O lasciate lasciate che io sia
una cosa di
nessuno
per queste
vecchie strade
in cui la sera
affonda –
O lasciate
lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra
–
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima
luce –
E non chiedetemi
– non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella
folla è il vuoto
e nel vuoto
l'arcana folla
dei miei fantasmi
–
e non cercate –
non cercate
quello ch'io
cerco
se l'estremo
pallore del cielo
m'illumina la
porta di una chiesa
e mi sospinge a
entrare –
Non domandatemi
se prego
e chi prego
e perché prego –
Io entro soltanto
per avere un po'
di tregua
e una panca e il
silenzio
in cui parlino le
cose sorelle –
Poi ch'io sono
una cosa –
una cosa di
nessuno
che va per le
vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima
luce –
Milano, 18
ottobre 1930
Questa
intensissima poesia è di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938), e l'ho
trascritta dalle pagine 34 e 35 del volume Parole,
Garzanti, Milano 1998, in cui sono presenti tutti i versi della poetessa
lombarda prematuramente scomparsa.
Qui, mi pare, si
possano rintracciare dei segni evidenti di una disperazione interiore che
porterà la Pozzi, otto anni dopo, verso il suicidio. Non è ben chiaro a chi, la
poetessa, rivolga fin dai primi versi le sue suppliche, ma si presuppone che
siano le persone più vicine a lei in quel momento. Si respira un'atmosfera di
estraniamento misto a rassegnazione, che si palesa in una necessità di
solitudine, di lontananza da tutto e da tutti; la Pozzi dice di aver voglia di perdersi
e null'altro; non ha voglia di rispondere a domande troppo impegnative
riguardanti i suoi progetti futuri o la sua identità. Poi, sempre rivolgendosi
a una non ben precisata umanità, chiede di non indagare troppo sul fatto che
stia provando una sensazione di vuoto totale, che gli sta facendo perdere ogni
motivazione per continuare a vivere; la sua anima, ormai svuotata da ogni
presenza reale, si è popolata di fantasmi, ovvero di entità fittizie. Allora,
per ritrovare almeno un perché della vita, la poetessa, mentre sta camminando senza meta sul far della sera, prova ad entrare nella
prima chiesa che incontra lungo una vecchia strada; ma il motivo della
sua sosta all'interno della chiesa non è soltanto dovuta alla ricerca di una
fede perduta, o al bisogno di preghiera, bensì al desiderio di un luogo
appartato, calmo e silenzioso; tant'è vero che chiede di non essere seguita, di
essere lasciata sola a meditare. E lì, trova conforto nel paragonarsi agli
oggetti (le cose) presenti, poiché la distanza che prova dal resto dell'umanità è tale da sentirsi più
vicina alle cose inanimate che vede intorno a sé, e così s'immedesima negli
oggetti, e come gli oggetti vecchi e dimenticati di un luogo pubblico, si sente
di non appartenere a nessuno e di essere stata dimenticata da tutti. E mentre
scende lentamente la sera e la luce cala sempre di più, vorrebbe scomparire nel
buio guardando l'ultima luce scemare per sempre.
Ottimo commento della poesia dell'infelice poetessa A.Pozzi.
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