Sebbene il titolo di questo
post sia abbastanza esplicativo, è necessario che aggiunga ulteriori
precisazioni al riguardo. Tanto per cominciare, i testi qui presenti sono tutti
stati scritti da poeti italiani del XX secolo; invece, i poeti ai quali questi
versi sono diretti, non sono tutti novecenteschi e italiani. In diversi casi,
le poesie rappresentano degli omaggi a poeti importanti deceduti da poco tempo;
coloro che ne parlano, a volte in modo amorevole, alter volte con toni
appassionati ed entusiastici, sono degli amici (anche intimi) o, più
semplicemente, degli ammiratori. Vi sono anche poesie dedicate a poeti vivi e
vegeti (ovviamente ai tempi in cui furono scritte), e, anche qui, a realizzarle
sono degli appassionati seguaci o degli amici. Un ultima constatazione: in una
delle poesie in cui si parla di poeti stranieri, più precisamente di Philip Larkin,
si notano dei toni indignati e polemici; Adriano Guerrini - ovvero l’autore
della poesia in questione - si riferisce ad un potere sotterraneo che guida e
gestisce la cultura a suo piacimento, e che il poeta inglese ha intercettato e
combattuto coi suoi versi.
10 POESIE DI 10 POETI
ITALIANI DEDICATE AD ALTRETTANTI POETI
ADA NEGRI
di Paolo Buzzi (1874-1956)
La tragedia lombarda
delle terre
grasse ai signori
e metifiche ai paria
è sul tuo viso tutto
maschera e lampi:
nella voce Tua
l'Adda ritorna
co' suoi divini argenti
e il gorgoglio d'ira
bollente
alle pile del Ponte di
Lodi:
Tu canti all'Italia
il facile canto possente
del fiume che viene dal
Nord:
scintillano le tue rime ed
i tuoi ritmi
dell'elettrica presa di
Tresenda: ardi
sempre fanciulla: erri
sempre zingara: fissi
sempre medusa l'astro da
rendere tuo.
E sei madre:
ed hai pianto:
e sorridi:
e più speri:
e la tua viscera bella
intona alto il suo canto.
(da "Poema dei
quarantanni", Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1922, pp. 210-211)
IN MEMORIA DI GIOVANNI CAMERANA
di Giulio Gianelli
(1879-1914)
Pace a te disdegnosa anima!
Prima
d'umiliarti per umano
alloro,
salvasti in cielo intatto
il tuo tesoro
che innanzi a Dio clemente
or ti sublima.
Nel lirico desio t'uscì la
rima
temperata a la fiamma come
l'oro;
permeato di spasimi il tuo
coro,
muto il volgo, echeggiò di
cima in cima.
O veramente anima devota
cui tardò l'ora
d'integrarsi in Dio,
termine fisso a sogno di
bellezza,
se a tua sacra ineffabile
tristezza
manchi un ave fraterno,
abbiti il mio
che, te lodando, i farisei
percota!
(da "Tutte le
poesie", IPL, Milano 1973, p. 315)
A PHILIP LARKIN
di Adriano Guerrini (1923-1986)
Per te ho maledetto la
maledizione delle lingue,
quasi ho desiderato di
chiamarmi Adrian Wareen.
Tu dicevi anni orsono
quello che anch'io dicevo,
e ripeto, contro l'astuto
cartello dei preziosi
e dei servi arroganti d'una
cultura asservita,
che ci hanno tolto i nostri
numerosi lettori.
Certo, tu sei più sottile;
ma esprimi anche tu,
con ritmico chiaro
discorso, la nuda esistenza
nel grigio brulichio di
Babele. Tu sei più saggio:
sorridi, taci, ti apparti. Io
sono troppo stanco
e grido contro questi
intelligentissimi idioti;
forse perché qui essi sono
divenuti legione.
Ho passato tre notti sulla
tua incognita lingua;
ma non lasciare che essi
guastino traducendoti
le strofe della tua
irreprensibile perfezione.
Non l'amano, essi; né amano
la nuda esistenza.
Amano solo il potere; e
gonfiare penne di moda.
Li perdòno solo perché per
essi t'ho conosciuto.
(ottobre 1979)
[da "Poesie
(1941-1986)", De Ferrari, Genova 1996, p. 164]
PER GUIDO GOZZANO
di Amalia Guglielminetti
(1881-1941)
L'Eguagliatrice che ti
stava a lato,
inacerbita da decenne
attesa,
dolce Fratello, te, preda
indifesa,
attrasse infine nel suo
muto agguato.
Tu sorridesti di quel tuo
pacato
sorriso che vinceva odio ed
offesa.
- Ecco, - dicesti poi senza
sorpresa,
- la Signora che l'uom
Morte ha chiamato.
- Ecco, sei tu. Da tanto io
ti conosco.
Questo male che lento mi
flagella
non fu che l'ombra del tuo
sguardo fosco.
Stanco e sereno io varco le
tue porte.
Se m'ha mentito l'altra
cosa bella,
almeno tu non mi mentisti,
o Morte.
(da «La Donna», settembre
1916)
FANTASIA SUL NOME DI LIBERO
DE LIBERO
di Margherita Guidacci
(1921-1992)
Mi piace leggere il tuo
nome, in quella
geometrica eleganza
che lo pone in figura di
saliera:
dove ciascuna vaschetta
splendente
reca il discorso saggio
o il discorso pungente.
(A unirli e separarli,
perentoria,
la verticale delle
immagini.)
Ma più mi piace udirlo,
perché allora
non è più un nome: è un
motto, la promessa orgogliosa
del tuo lavoro di poeta,
mai
venuto a patti: «libero
delibero».
Vale a dire: «io decido
liberamente.»
(da "Le poesie",
Le Lettere, Firenze 1999, p. 228)
LAFOURGE
di Marino Moretti
(1885-1979)
Io amo I tuoi giardini
senza nome
dove c’è l’erba della
guarigione:
Dans les jardins
de nos instincts
allons cueillir
de quoi guérir…
Sempre di te raccolgo un
epigramma
che val più d’una graziosa
damma:
Ah!
Vous savez cez choses
tout aussi que moi,
je ne vois pourquoi
on veut que j’en recause…
No, non t’ho conosciuto a’
miei bei giorni,
e pur ti riconosco e a me ritorni.
(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 1966, p. 356)
PER SERGIO CORAZZINI
di Nicola Moscardelli
(1894-1943)
Hai lasciato un pianto
nell'aria
come una lacrima che non sa
cadere:
(nuvole rosee leggere
e questa vita sempre più
varia).
Ti ritroverò una sera
nell'attimo di questo
sognare,
dall'ombra ti sentirò
frusciare
come un alito d'ombra
leggera:
girerò il mondo a tentoni
come una cosa con occhi
straziati
(pastelli di sole arancione
come nei tempi dei tempi
passati).
Pezzo di sole e di sasso
ruvido scabro a morire
d'amore,
scalpellato da nuovo dolore
risollevato dal gorgo più
basso:
un giardino odorava lontano
una rosa sfioriva sul
balcone,
confuso fra tante persone
nel buio ti strinsi la
mano.
Imbuto nero, tromba di
scale
precipitammo a cogliere la
luna,
pazzi della nostra fortuna
ci sedusse un odor
d'ospedale.
Spacco nel muro, luci
mutilate
spigoli d'ombra, diffuso
chiarore,
tremanti del nostro terrore
ci demmo alle vecchie vie
dimenticate.
Tavoli bianchi, morgue
della notte,
ci distendemmo senza
peccato:
orgia, convito purificato,
spillaci il sangue dalle
vene rotte!
Torneremo dalla solita via
come nei tempi dei tempi
andati,
con i nostri occhi vecchi
sconsolati
riabbracceremo la
malinconia.
Lampade spente, vie
desolate
per noi solitari di lungo
cercare:
qualcuno ci udirà
singhiozzare
sotto stelle di vetro
spezzate.
(da "La Mendica
muta", Vallecchi, Firenze 1919, pp. 16-17)
A MARINO MORETTI
di Aldo Palazzeschi
(1885-1974)
Ci siamo incontrati nel
mese di febbraio del 1903
esordienti in una commedia
di Goldoni: il ventaglio.
Tu eri Scavezzo, io il
barone Del Cedro.
Chi ci aveva portati in
quel luogo?
Sembra difficile
indovinarlo, invece è facilissimo:
la poesia che a quel tempo
aleggiava sul teatro
e della quale due
adolescenti dotati di fantasia
avevano subito il fascino.
E fu proprio in quel luogo
che la poesia
rivelò ai due adolescenti
il proprio cammino,
sul quale in perfetta
armonia
procedettero da quel giorno
discutendo di tutti e di
quanto si faceva nel mondo
fuorché di quello che
facevano loro,
quasi non lo avessero
saputo
ognuno per la propria
strada
e nel rispetto assoluto
l'uno dell'altro.
Fu questo il nostro
stupendo segreto
per il quale settant'anni
di amicizia
non produssero un'ombra fra
noi
non provocarono uno
screzio,
un punto di ruggine o di
attrito.
E ora, caro Marino,
stringiamoci un'altra volta
la mano
nella medesima serenità di
quel giorno
quando eravamo tu Scavezzo,
io il barone Del Cedro.
(da "Tutte le
poesie", Mondadori, Milano 2002, p. 843)
SABA
di Vittorio Sereni
(1913-1983)
Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti d’un ricordo.
Ma io li vidi animati
indosso a uno
ramingo in un’Italia di
macerie e di polvere.
Sempre di sé parlava ma
come lui nessuno
ho conosciuto che di sé
parlando
e ad altri vita chiedendo
nel parlare
altrettanta e tanta più ne
desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o
due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una
piazza all’altra
dall’uno all’altro caffè di
Milano
inseguito dalla radio.
«Porca – vociferando –
porca.» Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all’Italia. Di
schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci
ha ferito.
(da "Gli strumenti
umani", Einaudi, Torino 1995, p. 36)
A STEFANO MALLARMÉ
di Federigo Tozzi
(1883-1920)
Il mare, forse, ti
comprende bene
Quando la cener delle tue
parole
Cade da tutto il cielo e si
sovviene
Del fuoco spento di un
eterno sole
Sopra la voluttà delle
sirene,
Che insegnano la morte alle
figliuole.
Ma l'anima che troppo a sé
ritiene,
Inutilmente vasta, se ne
duole.
E tu se' buono come Marsia
ed hai
Le labbra appesantite dal destino,
Sì come da una pietra
sepolcrale.
Tu nel silenzio
dell'azzurro stai,
E al tuo rorido sogno sei
vicino
Sì come arcangel che si
guarda le ale.
(da "La zampogna
verde", Garzanti, Milano 1948, p. 81)
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