Le Evocazioni (sottotitolo: Odi) è il titolo della seconda ed ultima opera poetica di Guido Ruberti (Roma 1885 – ivi 1955). Poeta soltanto in gioventù, Ruberti appartenne al gruppo o cenacolo di poeti romani che avevano, quale punto di riferimento e guida spirituale, Sergio Corazzini: poeta crepuscolare per eccellenza, morto appena ventunenne a causa della tisi. Ruberti fu amico di Corazzini, e quest’ultimo a lui dedicò un paio di poesie. Le Evocazioni è un volumetto di 96 pagine, che fu stampato a Roma, nel 1909, dalla Casa Editrice Centrale. Al suo interno si possono leggere 27 poesie di Ruberti, suddivise in tre sezioni. La prima di queste, che non ha titolo, ne comprende solamente quattro: Il Pendolo; Monte Cavallo; Dopo il veleno; Il faro. Nella seconda sezione, che è la più corposa, si trovano alcune tra le migliori composizioni poetiche del Nostro, in cui è facile ritrovare quelle particolari atmosfere care ai poeti crepuscolari; ecco tutti i titoli delle poesie qui presenti: Mattino di pioggia; Domenica; Chopin: notturno; Nevrastenia; La Devota; I suicidi; All’amica lontana; Anemica; Il soliloquio di Lady Currie; A Marcella; Case in demolizione; L’infanticida; Nell’arsenale di Spezia; Alla soglia…; Alla luce; Vas spirituale; Nozze di sangue; Il ratto. L’ultima sezione - a mio avviso la meno interessante del volumetto - s’intitola Sonetti, e comprende i seguenti componimenti poetici: Volontà; La città dei venti; La città della pietra; L’astronomo; Per un ritratto di Napoleone. La seconda e la terza poesia dell’ultima sezione sono composte da tre sonetti ciascuna. Chiudo, con la trascrizione di un testo poetico appartenente alla seconda sezione, dove, come già accennato in precedenza, si notano delle peculiarità che avvicinano Ruberti al crepuscolarismo, di cui in sostanza fu un esponente minore.
A MARCELLA
Marcella, che
cosa hai tu fatto
dal dì che
spezzammo l'incanto
d'amore in
reciproci inganni?
Discesa è la
torma degli anni
qual orda di
barbari in preda...
Ma quanti!
perch'io ti riveda
bisogna che levi
una pietra
da questa mia
sepoltura
e senta,
becchino, il ribrezzo
de la putredine
oscura
e invano tenti il
labirinto
di un sotterraneo
estinto.
Tu, già non
rammenti... stamane
sfiorandomi quasi
per via
andasti
impassibile e muta;
ma non forse una
nostalgia
ti assalse
siccome una acuta
fragranza di sale
rinchiuse
da tempo, una
strana malia?
Marcella, che
cosa hai tu fatto
dal dì che
eravamo fanciulli
e le anime come
trastulli
spezzammo per
noia al finire
di un sogno? Che
cuore! che fede!
Mutammo già
tanto? di udire
mi sembra una
voce ascoltata
nel regno delle
ombre: il tuo viso
è men che uno
spento sorriso...
Oh come la vita è
passata,
fanciulla, e non
siamo gli stessi
di quelli che
fummo una volta:
la nostra memoria
è sepolta.
Marcella, che
cosa hai tu fatto
dal dì che
spezzammo l'incanto?
la grave opulenza
ha disfatto
il giovine corpo;
e la mente?
i saggi consigli
che accanto
ti sussurrai
scaltramente!
tu certo obliati
non gli hai,
poiché
l'innocenza è sfiorita...
io guardo,
sorrido, che mai
trovata ho sì
gaia la vita.
L'antica vergogna
fu come
un morbo di
primavera,
che l'anima
n'esce leggera
e aspersa da puro
lavacro.
Marcella,
passandoci accanto
ormai che ne val
ricordare?
tu più non
sapresti arrossare
io più trovar
pianto.
(da "Le
Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909, pp. 50-51)
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