Poesia e
filosofia possono marciare insieme, soprattutto se la prima dottrina
s'indirizza verso gli argomenti che piacciono maggiormente alla seconda, o se,
interpretando il significato più generico della parola "filosofia", i
versi provano a stabilire e a costruire una particolare concezione della vita.
Fatto sta che, durante il XX secolo e non solo, alcuni filosofi si sono
dedicati alla scrittura di versi. C'è chi lo ha fatto per tutta la vita, chi
soltanto episodicamente; ci sono stati filosofi che non hanno mai pubblicato i
versi che scrivevano a mo' di diario, chi, invece, ha ritenuto che la poesia (o
la letteratura) fosse la sua attività più importante, e ha trascurato
conseguentemente la filosofia. Ecco allora dieci poesie scritte da dieci
filosofi italiani del Novecento più o meno famosi. Nel selezionarle ho cercato
di privilegiare quelle più specificatamente vicine al pensiero filosofico, per quanto
fosse possibile. Spero di esserci riuscito.
10 POESIE DI 10 FILOSOFI ITALIANI DEL XX SECOLO
LA SERRA
di Adelchi
Baratono (1875-1947)
Io giunsi.
Era ombra. Sedevi
per terra
tra i fiori, e premevi
colle dita
anellate una mimosa
nella tua
serra odorosa.
I vetri
specchiavano un pallido sole
che tra
violette aiuole
moriva. Nel
mare un pescatore piangeva.
E quando
protesi la faccia
sbiancata,
in lucida traccia
la FELICITÀ
passava! e scoteva
tutti i
suoi sonagliuzzi festosi,
scoteva
scoteva.
Passava e
passò. Io doveva
rimanere
per sempre proteso..!
E tu mi
mordesti le labbra
con
l'occhio tremulo acceso...
L'altra
lontanava tinnando
quando
tu mi
mordesti le labbra.
Non potevi
sapere il mio pianto dirotto.
(da
"Sparvieri", Stab. Montorfano, Genova 1900, p. 25)
Da
"BALLI"
di Massimo
Bontempelli (1878-1960)
Avanti i
primi - uno - due
a destra a sinistra per ordine
voltare girare
qui.
Otto
pensieri di morte
dieci doveri di vita
sinistra poi destra per fila
lì.
Un maschio
e una femmina
un nero e un azzurro
otto paure
dieci imposture
un sussurro.
Avanti dal
fondo a catene.
Sette i giorni dodici i mesi
a destra a sinistra per bene
otto cuori dieci cervelli
su giù non uno di più
codice articolo regola
- uno - due - così.
(da
"Il Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987, p. 30)
CARO
INFIRMA
di Giorgio
Del Vecchio (1878-1970)
Nell'atra
notte, mentre più dolora
L'infermità
dell'esser mio mortale,
Sento come
un lieve batter d'ale
E un'eterea
carezza che mi sfiora.
Spirto
celeste, donde vieni? E quale
Amor ti
muove? Deh m'assisti ancora,
Ché tua
dolcezza sola mi rincora
Ed è divino
balsamo al mio male.
O misera
materia, o nostra sorte
Che l'anima
con quella ognora affianca,
E la
stringe e comprime in ree ritorte!
Ma a tratti
un santo anelito l'affranca,
Pregno di
vera vita oltre la morte.
Lo spirito
è pronto, se la carne è stanca.
(da
"Poesie", Mediterranea, Roma 1953, p. 42)
IL
DESIDERIO VINTO
di Lorenzo
Giusso (1900-1957)
Ingannatrice
apparenza, bellezza sublime del mondo
che mi
costringi prigione tra labili giochi di forme,
quando ai
miei occhi sparita sarai e svanita l'enorme
brama di
vita e d'amore che brama il mio cuore profondo?
Melodrammatico
cuore, tu sogni ruinose avventure
con
principesse d'Oriente dai biondi imperiosi artifizi
dietro
viali fragranti di tassi, magnolie e palmizi,
penduli in
laghi smaltati d'opache, perenni verdure.
Vorresti
giungere, stanco, in rosei tramonti d'anguria
a bianchi
alberghi ricolmi di palme e di lucide coppie
fanatizzate
ed estatiche. Vorresti veder sulle doppie
cristallerie
incendiarsi sorrisi di cupa lussuria.
Tu credi
ancora che ignote dolcezze si trovino al fondo
di
balaustre appoggiate su gravidi mari turchini.
Veneri
ancora, in segreto, la donna dai gesti felini
pallida ed
irta Discordia emersa d'abisso profondo.
Tu sogni e
vedi slargarsi tra tozze colonne un salone
di gioco. E
credi, l'ingenuo, che pile di scudi lucenti
ti
renderebber felice. E pensi, in tuoi sogni dementi,
che basti
caracollare per essere un Napoleone.
Tu, ignaro,
sempre vagheggi l'ebbrezza che fiacca e consuma.
Mediti
d'inobliabili viluppi di corpi sovrani
votati a
lente morti, a squisiti martirî oltre umani.
Soavi
orchestre di baci vorresti su letti di piume.
Tu credi
ancor che le alcove di lusso fra i loro tendaggi
chiudan
eccelsi segreti. Tutt'ora ti turbi e t'accori
se nei
viali dei tigli si stampano baci sonori
due
sconosciuti felici. Il sesso i suoi pigri miraggi
proietta
immoto su te. Tu tendi al servaggio dei sensi,
al muto
abbagliamento dinanzi ad un corpo insaziato.
La Vita
dello Spirito ti pare un fantasma malato,
un'insidia
alla carne protesa ai suoi gaudi più intensi.
Esci da te!
Disingannati! Evaditi dalla prigione
dell'io
tiranno! Confondi cogli altri viventi la trama
della tua
vita solinga! Deponi l'estuosa tua brama
che ti
distrugge e ti perde! Dischiudi alla rassegnazione
l'animo e
aspetta calmo la Morte che il tuo desiderio
scioglierà
fra i ghiacciai del bianco e silente suo imperio.
(da
"Elegie del torso della saggezza mutilata", Corbaccio, Milano 1941,
pp. 149-152)
L'ALBERO
LUMINOSO
di Gino
Gori (1876-1952)
Cresce come
l'alba
quest'albero
di madreperla,
e porta
impigliati fra i rami
figure
d'uomini e colori.
Stormisce
che non si sente
coi nostri
orecchi mortali,
ma già
nell'anima passa
una musica
che pare
come un
silenzio di amore.
Cresce la
pianta mattutina
con una
fretta dorata,
empie gli
spazi della terra
e
l'infinito del cielo.
Tutti la
chiamano luce,
ch'è il
vero nome di Dio,
ma ella non
è che la favola della luce,
e dura un
giorno soltanto,
come la
fanciullezza,
come
l'amore,
come la
vita dell'uomo,
ch'è una
piccola lacrima
caduta
dagli occhi
invisibili dell'eternità.
(da
"Il mulino della Luna", Alpes, Milano 1924, pp. 30-31)
CAMMINO
NOTTURNO
di Giuseppe
Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981)
Vado.
L'ombra errante degli alberi mi serra
con grinze
lunghe di lascivia, e reti torte
e viscide,
e nodi vivi e corde troppo corte
che
stiracchio e dirompo e lascio in terra
fra le
pozze lunari come serpi morte.
Vado. Vedo
la luna nella notte spoglia
cader di
ramo in ramo come una magnolia
malata e la
rivedo ancora in fondo al viale
cantare in
un trionfo triste di fontana,
e un cedro
tendere alte le spennacchiate ale.
Vado. Io
amo solo le stelle e te lontana.
(da
«L'Eroica», novembre-dicembre 1932)
CENERI
di Marco
Lessona (1859-1921)
Sapete, o
uomini, voi
Che cosa
restò della pira,
Che delle
più preziose
Spoglie dei
boschi d'oriente
Sardanapalo
nel giorno
Ultimo
compose,
Perch'egli
e le sue donne ed i suoi
Tesori
v'ardessero
Sopra? Forse
ciò che rimase
Di quella
pira fu cosa
Diversa
dall'esiguo
Mucchio di
cenere,
Che lascia
il focherello di sterpi
Acceso
sull'alpe dai pastori
Nell'ora,
che dalla valle
Sale
l'ombra fredda della sera?
Uomini,
quanto rimane
Della più
nobil passione
È pari a
quanto lascia
Dietro di
sé
Il
desiderio più insano.
Lascia ogni
fuoco
Un poco
Di cenere:
d'ogni sforzo umano
Non resta
nel nostro cuore
Altro che
un po' di dolore.
(da
"Poesie", S.E.L.P., Torino 1930, p. 184-185)
RISVEGLIO
di Carlo Michelstaedter
(1887-1910)
Giaccio fra
l'erbe
sulla
schiena del monte, e beve il sole
il mio
corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano
il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il
vento
e lo sciame
ronzante degli insetti. -
Delle
rondini il volo affaccendato
segna di
curve rotte il cielo azzurro
e trae
nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei
falchi...
Vita?!
Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il
vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra
questi sente vede gode
sta sotto
il vento a farsi vellicare
sta sotto
il sole a suggere il calore
sta sotto
il cielo sulla buona terra
questo
ch'io chiamo «io», ma ch'io non sono.
No, non son
questo corpo, queste membra
prostrate
qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io
non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi
su nell'aria o il vento o il sole.
Io son
solo, lontano, io son diverso -
altro sole,
altro vento e più superbo
volo per
altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui
che aspetto, e la mia vita
perché non
vive, perché non avviene?
Che è
questa luce, che è questo calore,
questo
ronzar confuso, questa terra,
questo
cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto
d'ogni cosa, m'è nemica
questa
natura! basta! voglio uscire
da questa
trama d'incubi! la vita!
la mia vita!
il mio sole!
Ma pel
cielo
montan le
nubi su dall'orizzonte,
già
lambiscono il sole, già alla terra
invidiano
la luce ed il calore.
Un brivido
percorre la natura
e rigido mi
corre per le membra
al soffiare
del vento. Ma che faccio
schiacciato
sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi
levo, che ora ho un fine certo,
ora ho
freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la
mia vita,
che la
stessa ignoranza m'è sapere -
la natura
inimica ora m'è cara
che mi darà
riparo e nutrimento,
ora vado a
ronzar come gl'insetti. -
(da
"Dialogo della salute. Poesie", Formiggini, Genova 1912, pp. 76-77)
QUANTA LUCE
di Mario
Novaro (1868-1944)
Quanta
luce!
ma l'occhio
è opaco;
esili
emergono le terre
dall'immenso
seno dei
mari:
oh quale
cieco
liquido
abisso
sotto il
turchino velo,
quanta
compatta tenebra
sotto
l'incanto
de la
spirabile aria
e il verde
manto!
E fra gli
innumeri
astri del
cielo
(vana mira
vana inquietudine?)
quante
terre
vedono
sentono
o l'uomo è
solo?
e l'anima
da quali
luci
da quali
tenebre
s'accende o
spegne?
o questa
incerta vita è tutto
l'essere
altro senso
non ha?
(da
"Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, pp.
27-28)
OMNIA
VANITAS
di Giuseppe
Rensi (1871-1941)
Quando il
pensier, che a ogni alto Vero intende,
L'evolversi
fatal cieco e possente
Della
materia, onde le forme, lente,
Uscir de'
mondi, investigando ascende,
Per
quest'anima picciola e dolente
Che nelle
lotte e ne' desir s'accende,
Ed ama e
piange ed opra e si ripente,
Un grave
riso di pietà mi prende.
Come sarà
mio dì breve compito
E la
coscienza mia franta e sperduta,
Niuna
traccia di me per questo immenso
Spazio
starà, dov'or palpito e penso:
E la mia
vita, inutil cifra muta,
Scomparirà
nel mar dell'infinito.
(da
"Sic et non. Metafisica e poesia", Libreria Editrice Romana, Roma
1910, p. 253)
Anonimo, "Il filosofo" (da questa pagina Web) |
Nessun commento:
Posta un commento