Prima di
pubblicare questo post, ho avuto la tentazione di considerare Angelo Barile
(Albisola Marina 1888 – ivi 1967) alla stregua di un “poeta dimenticato”; in
effetti, questo grande poeta del Novecento, da almeno un trentennio a questa
parte è praticamente caduto nell’oblio, e oggi ben pochi lo ricordano. Eppure,
l’unica pecca che si può trovare in Barile, è la sua scarsa prolificità; ma pur
avendo scritto poche poesie, ha trovato il modo di lasciare il segno sia
nell’ambito della poesia italiana novecentesca, sia nella cosiddetta “linea
ligure” – di cui è un esponente di primo piano – che comprende nomi di suoi
corregionali assai illustri come Sbarbaro e Montale. Certamente fu un isolato,
poiché trascorse l’intera sua esistenza nel paese natale, occupandosi di
un’azienda manifatturiera, e dedicandosi alla scrittura soltanto nei momenti
liberi; pure, collaborò a diversi giornali, e fondò, insieme ad Adriano Grande,
la rivista Circoli, in cui furono
pubblicate per la prima volta alcune delle sue migliori poesie. Per meglio
comprendere l’essenza della poesia di Barile, trascrivo due brevi frammenti tratti
da altrettanti saggi che si sono occupati di lui; il primo è di Gianni Pozzi, e
proviene dal volume La poesia italiana
del Novecento:
La poesia di
Angelo Barile nasce e si sviluppa in una zona periferica, ma collaterale alla
poesia degli ermetici. Nella sua elegante, limpida e intermittente produzione,
partecipa al clima letterario dell’epoca con la esigenza di una purezza
esclusiva, tanto importante, ormai, di per se stessa, da esonerare il poeta da
un contenuto diverso della solitudine innamorata della sua memoria.
La sua
illuminante caratteristica consiste in una aperta e fondamentale assimilazione
dei modi stilistici contemporanei, in una sorta di virtuoso e alto
dilettantismo. Barile è un cesellatore di elaborati intarsi stilistici, senza
protervia: ricostruiti in una specie di ipnotica, spontanea adesione al clima
decadente che li determina. […]¹
Il secondo è
invece estrapolato dall’antologia Poesia
italiana del Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio; l’autore è
Silvio Riolfo Marengo. Quest’ultimo, inizialmente cita parte di una postilla
appartenente ad un’opera poetica di Barile, identificando la sua concezione di
poesia come “energia vitale dello spirito”; segue un’ulteriore citazione tratta
da uno scritto di Giovanni Boine, in cui si pone in risalto l’essenzialità e la
pazienza nell’arte dello scrivere, che sono sinonimo di qualità; quindi così
prosegue:
L’opera
quantitativamente selezionata e fedele a pochi tempi essenziali di Barile nasce
da questa poetica della necessità: sono momenti, immagini, situazioni della
vita e del mondo familiare che la memoria recupera alla luce della poesia solo
dopo che sono state a lungo «sepolte nel cuore» e traspone, con metafore
balenanti, dal piano dell’esistere a quello dell’essere. Ed è naturale che
l’epicedio venga eletto a modello deputato per fissare i caratteri dell’unica
certezza metafisica concessa al credente: la morte che è tutt’uno con la vita,
anzi ne riassume e ne esalta la pienezza, anche in presenza del dolore e del
peccato, due motivi che increspano quasi sempre anche le evocazioni più tenere
di Barile. […]²
Barile pubblicò
soltanto tre raccolte poetiche, sebbene l’ultima non sia altro che una
ricapitolazione della sua produzione in versi, con l’aggiunta di un’ulteriore,
breve silloge conclusiva. Scrisse anche delle prose di buon valore, che sono
per lo più incluse nel volume Risonanze
(Quaderni di «Persona», Roma 1966).
Dopo aver
elencato i volumi in versi del poeta di Albisola, trascrivo tre indimenticabili
poesie dello stesso, tratte dalla nuova edizione di Poesie (1930-1963), pubblicata da Scheiwiller in Milano nel 1986.
NOTE
1) Da: Gianni Pozzi,
La poesia italiana del Novecento,
Einaudi, Torino 1995, p. 286)
2) Da: Poesia italiana del Novecento, Garzanti,
Milano 1980, pp. 263-264.
Opere poetiche
“Primasera”,
Edizioni di «Circoli», Genova 1933.
“Quasi sereno”,
Neri Pozza, Venezia 1957.
“Poesie
(1930-1963)”, Scheiwiller, Milano 1965.
Testi
USCIRE DALLA VITA
Uscire dalla vita
come quando
s’esce di chiesa
in un finale
d’organo: s’avventa
l’anima a scale
prodigiose, trova
il piede sulla
soglia
un bianco che vi
palpita: e la luce
è nuova.
Ma uscire non è
dato in rapimento.
Ch’io possa
almeno
lasciarmi dietro
la mia stanza, un poco
volgendo il capo
a riguardarla, alfine
pulita, sgombra
d’ogni discordia,
in ordine sereno
come la chiesa
ora vuota: le croci
fanno una chiara
ombra
sul pavimento.
(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, p. 69)
OSTERIA DELLA
BELLA BREZZA
Padre, finita la
giornata uscivi
le belle sere
a prendere l’aria
di mare. Sedevi
fuori
dell’osteria che non c’è più;
che aveva un nome
così fresco, pinto
in azzurro di
lettere leggere
sulla bianca
maiolica. Hanno stinto
il tempo ed il
salino
tante in me cose
e non quel nome: spira
dal tuo celeste
ancora
la bella brezza.
Discendevi su
l’ora
che il nostro
mare è una cara contrada
con tesi teli e
fumo di comignoli.
Tra poco, e
ancora è giorno,
treman sull’acque
lumi e nelle case.
Cantan, su' remi,
amanti.
Navi fanno
ritorno,
escono navi dal
prossimo porto,
van per quieta
strada
all’orizzonte che
il vespro avvicina.
Andavano, per te,
sul mare grande.
Andavano distante
anche i piccoli
barchi, e tu con loro.
I capitani della
Bella Brezza
rifanno a gara
la traversata,
toccano le Americhe.
Tempi di vela! Un
palpito di nomi
i più marini di
Liguria... Ognuno
passava al vostro
tavolo, beveva
venti severi -
e il goccio d’oro
al fiato vespertino.
Veniva alla tua
frasca
l’umana brezza,
sotto il cielo
benevolo il brusìo
che fa il paese
conciliato a riva.
I cerchi delle donne
che giocavano a
tombola con i sassi
tolti alla rena;
i cerchi delle rondini
che stridevano
basse
toccavano la
testa dei ragazzi,
tutto animava la
tua sera. E l’Ave
sul riposo di un
popolo che scioglie
la sua gravezza
ai margini turchini.
Ora respiri la
brezza infinita.
(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 77-78)
A TARDA SERA
A tarda sera
quando
prego pace ai
miei morti,
ad una ad una vi
chiamo per nome,
mie sensibili
anime. In un lampo
a ciascun nome mi
risponde il viso
desiderato,
e il sangue vi
ripalpita vi segna
i suoi segreti.
Odono il mio
susurro anche gli anziani
che in grembo
alla memoria
già posano quieti
e forse ancora
anelano in cammino
per i valichi
estremi al loro Cielo.
Un poco, andando,
si volgono e alcuno
lontanamente
sorride...
Ma questi,
al mio cuore i
più mesti,
che ieri appena
spezzavano il pane
con noi sotto la
lampada e nell’ombra
son passati
tenendosi per mano,
lo sguardo al
focolare:
questi quando la
sera
chiamo per nome i
miei morti, li vedo
ancora fermi,
ancora
trepidi e tesi di
là della porta
non richiusa, che
geme.
Ecco mi fate
cenno, anime care,
d’incamminarci
insieme.
(da
"Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 146-147)
Nessun commento:
Posta un commento