I POVERI IN 10
POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO
AL LETTO DEL
POVERO
di Lina Barberis
(?-?)
Vieni, hai finito
di soffrire. Son
io
son quello che fu
povero e tradito
e crocefisso: il
tuo fratello e Dio.
Tu lo sapevi che
sarei venuto
incontro a te;
che avresti avuto
la corona e la
porpora di re.
Te lo avevo
promesso.
La festa m'ascoltavi,
umile, in chiesa
presso
la porta: andare
avanti non osavi.
Ed eri il più
vicino e caro a me.
Per te solo
parlavo: «O povertà
spera perché
la tua ora
verrà».
Eccola: chiudi
gli occhi: pel banchetto
ecco le vesti:
sei leggero, sei
netto
di tutto ciò che
vivo non avesti.
(da «L'Eroica»,
dicembre 1938)
I POVERI
di Luigi
Bartolini (1892-1963)
I poveri
sono quelli
che lasciano
l'uscio cigoli;
o la botola
della latrina
senza manico,
se s'è rotto.
Alzano allora,
con mano
tremante
il piatto
sepolcrale
e versano
il pitale!
(da "Poesie
1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964, p. 235)
ALLEGREZZA DEI
POVERI A TEGOLETO
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Tegoleto è un borgo in Val di Chiana,
sulla strada
da Arezzo a Siena.
Bella Italia che
serri la palma
e nel mezzo ti
fai la Chiana
quando guardo
nell'aria lontana
veggo il dolce
paese mio.
Tegoleto non sei gentile
giallo e tozzo è il tuo campanile.
Sono andato per
farmi soldato,
son partito per lavorare,
ma mi struggo di
ritornare
verso il dolce
paese mio.
Mi staresti in un palmo di mano,
Tegoleto che stai nel pantano.
Là, dall'armi,
dalle Maremme,
son tornato, mi
vedi, mi senti:
mi conforti di
fame e stenti
ma sei il dolce
paese mio.
Quando vien quell'annottare
ecco il povero a zufolare.
Passerotto che
stai nel solco
non lo vedi che
il giorno va via?
alla stalla
converge il bifolco,
il bracciante pei
campi s'avvia:
vanne pure sull'olmo agghindato,
che il Signore ti ha preparato.
Ora è il mondo
una bruna noce
dentro il cielo
che onora e brilla:
per la strada va
rara voce,
sopra i tetti va
rara favilla.
Tra le case di Tegoleto
c'è un sussurro calmo e discreto.
Siamo stracchi, fatti,
affamati,
lavorato s’è
tutto il giorno;
presso il pozzo
si sta incantati
in attesa di
qualche ritorno:
tornano Beco, e Meo e la Rosa
e la Rita che presto si sposa.
Pipistrello la
nottola chiama,
dicono insieme -
voliamo, è notte:
canta l’upupa che
upupo ama
taccion nel solco
le talpe e le botte.
Nera è la notte, nera e piena
mamma la terra fa nera la schiena.
Noi si ragiona di
pane e lavoro;
quando si fece
quell'affossata;
quando si fece,
per l'Alberoro,
scasso di bosco e
la nuova piantata.
Crudo era il masso, ginestre e sole,
dolce è la vita a chi bene le vuole.
Pura è la luna,
non è fidanzata,
che campa in
mezzo del cielo sola:
di tra le case
tutt'ombra ha levata,
scende tra i
poveri quella Signora:
Di tra gli olivi balzò, lontani
ed ora illumina il monte e i piani.
Poi senti un
trepido bisbigliare,
gente si muove
nel chiaro di luna:
serrano gli usci,
e le voci rare
vanno spegnendosi
ad una ad una.
O pipistrello, tra il tetto e la strada,
vola balzano, nessuno ti bada.
Questa canzone
che un povero ha fatta
vuol ritornare
laggiù dov'è nata;
mare non cura, né
selva, né fratta,
ricchi paesi o
città adornata;
ma a Tegoleto con l'ala ansiosa
vola diritta, e si quieta, e posa.
(da "Tutte
le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 46-49)
POVERI
di Paolo Buzzi (1874-1956)
Tre poveri,
e sono vecchi e
sono in cenci
e l'inverno morde
rabbioso,
guardano un cielo
nero che promette la neve.
Han tutti e tre
la febbre:
i lor denti
battono in tempo co' lor cuori.
Appoggiano le
schiene curve sfinite
al muro d'un
Teatro che sfolgora di luci.
Dalle carrozze
scendon le dame coi piedi di fata:
le pellicce han
fruscii di bestie vive nei boschi.
Entran nel luogo
d'oro.
Vampa d'estate
dalla porta
che subito si
chiude.
- Che ci starà
qui dentro ? -
Mai non videro
vivere i fatti e i canti degli uomini
nella cornice
d'un Teatro. Vengono di lontano:
non seppero che
scene di nevi e di mari e di vulcani:
e le musiche
pazze dell'anima e del cielo;
e ne goderono.
Oggi hanno solo fame...
E guardan le
pagnotte di sterco che sbucan fumanti
dal forno dei
cavalli quasi con ghiotto amore.
Girano i cocchi
intorno, spavaldi i cocchieri scintillano
dalle tube
nerissime dove la notte accesa si specchia.
Una corda di
frusta,
roteando,
ha toccati i tre
visi d'un colpo.
Sorridono, que'
vecchi.
La frusta allegra
toccò senza far male.
Poi, nulla non
potendo dividere, dividono, per ore,
i fiati ancora
caldi
sulle mani
tremanti, l'un dell'altro, a vicenda,
guardando la neve
che appresta
il bel tappeto
bianco
alle carrozze del
ritorno. Oh rulleranno lunge,
senza scosse e
rumori, piene di dame in sonno
e l'odore di
fiori!
Quegli, andran
per le vie,
le vie solitarie,
senza cani,
a far l'orme
sull'orme, l'orme con le dita.
(da "Aeroplani",
Edizioni di «Poesia», Milano 1909, pp. 161-162)
POVERI
di Alfonso Gatto (1909-1976)
I poveri hanno il
freddo della terra.
Nella città
spiovente, ai tetti, al fumo
tranquillo delle
case, il giorno migra
nel colore
d'oriente: così calma la sera
agli occhi mesti
si fa lume.
Io li ricordo
contro un cielo d'aria,
i poveri stupiti,
come l'agro
verde dei prati
sfiora nella pioggia
una velata
eternità di sole.
(da "Tutte
le poesie", Mondadori, Milano 2005, p. 91)
LA MADRE POVERA
di Margherita
Guidacci (1921-1992)
È più grave il
tuo peso sul mio cuore
Che nel mio
grembo, quando penso
A quello che ti
attende.
Ben poco noi
possiamo offrirti.
Duro è il nostro
lavoro
E mal retribuito.
Tuo padre come un
uccello migratore
Esplora invano
questa e quella sponda
Né trova luogo
dove fare il nido.
C'erano tanti
grembi ricchi ed avidi,
Mi chiedo perché
tu abbia scelto il mio,
Ma è inutile
indagare.
Ad un malcerto
Benvenuto, nel
vento di tempesta,
Per te preparo un
pallido sorriso.
(da "Le
poesie", Le Lettere, Firenze 1999, pp. 141-142)
IL FUOCO DEI
POVERI
di Renzo Pezzani (1898-1951)
- Poverina, che
mani rosse.
Chi ti manda per
fuscelli?
La tua mamma? -
Così fosse.
Sono sola con tre
fratelli.
- Oltre il prato,
oltre i sentieri,
io so un posto
che di legne
se ne trova a
mucchi interi.
- Ma il camino mi
si spegne.
A me basta questo
poco
per tenere
allegro il fuoco.
- E domani, come
farai?
- Se il Signor
pensa agli uccelli,
può scordare i
miei fratelli?
Passeranno i
carbonai
e una legna pur
cadrà
dalla groppa dei
giumenti.
Siamo quattro in
povertà
ma del poco siam
contenti.
Non ci vuole
molta brace
per scaldar la
nostra pace.
(da "Il
fuoco dei poveri", Società Editrice "La Scuola", Brescia 1939, pp. 22-23)
IL BIMBO POVERO
di Salvatore
Quasimodo (1901-1968)
Triste una casa
senza bimbi;
ma come più
triste un bimbo senza casa.
Tutte le sere,
quando gli ubriachi,
come stracci
invertiti dalla pioggia
pare s'appendino
ai muri
e ragionano di
cose molto gravi,
un colpo di
tosse, timido,
quasi che fosse
qualcosa che gli altri
non amino udire,
gela nel buio del
vicolo:
«forse sarà
tisico quel bimbo».
Non lo conosco;
ma, certo, l'ho incontrato
su tutte le
strade, e pure tu l'hai visto
e hai pianto
pensandoti sua madre,
pallida
prostituta
camminatrice di
dolore.
- Dormi? - Non
posso dormire;
ma non mi lagno
se il sonno non
ama la mia carne,
anche se questo
m'è dato di pregare.
È uno sempre il
bimbo vagabondo
che non trova
nessuno che prenda la sua mano;
è sempre Dio che
cammina invano
dinnanzi agli
occhi àtoni del mondo.
(da "Tutte le
poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 404)
IL GIARDINO DEI
POVERI
di Rocco
Scotellaro (1923-1953)
È cresciuto il
basilico
nel giardino dei
poveri:
hanno rubata
l’aria alle finestre
su due tavole
hanno seminato.
Verranno i
passeri,
verranno le
mosche,
nel giardino dei
poveri.
Ora quando non
sai che fare
prendi la brocca
in mano,
io ti vedrò
cresciuta tra le rose
del giardino dei
poveri.
(Potenza, 21 ottobre 1948)
(da "Tutte
le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004, pp. 10-11)
LA PREGHIERA DEI
POVERI
di Giovanni Titta
Rosa (pseud. di Giovanni Battista Rosa, 1891-1972)
Il sole si posa
sulle glicine affacciate ai muri e sulle acque dei canali
e le strade brillano di scaglie di perle e
d'oro.
Seduti accanto
alle porte delle chiese i poveri aspettano la venuta della sera
in silenzio, col volto intento, come se
vegliassero un tesoro.
Ma qualcuno volge
la faccia verso il sole, disteso onda rosea sulla strada,
e le palpebre gli battono quasi carezzate da
una tenera mano.
È questa l'ora in
cui si porta il pane in bocca, e si raccolgon le briciole cadute sulle
ginocchia,
l'ora in cui preme e duole la passione d'un
ricordo lontano.
«Stavi sulla
scala di casa e avevi sul collo avvolto un fazzoletto fiammante,
diritta, e il sole acceso ti rideva sulla
bocca;
la tua faccia era
tutta un caldo riso aperto come un frutto sugoso,
perché una gioia non creduta t'è scoppiata
nel cuore e trabocca.
T'incontrai alla
fonte che già qualche stella luceva nel fresco dell'aria celeste
e ti scostasti dal muro, abbassando gli
occhi, vergognosa:
io non seppi
fermarmi, ché mi parve, a un tratto di barcollare e cadere
e pure dal monte l'avevo portata per te
quella rosa.
Ora il passato è
un muro nero e io sono un sasso rotolato di via in via senza riposo
e non chiamo più nessuno e aspetto in pace la
morte.
Mi domina il
tempo e la pioggia mi bagna e la sua polvere in bocca m'avventa la strada
e sono stanco di chiedere e chiedere a tutte
le porte.
Oh Signore, che
hai nelle chiese di questa terra tua bella tante e tante campane,
fanne rintoccare una per me d'una chiesetta
inadorna;
mi chiama mi
chiama - io dirò, e mi stringerò a un angolo di via per morire
e piangerò e sarò felice come una pecorella
smarrita che torna».
(da «Il
Convegno», gennaio 1928)
"Migrant mother (foto di Dorothea Lange) [da questa pagina web] |
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