Uno scrittore geniale che risponde al nome di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974), più di cento anni fa scrisse e pubblicò una poesia intitolata Una casina di cristallo, in cui si parlava di un poeta (forse egli stesso) che aveva deciso di andare a vivere in una abitazione edificata totalmente col solo cristallo. La fantasiosa casa, abitata dal solo poeta, permetteva a tutti coloro che avessero voluto, di curiosare sulla sua vita intima e di poterlo fare tranquillamente, poiché le pareti trasparenti dell'edificio consentivano ai curiosi di guardare, in qualunque momento della giornata, cosa stesse accadendo all'interno di esso.
Palazzeschi, in questi versi anticipa i tempi di quasi un secolo; pur essendo ancora giovane, lo scrittore fiorentino già conosceva a fondo il pensiero della maggioranza dell'umanità, sapeva della morbosa curiosità che pervade le menti di tantissimi esseri umani, desiderosi di spiare i comportamenti di altri esseri umani, di invadere la loro privacy e di conoscerne per filo e per segno ogni vizio e ogni difetto, per poi poterne parlare con quelli che si nutrono delle medesime indiscrezioni. A causa di questi comportamenti, che non so quanto possano essere definiti "normali", qualche decennio fa è nato un genere televisivo aberrante, denominato "reality", dove i protagonisti sono degli individui più o meno famosi, che per un determinato lasso di tempo vivono in determinati luoghi; consapevoli di essere spiati dalle telecamere anche 24 ore su 24, così come di essere giudicati per i loro comportamenti e le loro azioni, iniziano una specie di gara da cui, inesorabilmente, esce un vincitore (quali siano i meriti di chi primeggia non so).
Tornando alla poesia di Palazzeschi, fu pubblicata nella 2° edizione de L'incendiario (1913) e poi nelle raccolte che comprendevano l'intera opera in versi dello scrittore fiorentino. Il testo che segue, l'ho trascritto dal volume Gozzano e i crepuscolari, Garzanti, Milano 1983.
UNA CASINA DI CRISTALLO
Non sogno più castelli rovinati,
decrepite ville abbandonate
dalle mura screpolate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali disabitati,
dalle porte misteriose
le vetrate colorate
le finestre ferrate,
non più.
Non più colli soleggiati,
non cime di montagne,
isole luminose,
non più.
Non solitarie vie
infinite, polverose,
dove sfogare le mie malinconie.
Mi son venute a noia queste cose.
Non prati sconfinati
ricoperti di margherite,
circondati di stupore.
Non parchi bagnati di dolore.
Non fontane, non cancelli,
attonite folle mute
non più;
non più il croscio dei ruscelli
rapito ascoltare
all'ombre silenziose;
non le grida degli uccelli,
non più.
Sogno tutt'altre cose
che con queste non han nulla che fare.
Non me ne dovete volere
se oggi ho cambiato parere.
Io sogno una casina di cristallo
proprio nel mezzo della città,
nel folto dell'abitato.
Una casina semplice, modesta,
piccolina piccolina:
tre stanzette e la cucina.
Una casina
come un qualunque mortale
può possedere,
che di straordinario non abbia niente,
ma che sia tutta trasparente:
di cristallo.
Si veda bene dai quattro lati la via,
e di sopra bene il cielo,
e che sia tutta mia.
L'antico solitario nascosto
non nasconderà più niente
alla gente.
Mi vedrete mangiare,
mi potrete vedere
quando sono a dormire,
sorprendere i miei sogni,
mi vedrete quando vado a fare i miei bisogni,
mi vedrete quando cambio la camicia.
Se in un giorno di malumore
mi parrà di litigare colla serva,
prenderete la sua parte, lo so,
e farete benone,
non c'è niente di male;
v'accorgerete dalla mia cera
come va la mia arte,
mi vedrete chino sopra le carte
dalla mattina alla sera.
E passando mi potrete salutare,
augurare il buongiorno e la buonanotte:
io vi risponderò.
Se ogni tanto mi vedrete
che faccio la pipì,
non vi scandalizzate,
o ditemi: «piscione!»
se no peggio per voi,
non vi dovete voltare
quando passate di lì.
«All'erta dormiglione,
è alto il sole!»
La mattina vi sentirò gridare.
«Pigrizia e poesia vanno a braccetto».
Vi sentirò borbottare.
Ma farò finta di non sentire
per restare un altro poco
a cucciare dentro il letto.
E quando non ne potrò proprio più
mi butterò giù.
- Riso e cavolo per desinare.
— Dev'essere in bolletta.
— Mangia la minestra colla forchetta!
— Che razza d'animale.
— Beve acqua per risparmiare.
— Beve acqua perché gli piace.
— Che ci sia qualche cosa
con quella cameriera?
— Mamma mia che indecenza!
— Brutta a quella maniera?
Ma la notte cosa fanno?
— Bella, vanno a dormire.
— Quella è la stanza di lui,
quella è la stanza di lei,
accanto la cucina...
— Ti piacerebbe di stare in quella casina?
— No davvero no davvero,
vivere a quel modo in berlina.
— Due camere un salotto e la cucina.
— Hai visto il cesso com'è bello?
— È di vetro anche il carìllo.
— Ma cosa è andato a inventare?
— Guarda guarda, va al cassettone...
Ah! no... che cosa anderà a fare?
— Mamma mia!
— Che si butti un po' sul letto?
— Bambine venite via!
— Sarà stanco poveretto.
— Non vedi che viso bianco?
— Qui bisogna riparare!
— E il comune, che gli ha dato il permesso
di fabbricare una casa di quel genere.
— Vi sbagliate!
— Ha ragione, per Dio!
Me ne sto facendo una anch'io!
Quando gli uomini vivranno
tutti in case di cristallo
faranno meno porcherie,
o almeno si vedranno.
— Sostenete delle tesi sbagliate.
— È un pazzo come lui.
— E come se ne sta tranquillo,
quel po' po' di salame.
— Guarda guarda, ci saluta!
— Ah, ci ha detto: «buona passeggiata».
— Buon lavoro, poeta.
— È una gran puttanata!
— Ma che bella trovata!
(da "Gozzano e i crepuscolari", Garzanti, Milano 1983, pp. 591-594)
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