La Vita Letteraria è il titolo di una rivista italiana
che uscì tra il 1904 ed il 1911. Fondata a Roma da Armando Granelli, che ne fu
sempre il direttore, si occupò esclusivamente di letteratura, pubblicando
prose, poesie, saggi e bibliografie; ebbe principalmente il merito di dare
spazio ad alcuni poeti crepuscolari, come Corrado Govoni, Sergio Corazzini,
Fausto Maria Martini, Marino Moretti e Tito Marrone; ma la linea editoriale di
Granelli, si indirizzò verso orizzonti poetici lontani dal crepuscolarismo;
così, il direttore ed i suoi sodali, finirono spesso per criticare la poesia di
quelli che, malgrado i gusti personali, erano ritenuti degli amici. Tornando
alle collaborazioni di cui la Vita
Letteraria si avvalse, occorre ricordare altri nomi prestigiosi di fine
Ottocento e d’inizio Novecento, come furono Domenico Gnoli, Arturo Graf, Luigi
Pirandello e F. T. Marinetti; nello stesso tempo, vi pubblicarono per lo più
versi, molti amici di Corazzini, che insieme a lui formarono una sorta di
cenacolo nella capitale italiana; tra di essi si ricordano Gino Calza-Bini,
Antonello Caprino, Carlo Basilici, Federico De Maria, Giorgio Lais, Guido
Milelli, Giuseppe Piazza, Yosto Randaccio, Guido Ruberti e Cesare Giulio Viola.
In conclusione, ecco tre poesie “crepuscolari” che uscirono per la prima volta
sulle pagine della rivista romana.
TRA LE AIUOLE
di Giorgio Lais
Guardo e cerco... nel
giardino
oltre i fiori sono fiori,
su cui indugiano i bagliori
dell'incendio vespertino.
Guardo e cerco...
m'incammino
nell'incanto degli odori
fin che in alto trascolori
tutto il cielo adamantino.
Guardo e cerco... ma la
sera
sopravviene in mezzo al
verde
soavissima e leggera.
Piange il vento tra il
fogliame,
che tremando si disperde
sotto un velo senza trame.
(da «La Vita Letteraria»,
16 ottobre 1905)
L’ORFANO
di Sergio Corazzini
Le tue case, non altro, le
tue case
bianche nel sole, bianche
nella luna,
povero angiolino pensi, ad
una ad una,
poi che nel cuor niente
altro ti rimase.
E ne piangi il ricordo che
t’invase
l’anima tutte le tristezze
aduna,
tu che non hai da piangere
nessuna
parola, piangi le tue
vecchie case.
Rivederle! Non sogni questo
bene?
Pur se lontane dalla scarna
croce
che segna il tuo paese al
viatore,
e se vi sieno ancor tutte e
serene
domandare col pianto nella
voce,
domandare col tremito nel
cuore.
(da «La
Vita Letteraria», 1° novembre 1905)
IL MANICHINO
di Tito Marrone
In uno studio di via
Margutta,
rifugio estremo
degli orpelli
naufragati nelle vendite;
fra un Pulcinella scemo
senza capelli,
con mezza faccia,
confinato in un angolo
e una Bautta
rimasta senza
piedi né braccia,
vidi vostra Eminenza.
Indossava la porpora
come ne' giorni di
solennità,
volgendomi le spalle:
un po' curva, seduta su la
sedia
di damasco a righe gialle,
con rassegnata aria di
povertà.
Il cielo nuvoloso lesinava
la sua luce
dall'altissima finestra a
inferriata,
come dentro un pozzo.
E c'era tanfo di muffa e
d'umido,
Eminenza, in quel vostro
abito rosso.
Ma come da palazzo Vaticano
v'eravate ridotta
a vivacchiare invalida
laggiù?
Qual caso strano
vi aveva poi condotta
quell'altra miseranda
compagnia?
E dalla prigionia
chi v'avrebbe ora liberata
più?
Quando m'avvicinai
per leggervi sul viso la
risposta
fiammeggiante di sdegno,
m'accorsi che la vostra
fronte e il naso e la bocca
eran di legno;
vidi - ma senza
maraviglia, Eminenza -
che il vostro capo grigio
era di stoppa.
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