domenica 10 aprile 2022

I poveri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

 Posso affermare di non aver mai vissuto in povertà, pur non essendo, praticamente da quando son nato, un benestante o un ricco. I miei familiari, però, sia nel periodo precedente la 2° Guerra Mondiale, sia in quello immediatamente successivo, hanno trascorso dei periodi più o meno lunghi in condizioni di indigenza; lo so per certo, perché me ne parlavano spesso, raccomandandosi a me, affinché non dimenticassi la precarietà in cui la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive, e tenessi sempre a mente la possibilità - mai scomparsa - di diventare povero. Non ci sono dubbi sul fatto che la povertà esista ancora, anche in Italia - paese che tutto sommato può ritenersi abbastanza ricco, rispetto a tanti altri -; ed eventi drammatici o tragici, come le pandemie e le guerre, possono moltiplicare in modo abnorme il numero dei poveri nel mondo. Gli autori di queste poesie che ho trascritto, sono, ancora una volta, poeti italiani del Novecento; protagonisti di tutti i versi sono i poveri: visti con occhi diversi e raccontati in modi a volte commoventi, a volte realistici e a volte quasi spietati. Spesso si parla di bambini; altre volte di anziani e di donne… ma i poveri, qualunque età essi abbiano, dovrebbero essere tutti aiutati da una società che si ritenga civile, poiché in qualunque comunità o nazione fondata su valori imprescindibili, quali sono eguaglianza e solidarietà, la povertà non dovrebbe mai avere luogo. 

 

 

 

I POVERI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

AL LETTO DEL POVERO

di Lina Barberis (?-?)

 

Vieni, hai finito

di soffrire. Son io

son quello che fu povero e tradito

e crocefisso: il tuo fratello e Dio.

 

Tu lo sapevi che sarei venuto

incontro a te;

che avresti avuto

la corona e la porpora di re.

 

Te lo avevo promesso.

La festa m'ascoltavi,

umile, in chiesa presso

la porta: andare avanti non osavi.

 

Ed eri il più vicino e caro a me.

Per te solo parlavo: «O povertà

spera perché

la tua ora verrà».

 

Eccola: chiudi gli occhi: pel banchetto

ecco le vesti:

sei leggero, sei netto

di tutto ciò che vivo non avesti.

 

(da «L'Eroica», dicembre 1938)

 

 

 

 

I POVERI

di Luigi Bartolini (1892-1963)

 

I poveri

sono quelli

che lasciano

l'uscio cigoli;

o la botola

della latrina

senza manico,

se s'è rotto.

Alzano allora,

con mano

tremante

il piatto

sepolcrale

e versano

il pitale!

 

(da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964, p. 235)

 

 

 

 

ALLEGREZZA DEI POVERI A TEGOLETO

di Carlo Betocchi (1899-1986)

 

                                  Tegoleto è un borgo in Val di Chiana,

                                  sulla strada da Arezzo a Siena.   

 

Bella Italia che serri la palma

e nel mezzo ti fai la Chiana

quando guardo nell'aria lontana

veggo il dolce paese mio.

     Tegoleto non sei gentile

     giallo e tozzo è il tuo campanile.

 

Sono andato per farmi soldato,

son partito per lavorare,

ma mi struggo di ritornare

verso il dolce paese mio.

     Mi staresti in un palmo di mano,

     Tegoleto che stai nel pantano.

 

Là, dall'armi, dalle Maremme,

son tornato, mi vedi, mi senti:

mi conforti di fame e stenti

ma sei il dolce paese mio.

     Quando vien quell'annottare

     ecco il povero a zufolare.

 

Passerotto che stai nel solco

non lo vedi che il giorno va via?

alla stalla converge il bifolco,

il bracciante pei campi s'avvia:

     vanne pure sull'olmo agghindato,

     che il Signore ti ha preparato.

 

Ora è il mondo una bruna noce

dentro il cielo che onora e brilla:

per la strada va rara voce,

sopra i tetti va rara favilla.

     Tra le case di Tegoleto

     c'è un sussurro calmo e discreto.

 

Siamo stracchi, fatti, affamati,

lavorato s’è tutto il giorno;

presso il pozzo si sta incantati

in attesa di qualche ritorno:

     tornano Beco, e Meo e la Rosa

     e la Rita che presto si sposa.

 

Pipistrello la nottola chiama,

dicono insieme - voliamo, è notte:

canta l’upupa che upupo ama

taccion nel solco le talpe e le botte.

     Nera è la notte, nera e piena

     mamma la terra fa nera la schiena.

 

Noi si ragiona di pane e lavoro;

quando si fece quell'affossata;

quando si fece, per l'Alberoro,

scasso di bosco e la nuova piantata.

     Crudo era il masso, ginestre e sole,

     dolce è la vita a chi bene le vuole.

 

Pura è la luna, non è fidanzata,

che campa in mezzo del cielo sola:

di tra le case tutt'ombra ha levata,

scende tra i poveri quella Signora:

     Di tra gli olivi balzò, lontani

     ed ora illumina il monte e i piani.

 

Poi senti un trepido bisbigliare,

gente si muove nel chiaro di luna:

serrano gli usci, e le voci rare

vanno spegnendosi ad una ad una.

     O pipistrello, tra il tetto e la strada,

     vola balzano, nessuno ti bada.

 

Questa canzone che un povero ha fatta

vuol ritornare laggiù dov'è nata;

mare non cura, né selva, né fratta,

ricchi paesi o città adornata;

     ma a Tegoleto con l'ala ansiosa

     vola diritta, e si quieta, e posa.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 46-49)

 

 

 

 

POVERI

di Paolo Buzzi (1874-1956)

 

Tre poveri,

e sono vecchi e sono in cenci

e l'inverno morde rabbioso,

guardano un cielo nero che promette la neve.

Han tutti e tre la febbre:

i lor denti battono in tempo co' lor cuori.

 

Appoggiano le schiene curve sfinite

al muro d'un Teatro che sfolgora di luci.

Dalle carrozze scendon le dame coi piedi di fata:

le pellicce han fruscii di bestie vive nei boschi.

Entran nel luogo d'oro.

Vampa d'estate dalla porta

che subito si chiude.

- Che ci starà qui dentro ? -

Mai non videro vivere i fatti e i canti degli uomini

nella cornice d'un Teatro. Vengono di lontano:

non seppero che scene di nevi e di mari e di vulcani:

e le musiche pazze dell'anima e del cielo;

e ne goderono. Oggi hanno solo fame...

E guardan le pagnotte di sterco che sbucan fumanti

dal forno dei cavalli quasi con ghiotto amore.

Girano i cocchi intorno, spavaldi i cocchieri scintillano

dalle tube nerissime dove la notte accesa si specchia.

Una corda di frusta,

roteando,

ha toccati i tre visi d'un colpo.

 

Sorridono, que' vecchi.

La frusta allegra toccò senza far male.

Poi, nulla non potendo dividere, dividono, per ore,

i fiati ancora caldi

sulle mani tremanti, l'un dell'altro, a vicenda,

guardando la neve che appresta

il bel tappeto bianco 

alle carrozze del ritorno. Oh rulleranno lunge,

senza scosse e rumori, piene di dame in sonno

e l'odore di fiori!  

 

Quegli, andran per le vie,

le vie solitarie, senza cani,

a far l'orme sull'orme, l'orme con le dita.

 

(da "Aeroplani", Edizioni di «Poesia», Milano 1909, pp. 161-162)

 

 

 

 

POVERI

di Alfonso Gatto (1909-1976)

 

I poveri hanno il freddo della terra.

Nella città spiovente, ai tetti, al fumo

tranquillo delle case, il giorno migra

nel colore d'oriente: così calma la sera

agli occhi mesti si fa lume.

Io li ricordo contro un cielo d'aria,

i poveri stupiti, come l'agro

verde dei prati sfiora nella pioggia

una velata eternità di sole.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2005, p. 91)

 

 

 

 

LA MADRE POVERA

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

È più grave il tuo peso sul mio cuore

Che nel mio grembo, quando penso

A quello che ti attende.

 

Ben poco noi possiamo offrirti.

Duro è il nostro lavoro

E mal retribuito.

Tuo padre come un uccello migratore

Esplora invano questa e quella sponda

Né trova luogo dove fare il nido.

C'erano tanti grembi ricchi ed avidi,

Mi chiedo perché tu abbia scelto il mio,

Ma è inutile indagare.

                      Ad un malcerto

Benvenuto, nel vento di tempesta,

Per te preparo un pallido sorriso.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, pp. 141-142)

 

 

 

 

 

IL FUOCO DEI POVERI

di Renzo Pezzani (1898-1951)

 

- Poverina, che mani rosse.

Chi ti manda per fuscelli?

La tua mamma? - Così fosse.

Sono sola con tre fratelli.

 

- Oltre il prato, oltre i sentieri,

io so un posto che di legne

se ne trova a mucchi interi.

- Ma il camino mi si spegne.

 

A me basta questo poco

per tenere allegro il fuoco.

 

- E domani, come farai?

- Se il Signor pensa agli uccelli,

può scordare i miei fratelli?

Passeranno i carbonai

 

e una legna pur cadrà

dalla groppa dei giumenti.

Siamo quattro in povertà

ma del poco siam contenti.

 

Non ci vuole molta brace

per scaldar la nostra pace.

 

(da "Il fuoco dei poveri", Società Editrice "La Scuola", Brescia 1939, pp. 22-23)

 

 

 

 

IL BIMBO POVERO

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

 

Triste una casa senza bimbi;

ma come più triste un bimbo senza casa.

 

Tutte le sere, quando gli ubriachi,

come stracci invertiti dalla pioggia

pare s'appendino ai muri

e ragionano di cose molto gravi,

un colpo di tosse, timido,

quasi che fosse qualcosa che gli altri

non amino udire,

gela nel buio del vicolo:

«forse sarà tisico quel bimbo».

 

Non lo conosco; ma, certo, l'ho incontrato

su tutte le strade, e pure tu l'hai visto

e hai pianto pensandoti sua madre,

pallida prostituta

camminatrice di dolore.

 

- Dormi? - Non posso dormire;

ma non mi lagno

se il sonno non ama la mia carne,

anche se questo m'è dato di pregare.

 

È uno sempre il bimbo vagabondo

che non trova nessuno che prenda la sua mano;

è sempre Dio che cammina invano

dinnanzi agli occhi àtoni del mondo.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 404)

 

 

 

 

IL GIARDINO DEI POVERI

di Rocco Scotellaro (1923-1953)

 

È cresciuto il basilico

nel giardino dei poveri:

hanno rubata l’aria alle finestre

su due tavole hanno seminato.

 

Verranno i passeri,

verranno le mosche,

nel giardino dei poveri.

 

Ora quando non sai che fare

prendi la brocca in mano,

io ti vedrò cresciuta tra le rose

del giardino dei poveri.


(Potenza, 21 ottobre 1948)

 

(da "Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004, pp. 10-11)

 

 

 

 

 

LA PREGHIERA DEI POVERI

di Giovanni Titta Rosa (pseud. di Giovanni Battista Rosa, 1891-1972)

 

Il sole si posa sulle glicine affacciate ai muri e sulle acque dei canali

  e le strade brillano di scaglie di perle e d'oro.

Seduti accanto alle porte delle chiese i poveri aspettano la venuta della sera

  in silenzio, col volto intento, come se vegliassero un tesoro.

 

Ma qualcuno volge la faccia verso il sole, disteso onda rosea sulla strada,

  e le palpebre gli battono quasi carezzate da una tenera mano.

È questa l'ora in cui si porta il pane in bocca, e si raccolgon le briciole cadute sulle ginocchia,

  l'ora in cui preme e duole la passione d'un ricordo lontano.

 

«Stavi sulla scala di casa e avevi sul collo avvolto un fazzoletto fiammante,

  diritta, e il sole acceso ti rideva sulla bocca;

la tua faccia era tutta un caldo riso aperto come un frutto sugoso,

  perché una gioia non creduta t'è scoppiata nel cuore e trabocca.

 

T'incontrai alla fonte che già qualche stella luceva nel fresco dell'aria celeste

  e ti scostasti dal muro, abbassando gli occhi, vergognosa:

io non seppi fermarmi, ché mi parve, a un tratto di barcollare e cadere

  e pure dal monte l'avevo portata per te quella rosa.

 

Ora il passato è un muro nero e io sono un sasso rotolato di via in via senza riposo

  e non chiamo più nessuno e aspetto in pace la morte.

Mi domina il tempo e la pioggia mi bagna e la sua polvere in bocca m'avventa la strada

  e sono stanco di chiedere e chiedere a tutte le porte.

 

Oh Signore, che hai nelle chiese di questa terra tua bella tante e tante campane,

  fanne rintoccare una per me d'una chiesetta inadorna;

mi chiama mi chiama - io dirò, e mi stringerò a un angolo di via per morire

  e piangerò e sarò felice come una pecorella smarrita che torna».

 

(da «Il Convegno», gennaio 1928)



"Migrant mother (foto di Dorothea Lange)
[da questa pagina web]


 

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