a me parea che quei dolenti
Spiriti, quelle voci ansie lontane
Che a tratti m'adducea l'ala dei venti,

Non fosser voci che di bocche umane
Foggiate a ricontare umano pianto
Prendesser forma di «Ave» e di letane,

Ma che le cose tutte, e tutto quanto
Un novo senso della iddia Natura
S'armonizzasse in questo unico canto: —

« — Ave, e per sempre, o lieta creatura
Che germinata in mezzo ai nostri amori
Sfioristi a un tratto, vittima immatura.

Cantiamo oggi su te funebri cori
Noi, della terra più robusti figli,
Che resistemmo ad opere maggiori.

Primi scorgendo i petali vermigli
Scolorar delle rose entro i giardini,
E inaridir sul dritto stelo i gigli,

E cespi ed erbe e fior' contriti e chini,
Sentimmo il colpo e immaginammo il lutto;
Ma l'annunzio correa tutti i confini.

Già il gran duol prendea voce, e per l'asciutto
Greto dei rivi una gemente vena
Scaturìa a mormorar col molle flutto,

E il murmure salìa, quale acqua in piena.
Su alle frondi che s'uniano al fremito
Sì come il cielo alla pietà terrena.

Erbe fiori arie acque così d'un gemito
Solo piangiam tua sconsolata sorte,
E percote nei monti ultimi il tremito.

Ave, e per sempre, o creatura forte,
Che dura a travagliar la ingrata terra
Salda non fosti all'appressar di morte.

Oggi, perché fu tronca la tua guerra
Di vita che con noi movesti in gara
Al fato che invincibile ti afferra.

Perché eri sana e di dissidio ignara,
E a noi quel cor che lieta ognor ti volse
Fraternamente ti rendeva cara,

Perché del sol, che oggi ti si tolse,
E dei cieli e di noi tanto hai gioito
Quant'altra mai umana anima accolse, —

Noi celebriamo il funeral tuo rito,
Noi cielo e terra, e l'orrida notizia
Gettiam viva ai confln dell'infinito.

Ad esaltar la natural mestizia — ».

(da "Egloghe", Streglio, Torino 1904)




IL MORTORIO DI BIBIA
di Paolo Buzzi

Bibia, vecchia zitella zoppa e ricca
è morta l'altro ieri.
Lasciato ha eredi
tutti, che la seguiranno al funerale,
e zoppi e storpi poveri della città.

La nuova è corsa via
per le stamberghe di soffitta e di cantina,
pe' fienili e le fogne e le panchette e i gradini
di chiesa e di convento e gli archi
di ponte pieni di danze moscerine sul canale.

È l'ora del mortorio.
Si muove. Avanza. Il prete, zoppo.
Il carro pare che zoppichi coi cavalli.
E, dietro, l'esercito delle grucce e dei saltelli.

Un lieve movere umano
a ritmo lento.
Hai mai veduto andare, in vento di marzo,
i ramiciattoli d'ippocastano sui viali?

Fosco è il colore della marmaglia sbilenca
sulla strada civica dove la primavera si riversa.

E segue una sua sghemba
linea che, veramente, pare
sopra una diritta linea di secoli
l'eterno passo necroforo claudicante dell'Umanità.

Tetano o mazurka,
l'ossa loro, i loro nervi ballano
sotto l'archettata d'uno spasimo.
Fango v'è, per pioggia recente, sulla strada.
L'orme gialle hanno il disegno fuggevole
dei vecchi burri che friggono,
e le stampelle bucano
di piccoli botri acquitrinosi obliqui
la melma che sghignazza e, forse, gode
essere calpestata, finalmente,
da un'orda di miserabili felici.

Vi sono vecchi e giovani,
maschi e femmine.
Prima le femmine
fanno il corteo più denso di cenci,
sbattocchiano la mota e se ne ingioiellano
d'agate spente le sottane
sdruscite, alla meccanica guasta
degli arti male invisibili.
Poi, gli uomini, d'ogni colore e forma,
ironici, con zampe di gallo profonde
agli occhi, fin sulle tempie e le guance
rigate di rughe perverse.
Qua e là un verde di tabe,
molti d'un rosso nasuto di vernaccia.
Adocchiano quasi tutti le belle donne
ferme curiose a ridere
nelle cornici di pietra delle finestre
o sui plinti prolissi del lastricato.
E, traballando avanti,
borbottano requiem osceni.

Dove marciano?
Fin là dove si reggano.
Marcerebbero fino alle stelle.
Ma non arriveranno fino al cimitero.
Ecco:
uno stramazza, vinto
dalla sua gamba di legno che si sfascia.
Ne cascano sovra altri sei.
La coda si squassa, scompiglia, rompe.
Il carro, lo fermano.
È tutto caduto il corteo.

Una barricata di corpi umani
irta di legni di grucce e di stinchi
tiene ora la via dove rideva la gente.
Vi sono dei volti e delle nuche nel fango.
Contro la primavera
l'ammasso nerastro
ha dei riscossoni d'enorme talpa accoppata.
E molti, ora, s'odono gridare e piangere
nel mucchio insueto e all'intorno.

E due si son dati a morire.
Ecco, sotto il pasticcio di membra
le due mani diverse, stecchite, ma avide pari
che prendono il vuoto
come la loro parte sudata d'eredità.

(da "I Poeti futuristi", Edizioni di Poesia, Milano 1912)




FUNERALE ALLEGRO
di Francesco Cazzamini Mussi

Che dolcezza! ecco, la vita
ci riserba grandi gioie;
stamattina ho seppellita,
senza pompe e senza noie,

quella stolta illusione
che si chiama, sai?: l'amore
Senza alcuna commozione,
senza il minimo dolore,

l'ho portato al cimitero
de' miei sogni. Quante croci!
Per il tacito sentiero
borbottavano le voci

de' superstiti ideali:
«Lux perpetua luceat eo!»
proprio come ai funerali
d'un cristiano: «Luceat eo!»

E la lieta compagnia
se ne andava alla dimora
della pace. Che allegiia,
pe' viandanti di buon'ora!

Nel silenzio tutt'intorno
riposavano gli avelli:
si schiariva il nuovo giorno,
pispigliavano gli uccelli.

Fu l'amore sotterrato
senza tante cerimonie,
fu l'amore sotterrato
senza tante querimonie;

ne l'epigrafe si scrisse,
né la colpa fu d'alcuno...
Era onesto, non si disse
per non far torto a nessuno.

(da "Le amare voluttà", Baldini, Castoldi & C., Milano 1910)




IL FUNERALE
di Cosimo Giorgieri Contri

La giovinezza morta
io voglio qui posare,
qui dove più sue chiare
ghiare apre il lago d'Orta.

Lambe la curva duna
l'acqua con un respiro;
dormon composti in giro
li orti sotto la luna:

e dove tu sconfini,
lago, il tacente raggio
segna come un passaggio
bianco di gelsomini.

— Ricordi i gelsomini
di un perso agosto? È ancora
il loro odor che odora
dei pensili giardini? —

E giù nella profonda
acqua, nel vitreo gorgo,
ella, non triste, io scorgo
che lentamente affonda.

Protende ella un'estrema
volta le bianche braccia
verso di me: la faccia
forse a l'addio le trema;

indi e s'immerge, quale
Ofelia a' glauchi abissi...
indugiano i prolissi
capelli il funerale.

(dalla rivista «Nuova Antologia», luglio 1906)




SOGNO D'UN FUNERALE
di Corrado Govoni

Per la riva deserta d'un canale,
sbucò (ma donde?) un lungo funerale.

Eran due file rigide di frati,
con gli abiti di rosso e incappucciati;

e portavan de le torce fumose
che ferivano l'acque paludose;

e recitavano alternatamente
delle preghiere, lamentosamente.

Dietro veniva una gran croce nera,
seguita da una funebre bandiera

e da un carro, guidato da un becchino
con la parrucca bianca col codino.

I cavalli indossavan panni a scacchi
e scuotevano lugubri pennacchi.

Niente corone. Solo una lanterna
splendea sinistra sulla cassa interna.

Poi il corteo volta in fretta in fretta
e s'infila per una via stretta

e tortuosa, tra giganti muri
su cui sembra che l'ombra s'impauri.

Così erano quattro funerali,
due centrali e due laterali,

che procedevano per la Certosa
accelerando l'andatura ansiosa.

Ed io li osservavo (da che posto?);
e mi pareva d'essere discosto

e vicino, e di non veder che saie
bianche e bucate da livide occhiaie,

che allargavan la strada ed ogni aspetto
producendo un macabro e strano effetto.

Le occhiaie si allargavan si allargavano
ingoiando i vestiti, e allontanavano

anche i muri, e non ci restò più niente,
e l'ombra s'affiaccò pesantemente.

Mentre io stavo istupidito e assorto,
pensando a quel convoglio ed a quel morto,

ecco apparire ancora il funerale,
per la deserta riva del canale,

e le due file rigide di frati,
con gli abiti di rosso e incappucciati:

la croce nera, la bandiera nera
chiazzata del dolore della cera,

ed il carro guidato dal becchino
dalla parrucca bianca col codino,

ed i cavalli con i panni a scacchi,
che scuotevan i lugubri pennacchi.

(da "Poesie scelte", Taddei, Ferrara 1918)




CORTEO FUNEBRE
di Achille Leto (1872-1963)

Immaginate più squallente cosa
d'un funebre corteo, fuori le porte
della vecchia città, quando piovosa
muor la giornata e cadono le morte

foglie degli autunnali alberi? Posa
sul nero carro una ghirlanda; assorte
genti van dietro; per la via fangosa,
al suo passaggio, è un brivido di morte.

Qualche ombrello si schiude ora che piove
più forte, quindi una fungaia nera
di cupolette. Ora il corteo si scioglie.

I cavalli son fradici: van dove
debbono andare: già si è fatto sera;
e via di trotto sulle morte foglie.

(da "Piccole ali", Sandron, Milano-Palermo-Napoli 1914)




IL FUNERALE
di Nicola Moscardelli

Ho accompagnato all'ultima dimora
il mio povero cuore che è morto.
Malato da un pezzo, poveretto,
Dio se l'è richiamato,
che sia benedetto!
Recitiamo una prece
sul povero cuore
morto chi sa di che male.
Quanti dottori lo visitarono!
Lo guardarono
l'osservarono
non dissero nulla;
aveva una ben strana malattia
il cuore dell'anima mia.
È morto, ora, poveretto,
che sia benedetto.
Vorrei piangerlo, ma non posso più:
vorrei amare ma non so più!...
C'è un vuoto nell'animo mio
che non si colmerà più.
Il povero cuore non palpita più,
non trema più:
una ben strana malattia
lo prese per la via,
il povero cuore mio!
Chi lo sa, chi lo sa
di che è morto il mio cuore?

(da "La Veglia", Unione Arti Grafiche, L'Aquila 1913)




FUNERALE
di Edoardo Mottini

Il nero forno sforna un biscotto,
un biscotto dorato, con la croce;
ma l'odore non è di pasta fina,
è un odore di cera e di cantina.
E il dolce è secco, rotola sui rulli
con un rimbombo sordo. Sei garzoni
l'hanno afferrato per le sei maniglie,
lo imbucano nel gurge della chiesa
ove il gran pasticcere lo conforta
col cognac extra dell'asperges teso.

Presto, presto, che il dolce non infrolli!
Cantando l'inno, al lume di candele,
lo si deponga sul desco fiorito
del vermineo convito!

(da "Rose nel pruneto", Taddei, Ferrara 1921)




FUNERALE
di Walter Ottolenghi

Anche il silenzio
ha un'ora in cui riposa,
un luogo in cui riposa.
Questa notte
mi par disteso qui,
fra gli stendardi bruni di foglie
che scivolano dai muretti
come zendadi melanconici
di donne abbandonate!
Un pianto sottile
sgorga dagli occhi, senza luce,
di questi volti
tuffati nel buio!
Un'umida bambagia
s'è posata sui prati,
gettata da innumerevoli mani,
e gli occhi del cielo
che guardano,
tremano tutti
nello sguardo d'argento!
Ad un angolo d'una via
ho incontrato il silenzio,
questo,
che riposava come un gigante
e il suo petto ansimante
sussultava nel mio!
... Un fanale... un fanale... un fanale
corteo di luci
come a un funerale
che passi fra due muri nudi,
altissimi,
quali roccie di granito
sospese
su l'abisso del buio!
Io devo camminare,
e non so camminare
che nel mezzo della via
umida,
vischiosa,
come se tutto il pianto
che ho pianto
fosse steso ai miei piedi
perch'io lo veda
e mi specchi in me stesso!
Nel fondo il fiume
ha il rumore d'un crine
solcato da un pettine enorme.
È l'ampia treccia dell'acqua
quella del gigante che dorme?
Nella chiarezza metallica del rivo
si scompongono
le goccie dei fanali
e dilagano in pozze preziose.
Attende una finestra aperta
qualcuno che s'inquadri nel vano
e mi par la cornice
d'un assente
che non ritorni più.
Pur ieri attesi,
in una veglia meravigliosa
una figura sottile,
un volto d'ambra e di rosa,
ed ieri non venne,
né domani verrà!
Una carezza fredda
mi solca la schiena,
una carezza infantile,
ed ho voglia di piangere: Mamma!
Ma nel buio
si riposa il silenzio,
non lo voglio svegliare,
no! Seguo il funerale,
lento, uguale:
un fanale... un fanale... un fanale...
ed è l'anima mia
che accompagno al camposanto,
senza un pianto,
sotto la finestra
che guarda giù,
nell'attesa d'un volto
che non ritorna più!

(da "Luce", Milano 1922)




AI FUNERALI DI UNA GIOVINETTA
di Francesco Pastonchi

Pallida eretta fra le singhiozzanti,
Senza lacrima o prece, a lungo assorta
Ella stette. Pensò forse la corta
Giovinezza e i ventenni sogni infranti.

Ma quando ai chiari fragorosi schianti
Dell'organo, la turba a un tratto insorta
Parve guidar nei cieli alti la morta
Con più serena gloria di canti:

Vidi su me quegli occhi aperti e fisi
Interrogare: — A che pensi? Non senti
Il poter della morte? E s'io morissi! —

Né rispondere io seppi con sorrisi;
Ma tremai come un albero che i venti
Scuotano al ciglio di profondi abissi.

(da "Belfonte", Streglio, Torino 1903)




IL MIO FUNERALE
di Ernesto Ragazzoni

Quando, uditemi amici, quando avvenga
che questa che mi rosica cirrosi
il fegato e dintorni m'abbia rosi,
come cirrosi fa che si convenga,

quando il medico, chiusa la sua cura,
ordinerà «portatelo pur via!»,
io voglio, per andar a casa mia
sottoterra, una magna sepoltura.

Ravvivatemi a tocchi di carmino
sapientemente la figura smunta;
questo fate, e indoratemi la punta
del naso e spruzzolatemi di vino

odoroso, che non m'abbia più l'aspetto
di un comune cadavere, e i capelli
fatemi tutti di vïola belli
e un non mai visto m'abbia cataletto.

Trascinino la mia spoglia mortale
sei porcellini tinti in verde e giallo
e Francesco Pastonchi, alto, a cavallo,
proclami «Che stupendo funerale!»

Cento musici in abito d'arconte
annunzino la mia corsa a Plutone
soffiando ampi venti di polmone
in cave corna di rinoceronte.

E cento bande strepitino poi
di strumenti impensati, impreveduti:
clisocorni, arcoflauti, fiascoimbuti,
trombicefali ed arpe-innaffiatoi.

Accorrano le turbe al pio passaggio
e a strilli, ad urla, a voci mozze e mezze,
si narrino le mie scelleratezze
e mi paia d'udire il lor linguaggio:

«Era il Gran Kan, il Padiscià degli orsi,
«Dei Bramini ridea, come di paria
«Era padrone di un castello in aria
«E si beveva il cielo in quattro sorsi

«Viveva nei più luridi angiporti...
«non aveva la testa troppo salda...
«Mangiava il cardo con la bagna calda
«di notte in compagnia di beccamorti.»

Infine sempre mi si tolga al sole
in una cripta, a un labirinto in fondo;
e tutti quanti i fior che sono al mondo,
tralci di rose, cespi di vïole,

effondano la loro primavera
fin giù nel buio delle mie caverne.
Ma siccome son io ch'ho da goderne,
i miei fiori piantateli in maniera

che le radici siano volte in alto
e le corolle sboccino sotterra...
Di sopra al sasso poi che mi rinserra
questa epigrafe scrivasi in ismalto:

«Qui giace ERNESTO RAGAZZONI D'ORTA
«nacque l'otto gennaio mille ed ottocentosettanta»
e sotto, questo motto:
«D'essere stato vivo non gl'importa».

(da "Poesie", Martello, Milano 1956)


Gustave Courbet, A Burial at Ornans
(da questa pagina)

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