domenica 25 agosto 2024

Poeti dimenticati: Farfa

 Farfa (pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini) nacque a Trieste nel 1879 e morì a Sanremo nel 1964. Fu pittore, scultore e poeta ed ebbe un ruolo importante all’interno del movimento futurista. Proprio Marinetti – fondatore del Futurismo – nel 1932 volle premiarlo definendolo «poeta record nazionale», per aver scritto una lirica in memoria dell’architetto Antonio Sant’Elia. Appartenne alla generazione dei “Nuovi Poeti Futuristi” (di cui uscì un’antologia nel 1925), pur avendo, in quel periodo, già superato da tempo i quarant’anni. Le sue migliori poesie sono raccolte in Noi, miliardario della fantasia (1932), volume che ebbe l’onore di contenere una prefazione scritta da Filippo Tommaso Marinetti.  

 

 

Opere poetiche

 

“Noi, miliardario della fantasia”, La Prora, Milano 1932.

“Poema del candore negro”, La Prora, Milano 1935.

“Marconia”, Officina d’Arte, Savona 1938.

“Ovabere”, Gutta de Guttis, Genova 1960.

“Tuberie e 7 ricette”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1964.

“Farfa, poeta record nazionale futurista”, Sabatelli, Savona 1970.

 



 

Presenze in antologie

 

"Le cinque guerre. Poesie e canti italiani", a cura di Renzo Laurano e Gaetano Salveti, Nuova Accademia Editrice, Milano 1965 (pp. 262-263).

"Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969 (volume secondo, pp. 653-662).

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 564-576).

"Poesia surrealista italiana", a cura di Beatrice Sica, San Marco dei Giustiniani, Genova 2007 (pp. 131-134).

 

 

Testi

 

IL MATTINO

 

azzurro

bellezza

rugiada

ossigeno

passeri

sussurro

 

macché

macché

risveglio

balzo

abiti

gabinetto

abluzioni

caffè

 

(da "Farfa, poeta record nazionale futurista", Sabatelli, Savona 1970, p. 88)

 

 

 

 

POE D'AMERICA

 

baudelaire di francia

heine di germania

wilde d'inghilterra

poeti creatori

e maledetti

ribelli tormentati

malgiudicati ieri

masnadieri della penna

oggi glorificati

 

sublimi amici

l'umanità di quel lato

non progredì

un millimetro solo

dal medioevo in qua

 

il poeta

deve ancora morire

prima che possa salire

la sua celebrità

 

e dopo

e dopo

ancora come voi

non può più uscire

per infierire

contro gl'imbecilli

che vedono sempre in ritardo

che si ravvedono poi

non può gustar la gioia

di levar loro gli occhi

per giuocar con essi allegramente

i birilli!

 

(da "Farfa, poeta record nazionale futurista", Sabatelli, Savona 1970, pp. 137-138)

 

 

 

 

AI BAGNI

 

le onde

rotonde

sodamente rosa

di cosce anche seni femminili

sembravano la liquidazione

del soprastante sole

sferico di carne originale

 

(da "Farfa, poeta record nazionale futurista", Sabatelli, Savona 1970, pp. 182-183)

 

 

 

domenica 18 agosto 2024

Il lumino verde

 Vanno, vanno col loro lumino quasi verde,

vanno e ognuna si perde come un soffio d'oro…

   «Lucciola, lucciola, vien da me.»


Oh, non aprire il pugno per afferrarle. Guai!

Esse, bimbo non sai? son le fate di giugno.

Bimbo, che ne faresti d'un lumino così

lieve? Immagino, sì, che ce lo spegneresti.

   «Lucciola, lucciola, vien da me.»


Lasciale! Col lumino loro, il lumino verde,

a ciascun che si perde insegnano il cammino:

sono le nostre stelle, le stelle della terra,

o tu che ami la guerra, fanciulletto ribelle.

   «Lucciola, lucciola, vien da me.»




COMMENTO

Questa poesia sulle lucciole è di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979) e si trova nel volume Poesie scritte col lapis, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1970. Nei versi ivi presenti, lo scrittore romagnolo fa una supplica ad un bambino che, attratto dai "lumini verdi" di questi piccoli coleotteri, cerca di agguantarli mentre stanno volando nei suoi pressi. Per convincerlo a desistere da questa azione istintiva, che causerebbe la morte delle lucciole, il poeta gli confida che esse non sono animali, ma fate estive che, in forma di minuscoli insetti luminosi, aiutano chi si è perso nel fitto buio della notte a ritrovare la strada di casa.

Ho pensato alla mia lontana infanzia, e al fatto che, già a quei tempi, dalle mie parti non vi fosse alcuna traccia delle lucciole. Allora se ne parlava spesso della loro scomparsa, e si diceva che tale evento fosse causato da un cambiamento climatico, a sua volta causato dall'inquinamento atmosferico. Quindi io, le lucciole, le ho viste soltanto nei documentari o sui libri illustrati.


sabato 17 agosto 2024

Milano, agosto 1943

 Un po' tutti ormai sono a conoscenza del fatto che le guerre moderne siano peggiori di tutte le altre che hanno attraversato l'intera storia della scellerata umanità di cui, ahimè, anche noi facciamo parte. Se in precedenza a morire erano soltanto i giovani soldati - ed anche questa realtà era inaccettabile -, ora muoiono per lo più i civili, a causa di bombardamenti ripetuti e scriteriati. Se è vero che nessun potente della terra ha - fino ad oggi - lanciato su una città la famigerata Bomba H, è anche vero che tanti governanti del pianeta non hanno mai rinunciato al perverso e sanguinario piacere del guerreggiare, causando migliaia e migliaia di morti inutili, dolorosissime, del tutto evitabili… Circa ottanta anni or sono, questa assurdo massacro era già cominciato, e la nostra era una delle nazioni più martoriate dai bombardamenti, come ben dice questa breve poesia di Salvatore Quasimodo.




MILANO, AGOSTO 1943


Invano cerchi tra la polvere,

povera mano, la città è morta.

È morta: s’è udito l’ultimo rombo

sul cuore del Naviglio. E l’usignolo

è caduto dall’antenna, alta sul convento,

dove cantava prima del tramonto.

Non scavate pozzi nei cortili:

i vivi non hanno più sete.

Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:

lasciateli nella terra delle loro case:

la città è morta, è morta.


(da: Salvatore Quasimodo, "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 132)


mercoledì 14 agosto 2024

Il Ferragosto in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Quella di Ferragosto, come tutti sanno, è la classica festa dell'estate, che si celebra nella precisa metà dell'ottavo mese dell'anno; in questo giorno i cristiani festeggiano l'Assunzione di Maria al cielo, ovvero il passaggio del corpo e dell'anima della Vergine Maria dalla Terra al Paradiso. 

I miei ricordi più vivi di questa festa risalgono al periodo dell'infanzia, quando i miei parenti più stretti si riunivano nella casa dei miei nonni materni, e pranzavano tutti insieme. Era il tempo in cui ancora, in Italia, esistevano dei legami famigliari molto forti, ed era quindi quasi vietato disertare una riunione per qualsiasi ricorrenza festiva. 

Volendo ora parlare brevemente delle dieci poesie presenti in questo post, c'è da distinguere tra chi concepisce il Ferragosto quale festa religiosa e chi (la maggioranza) quale festa di fine estate dedita al puro svago. Nella prima categoria rientrano poeti come Luigi Fallacara e David Maria Turoldo: i versi del primo sono, come vuole la tradizione cristiano-cattolica, una celebrazione della Vergine Maria assunta in cielo; quelli del secondo si possono riassumere in una preghiera a favore dell'umanità sofferente. Nelle poesie di Giulio Alessi e Carlo Levi, vengono descritte rispettivamente le città di Padova e Roma nel giorno del Ferragosto, con delle caratteristiche comuni, come le strade deserte, una sensazione diffusa di sonnolenza ed un silenzio quasi irreale. Lo stesso discorso vale, più o meno, per la poesia di Alberico Sala. Gian Carlo Conti invece, descrive un Ferragosto trascorso in un piccolo paese dell'Appennino, durante una vacanza. I versi di Leonardo Sinisgalli, per quel che ho capito, parlano di una visita fatta, nel giorno della festa di mezz'agosto, ad un amico che ha delle idee un po' particolari. La poesia di Marco Visconti si concentra sui luoghi e sulle persone di un Ferragosto cittadino del dopoguerra. Daria Menicanti si limita a guardare affascinata una cavalla "mansueta e pigra" che con nonchalance si aggira in una piazza cittadina deserta. E che dire della celebre filastrocca di Gianni Rodari? Uno dei tanti capolavori dello scrittore piemontese in cui viene posta l'attenzione sui bambini che, durante il Ferragosto, volenti o nolenti sono costretti a rimanere in città, perché le condizioni economiche delle loro famiglie non gli consentono altra scelta. Rodari, come al solito, tratta l'argomento in modo geniale, miscelando impegno sociale, leggerezza e umorismo.




IL FERRAGOSTO IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO





TEMPO DI FERIE

di Giulio Alessi (1916-1971)


A Ferragosto, finalmente, pace:

nel culmine d'estate la gente va

ai mari e ai monti. Dalla caserma

Salomone è uscita ogni persona.

Invita a passeggiare nella luce

rosea del tramonto la solitudine,

che fa cara la città vuota e come

nuda, dal Campo Appiani alla stazione.

Della vita convulsa precedente

pare che sia rimasta la gentile

animula o la mente o l'infinito

silenzio, che scivola dalle mura

e va nel cuore, come un dolce sogno.

Al foro boario c'era un vecchio: dava

i numeri riverendo i fantasmi

della perduta giovinezza; e c'era

l'aria che vibrava in viale dei tigli.

Grava sulle piazze e sul Canton

del Gallo una leggera sonnolenza

che ci velava gli occhi. Percorrendo

il centro, da Pedrocchi a Racca, tutti

incontravano i più dolci e umili

ricordi, con quell'intimo pudore

che fa l'età dolce e preziosa.


(da "Le poesie", Mursia, Milano 1986, p. 596)





FERRAGOSTO A TREFIUMI

di Gian Carlo Conti (1928-1983)


Ferragosto a Trefiumi per un po' di vacanza

in un paese dell'Appennino di poche case,

in una stanza dove ci si lava nel catino

e si mangia polenta con le salsicce

e si cammina con divise militari

e berretti da baleniere per sentieri

scoscesi verso il lago su macchine

anfibie lasciate dai tedeschi, traballanti

sui sassi, cigolanti per il vento

che infuria sul rifugio da cui escono

i pescatori difesi da teli impermeabili

e alti stivali di gomma, noi non osiamo

avventurarci nella bufera e cominciamo

ad aprire i sacchi di provviste,

non piove più quando si ritorna sui prati

profumati di erbe e il piede vi si affonda

tra i monti burrascosi e lividi

mentre il cielo su di noi si apre, si rischiara.


(da "Non si ricordano più. Le poesie", Guanda, Parma 1991, pp. 129-130)





L'ASSUNTA

di Luigi Fallacara (1890-1963)


Cielo di mezzagosto,

cielo glorioso e disposto


di nuvole perpendicolari,

da cui, come da scogli solari,


sporgono stature

di vertiginose creature.


Sei salita in questo cielo:

leggero, come amato velo,


tra la folla delle beatitudini,

quel tuo viso, quella solitudine!


I Patriarchi e i Serafini

rivolgono a te i loro sguardi chini:


come le nuvole e i petali dei fiori

che sono al raggio giardini di colori,


ogni pupilla sospende e trasmuta

una gradazione della gioia assoluta.


Ma il tuo occhio, fra il tumulto sereno,

come Vega, a sommo del cielo pieno;


ma il tuo vertiginoso occhio altissimo,

dalla terra lontanissimo;


ma il nero del tuo occhio nell'abisso rivoltato,

come un sole già tramontato!


Ma questo tuo angoscioso appagamento,

ma questa gioia, immobile sul tuo viso come spavento;


ma quest'ebrezza che fa il bianco del tuo occhio dilatare,

come quello d'un cieco, colmo di chiarità lunare!


Io non vedrò dal basso,

come non vedrò forse al trapasso,


la beatitudine alla quale s'appunta

il tuo sguardo, gloriosa Assunta,


ma se, per un impercettibile moto,

rivolgi quell'occhio remoto,


quell'occhio trasumanato che ha visto

il Figlio, il Figlio Cristo,


appagamento dell'anima assetata,

sazietà dell'ebrezza aspettata,


intravedere nella tua pupilla

del più alto pianto una stilla,


al riflesso dell'eterna aurora,

il pianto che ti fa umana ancora!


[da "Poesie (1914-1963)", Longo, Ravenna 1986, pp. 229-231]





FERRAGOSTO

di Carlo Levi (1902-1975)


Il caldo riempie il cielo

Roma dorme nel suo rumore

come un bambino pieno di latte

occhi chiusi, pugni serrati

russando a ignoti sogni.


Il gergo, la rabbia, i bisogni

sembrano dimenticati

le borgate, il clero, il furore.

Nelle cucine le blatte

corrono al buio, con lo zelo


dei caroselli della celere

sui marciapiedi; un silenzio

antico si sente sotto,

uno sbadiglio di belva

in un mondo supposto.


Il vuoto Ferragosto

rifà presente la selva:

rimando il latte e l'assenzio

il santo, l'eterno e il corrotto

si rispecchiano nel Tevere.


(da "Poesie", Donzelli Editore, Roma 2008, p. 299)





FERRAGOSTO

di Daria Menicanti (1914-1995)


Mansueta e pigra come lo è ogni femmina

se non ha liti in corso, Madame

Centaure per la piazza deserta

procede al trotto. Posa sul selciato

delicata gli zoccoli, lucendo

solleva impudica la coda di seta.

Sotto il sole d’agosto la città

per pochi superstiti improvvisa

tali eleganze, tali allucinazioni


(da "Il concerto del grillo", Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 519)





FERRAGOSTO

di Gianni Rodari (Giovanni Francesco Rodari, 1920-1980)


Filastrocca vola e va 

dal bambino rimasto in città.

Chi va al mare ha vita serena 

e fa i castelli con la rena,

chi va ai monti fa le scalate 

e prende la doccia alle cascate… 


E chi quattrini non ne ha? 

Solo solo resta in città:

si sdrai al sole sul marciapiede,

se non c’è un vigile che lo vede,

e i suoi battelli sottomarini

fanno vela nei tombini.


Quando divento Presidente

faccio un decreto a tutta la gente;

«Ordinanza numero uno:

in città non resta nessuno;

ordinanza che viene poi,

tutti al mare, paghiamo noi,

inoltre le Alpi e gli Appennini

sono donati a tutti i bambini.


Chi non rispetta il decretato

va in prigione difilato».


(da "Opere", Mondadori, Milano 2020, pp. 46-47)





FERRAGOSTO

di Alberico Sala (1923-1991)


Ferragosto, in questa capsula d'aria

morta, forata dal rombo delle mosche

mi tocco la barba lunga, dimenticata.

Nikolaiev e Popovic, dioscuri del vuoto,

ancora girano, oltre i sobborghi

del cielo, ma sanno che qualcuno

ridarà peso umano, e i colori

della piccola terra, al loro sangue.

Da più giorni e notti m'aggiro

nel nulla, fasciato di silenzio,

cammino sopra gli alberi domestici,

e non so quando possa discendere

(non riesco a parlare col mio cuore,

che batte a cinquanta chilometri,

nella fornace spenta della città),

quando giunga un segnale pietoso

a staccarmi da questo cielo spento.


1962


(da "Un amore finito male", Mondadori, Milano 1963, p. 63)





FERRAGOSTO IN VILLA

di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)


Saluto sul letto nel fetido

fumo dell'insetticida

brucia con la sigaretta la lepida

salma di una zanzara.

Fa il rendiconto delle sue magagne,

come in ogni vigilia,

e si trova in difetto.

Poche cose degne di memoria,

l'eccesso di credulità in ogni fandonia,

l'estro prensile e poco tenace,

il disprezzo per l'impegno.

Egli ama chi sogna, chi disegna

opere inconcludenti, chi

copre il suo dolore con la polvere,

chi le lacrime inghiotte.

Sperpera in futili storie

i suoi inchiostri e le carte

in vignette.


(da "L'età della luna", Mondadori, Milano 1962, pp. 181-182)





SERA DI FERRAGOSTO

di David Maria Turoldo (Giuseppe Turoldo, 1916-1992)


Naviga l'anima

in questa sera

che ha mani abbandonate.

E le finestre guardano

ne l'aria calma:

sulla spalletta

delle vie desolate

sta seduta la Tentazione.


                                      Così

Ti preghiamo, Signore,

dell'olocausto di questo corpo

che si scioglie nell'arsura

alta del mondo, nel compatimento

delle pietre, ne l'abbandono

vicendevole delle strade

ferme nel sogno

di una luce immortale.

Forse è questa l'ora

in cui non esistiamo,

emigrati dal tempo. Restiamo

soli, nel dolce sapore

dei sensi affaticati,

finalmente distesi

in una inattesa fraternità.


(da "O sensi miei... Poesie 1948-1988", Rizzoli, Milano 2002, p. 41)





FERRAGOSTO

di Marco Visconti (1920-1995)


Ancora sul treno di Porto

Ceresio, che odora di zolfo,

la gente del Ferragosto

rivive in un torpido film

di volti sconfitti all'amore,

di voci che riconosco.


In una rapida sosta

un ombrellino da sole

vedo, più in là un calessino

accanto alla vecchia cisterna,

e il bar dall'interno che sembra

quello fumoso d'un "western".


Ma roca nella stazione

risuona la gialla cornetta:

riprende il convoglio la corsa,

nel caldo vagone s'affioca

la voce del mio-tuo rimorso

che non ha sguardi né bocca.


(da "Poesie", Mondadori, Milano 1953, p. 42)





domenica 11 agosto 2024

"I momenti poetici" di Ricciotto Pietro Civinini

 Sono scarse le notizie biografiche riguardanti Ricciotto Pietro Civinini. Era il fratello del più noto Guelfo, che fu giornalista, librettista e scrittore; anche Ricciotto si dedicò alla letteratura, pubblicando svariati romanzi e - per quanto ne so - una sola opera in versi, intitolata I momenti poetici e pubblicata dalla Casa Editrice Galli di Chiesa-Omodei-Guindani, a Milano, nel 1897. Presso lo stesso editore, su per giù nello stesso periodo, uscirono altre raccolte poetiche di autori (Lucini, Giorgieri Contri, Quaglino, Donati ecc.) che simpatizzavano con i simbolisti e i decadenti francesi. Anche questo volume di 94 pagine contiene versi che, per lo più, possono essere inseriti nella corrente simbolista, nata e sviluppatasi nel nostro paese decisamente in ritardo rispetto alla Francia. I momenti poetici contiene 35 componimenti in versi divisi nelle seguenti sezioni: Sul fiume della vita; Visioni palustri; I sonetti delle rose; Le umilissime; Le rime della Terra; Le ballate della Solitudine; Affettuosamente. Staccata dalle altre è Ode del sonno, poesia che chiude la raccolta. Oltre ad evidenziare influenze rintracciabili nell'area simbolista-decadente, quest'opera di Civinini mostra diverse caratteristiche che la avvicinano al fare poetico dannunziano, ed in particolare ai versi del Poema paradisiaco; inoltre, non mancano somiglianze ritrovabili ne L'urna: raccolta poetica del fratello Guelfo, uscita quattro anni dopo. Ecco, infine, due poesie trascritte da I momenti poetici.





LE ROSE FUNEBRI


Avrò un lenzuolo di rose fiammanti

sotto le fredde carni. E come bianco

apparirà di più l'esangue fianco

e il fermo volto sotto alle smaglianti.


Mi daran forse un altro sogno? Ed anco

rose avrò nelle mani: tre fragranti

in la mano che a Te scrisse i canti.

O nella cassa qual profumo stanco;


o lento mio disfarsi nell'ètere

dei fiori, o lento lor disseccamento.

Più le carni o le rose avranno vita?


Più queste: lo special simbolo io sento

che assumeran le scheletrite dita

col fresco segno delle primavere.


(da "I momenti poetici", Galli di Chiesa-Omodei-Guindani, Milano 1897, p. 46) 





IL MARE


  Un mare scuro. Non il fresco mare

intessuto di luci, il primo velo

d'acqua che ride e che rispecchia il cielo,

o in fiamme come un gran lago solare.


  Io veggo un mare senza bianche vele,

senza bianchi alcioni, senza bianchi

brividi lunghi di luce lunare.

Io veggo un mare colore di fiele,

il mare fondo, il mare fermo, u' stanchi

sono i flutti e compatti, il vero mare

che è l'immenso, l'abisso, che arrivare

non sentì luce mai, dove non giunsero

che cadaveri in lento inabissare.


  L'occhio mio vede tutto il vergin suolo

cui incombe tanto enorme peso d'acqua;

un'altra tomba, una gran bara verde

è questo mare che si frange al molo

con fievoli carezze e che risciacqua

dolcemente alla spiaggia e che si perde

nel cielo come un'ampia seta verde.

Io penso al sordo viaggio di tutti

i naufraghi, già esanimi, dai flutti

giù, per l'alte acque scure, e al lor ristare.


  Al lor depositarsi, al lor spogliare

e ischeletrirsi, lentamente, al velo

di tutti i sali. È un bel funereo cielo

inferno questo chiuso e cupo mare.


(da "I momenti poetici", Galli di Chiesa-Omodei-Guindani, Milano 1897, pp. 73-74)

domenica 4 agosto 2024

La poesia di Carlo Chiaves

 Carlo Chiaves (Torino 1882 - ivi 1919) è uno dei poeti crepuscolari più famosi, anche grazie ad un articolo di Giuseppe Antonio Borgese che a suo tempo fece scalpore, pubblicato sulla Stampa di Torino, ed intitolato per l'appunto Poesia crepuscolare. Qui Chiaves viene accomunato a Marino Moretti (1885-1979) e a Fausto Maria Martini (1886-1931); tutti e tre avevano da poco dato alle stampe dei volumi di versi (era il 1910) che col tempo divennero i più ricordati. Per Chiaves si trattò dell'unico libro pubblicato in vita (morì precocemente a soli 37 anni). La poesia di Chiaves, pur avendo delle affinità con quella di Moretti e di Martini, è più vicina al clima letterario prettamente piemontese (e in particolare torinese) del primo decennio del Novecento. Chiaves faceva parte di quel gruppo di giovani letterati, tra i quali si ricordano Carlo Vallini (1885-1920), Giulio Gianelli (1879-1914) e Guido Gozzano (1883-1916), che in quel periodo partecipavano assiduamente alle lezioni tenute nell'ateneo torinese del professore nonché illustre poeta Arturo Graf (1848-1913). Nei versi di Chiaves, in effetti, si ritrova più di una traccia che riconduce al Graf. Le sue poesie, più che crepuscolari, potrebbero essere definite tardo-romantiche o intimiste, e sarebbe facile trovare altri elementi che lo avvicinano ad ulteriori poeti italiani del secondo Ottocento, come il suo corregionale Edmondo De Amicis. Il titolo della sua unica opera poetica esplicita chiaramente i due elementi che più emergono dai suoi versi: il sogno e l'ironia. Vi sono infatti delle poesie, come La villa chiusa, in cui Chiaves prende spunto da qualcosa di esistente per poi divagare ed infine approdare ad un mondo fantastico, che ha comunque a che vedere con un passato reale, tramutato in favola. Dall'altra parte, vi sono poesie ben differenti, che con amarezza evidenziano una realtà in cui predominano l'opportunismo ed il cinismo; alle volte, il risultato giunge ancora una volta tramite il mondo favolistico, dove però il finale si ribalta, e l'ironia nasconde un profondo pessimismo sulla società e soprattutto sull'umanità. Le liriche presenti nella raccolta Sogno e ironia sono soltanto 21; il restante dell'opera in versi di Chiaves (circa un centinaio di componimenti, alcuni dei quali incompleti), furono raccolti e ordinati dal critico Giuseppe Farinelli nel volume Tutte le poesie edite e inedite. Ecco infine, dopo uno scarno elenco delle opere poetiche pubblicate, tre poesie di Carlo Chiaves.


Carlo Chiaves




Opere poetiche


"Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910.

"Sogno e ironia" (riedizione), Neri Pozza, Venezia 1956.

"Tutte le poesie edite e inedite", Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1971.





Testi



IL CESPUGLIO


A fianco del campo diritto,

in riva al ruscello che canta,

a piè della quercia che freme,

attorto, volubile, fitto

cespuglio spuntò, che non vanta

lavoro di mano, e non seme.


È pieno d'intrichi. Non mai

da roncola tocco, ben crebbe,

si stese, selvatico e forte.

Non ebbe che, liberi, i rai

del sole: la pioggia si bebbe,

la guazza, ne l'albe risorte.


Al sole di marzo, sciogliendo

le nevi, cantava il ruscello

più forte, la quercia stillava.

Allor, rigoglioso, sortendo

sue gemme, il cespuglio più bello,

più florido ridiventava.


Fin quando, in un palpito strano,

dei venti a la dolce carezza,

ai baci del sole, un bel dì,

intanto che fulgido il grano

ancor palpitava a la brezza,

il cespo selvaggio fiorì.


Son piccoli fiori, son lievi

farfalle, son rami trionfali

di lungiparventi colori.

O scricciolo, o cincia che bevi

rugiade, serrando qui l'ali,

discendi fra i piccoli fiori.


Ma piano discendi! Nel folto,

son fibre, son stecche, son piume,

di qualche già inutile nido,

qui appresta il tuo nido raccolto,

securo, a la prole, che, implume,

ti chiama col piccolo grido.


Il vento, che scosse la fronda,

un nembo rapiva di fiori,

di fiori la terra coprì.

Ed una fanciulla gioconda,

l'Aprile cantando e li amori,

il ramo più bello rapì.


Ma ancora, ne l'ombre segrete,

per entro i misteri silenti,

son altri, più vaghi tesori.

Odorano mammole chete,

odoran ciclami pallenti

che niuno raccolse di fuori.


E come superbo rimane

il cespo selvaggio, l'Agosto,

con tutte distese le foglie!

Un lepre vi fa le sue tane,

un piccolo serpe, nascosto

da tutti, si attorce e raccoglie.


Poi, quando le raffiche forti,

che squassan le piante superbe,

il cespo, più umile, sfiorano,

non trema, ma i rami contorti

disfoglia. Nel basso, fra l'erbe,

ancora son fiori che odorano.


(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, pp. 97-99)





FRA LE CENERI


Giacciono, dentro il deserto

camino inutile e spento

gli alari che, nel cinquecento,

foggiava l'artefice esperto


Sotto il possente martello,

nel ferro battuto e rude,

ed attorcea su l'incude,

fregiandoli con lo scalpello.


Deserto il camino, il più vasto

camino del vasto maniero,

dove bruciava un intero

tronco: più nulla è rimasto


Di tutti quei fochi: disparvero,

col fumo e con le scintille,

su per la canna, le mille

fantasmagoriche larve.


Arrugginiti gli alari

che ressero sovra il robusto

asse, il gravissimo fusto

dei roveri secolari:


Che udiron, così da vicino,

le fiabe narrate, la sera,

dal nonno arguto, a l'intera

famiglia, presso il camino.


Che il piede del cacciatore,

fra i mille tizzi dispersi,

le mille volte ha riversi:

che forse l'estremo bagliore


Raccolsero, di qualche segreto

foglio gittato a la fiamma.

Che hanno sentito la mamma

cantare al bimbo inquieto


La nenia monotona e stanca:

languiva la fiamma, e sul tetto

il fumo del caminetto

pareva una nuvola bianca.


Un'altra serena dolcezza

che spegnesi a poco a poco,

questa che, presso il buon fuoco

raccolse più d'una carezza.


O nuova vita che fervi!

O irrefrenabile e triste

sete di nuove conquiste

che ci trascini e ci asservi!


Che, infaticabile assillo,

pungi la nostra ragione,

che spegni la tradizione

del focolare tranquillo,


Perchè non è dato un'ora

scordare la febbre fatale,

e, presso la fiamma che sale,

sognando, assidersi ancora?


E, con le molle lucenti,

riattizzare un buon foco,

fantasticando e, per gioco,

frugare fra i tizzi ardenti?


E intanto il bracco, che annusa,

guarda nel fuoco, distratto,

e, stropicciandosi, il gatto

vi fa d'attorno le fusa?


Il ceppo scricchiola e geme,

e immoti ascoltan gli alari

i brevi crepitii chiari.

Dolcezza e favola insieme.


Dolcezza che più non ritorna;

favola che un giorno i remoti

figli, diranno ai nepoti.

Favola che più non ritorna.


Giacciono freddi gli alari

nel freddo camino riversi,

come gli arredi dispersi

sovra gli inutili altari.


(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, pp. 108-110)





TRACCE DI PIANTO


Hai pianto! fra le ciglia, umida traccia rimane,

fremono ancor le labbra. Perché, mia dolcezza? Rispondi:

quale ombra di tristezza calò sul tuo cuore di rondine?

quale nuovo strazio? e quando? iersera? stanotte? stamane?


Iersera? no! non furono le nostre parole interrotte:

chiaro vibrava il canto limpido ne la tua voce

ti palpitava ardente il cuore e giocondo e veloce...

Né un solo istante piangere ti intesi per tutta la notte.


E avrei voluto udirti! Raccoglierti fra le mie braccia,

il tuo dolore intero chiudere sul petto un momento,

sentir veloci i palpiti unirsi nel ritmo a un lamento,

poi con pie labbra, tergere le lacrime su la tua faccia.


Scorger ne l'ombra il viso disfatto dal pianto: - Perché? -

chiederti dolcemente. E udirti rispondere: - Oh! lascia!

lascia che ancor, la notte, qualche indicibile ambascia

io pianga! E non crucciarti, amore: non piango per te! -


(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, p. 328)