mercoledì 30 gennaio 2019

Largo


 O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –

O lasciate lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l'arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch'io cerco
se l'estremo pallore del cielo
m'illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego –

Io entro soltanto
per avere un po' di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle –
Poi ch'io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce –

Milano, 18 ottobre 1930



Questa intensissima poesia è di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938), e l'ho trascritta dalle pagine 34 e 35 del volume Parole, Garzanti, Milano 1998, in cui sono presenti tutti i versi della poetessa lombarda prematuramente scomparsa.
Qui, mi pare, si possano rintracciare dei segni evidenti di una disperazione interiore che porterà la Pozzi, otto anni dopo, verso il suicidio. Non è ben chiaro a chi, la poetessa, rivolga fin dai primi versi le sue suppliche, ma si presuppone che siano le persone più vicine a lei in quel momento. Si respira un'atmosfera di estraniamento misto a rassegnazione, che si palesa in una necessità di solitudine, di lontananza da tutto e da tutti; la Pozzi dice di aver voglia di perdersi e null'altro; non ha voglia di rispondere a domande troppo impegnative riguardanti i suoi progetti futuri o la sua identità. Poi, sempre rivolgendosi a una non ben precisata umanità, chiede di non indagare troppo sul fatto che stia provando una sensazione di vuoto totale, che gli sta facendo perdere ogni motivazione per continuare a vivere; la sua anima, ormai svuotata da ogni presenza reale, si è popolata di fantasmi, ovvero di entità fittizie. Allora, per ritrovare almeno un perché della vita, la poetessa, mentre sta camminando senza meta sul far della sera, prova ad entrare nella prima chiesa che incontra lungo una vecchia strada; ma il motivo della sua sosta all'interno della chiesa non è soltanto dovuta alla ricerca di una fede perduta, o al bisogno di preghiera, bensì al desiderio di un luogo appartato, calmo e silenzioso; tant'è vero che chiede di non essere seguita, di essere lasciata sola a meditare. E lì, trova conforto nel paragonarsi agli oggetti (le cose) presenti, poiché la distanza che prova  dal resto dell'umanità è tale da sentirsi più vicina alle cose inanimate che vede intorno a sé, e così s'immedesima negli oggetti, e come gli oggetti vecchi e dimenticati di un luogo pubblico, si sente di non appartenere a nessuno e di essere stata dimenticata da tutti. E mentre scende lentamente la sera e la luce cala sempre di più, vorrebbe scomparire nel buio guardando l'ultima luce scemare per sempre.   

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