domenica 6 gennaio 2019

La malattia nella poesia italiana decadente e simbolista


La malattia, nei poeti decadenti e simbolisti, è molto spesso collegata con la morte, in particolare quando al centro del discorso c'è un infermo particolarmente grave; in alcuni casi, come dimostrano le poesie L'incubo dei folletti di Mario Adobati, La febbre di Corrado Govoni e Delirium tremens di Antonio Rubino, il malato rimane vittima di allucinazioni che sfociano in visioni terrificanti. A volte, però, le allucinazioni non hanno nulla di spaventoso, e si dimostrano addirittura piacevoli. In diverse poesie viene messo in risalto il periodo della convalescenza; qui il poeta, ancora debole, esprime le proprie sensazioni e i desideri di guarigione, e chiede conforto ad una presenza femminile non ben delineata (madre, sorella o amante?). Vi sono poesie ironiche, che sbeffeggiano la malattia ed anche i malati, come Il cancro di Corrado Govoni e Il pagliaccio dell'ospedale di Paolo Buzzi. E a proposito di ospedali, non possono mancare i versi in cui si parla delle corsie dei sanatori, spesso ponendo in evidenza l'estrema malinconia che vi si respira, e l'immancabile presenza della morte sempre in agguato. Ma qualche volta non è la morte che si presenta ai piedi del letto del moribondo, bensì la Pietà, che aiuta il povero condannato a far si che la fine della sua esistenza possa essere dolce.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "L'incubo dei folletti" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inferma" in "Leggenda eterna" (1900).
Ettore Botteghi: "La preghiera" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Il pagliaccio dell'Ospedale" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "L'ospedale" e "Lo spavento" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Convalescenza in settembre" in "Fogline d'assenzio" (1913).
Giovanni Cena: "Nell'ospedale" in "In umbra" (1899).
Gabriele D'Annunzio: "L'incurabile" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "Ai convalescenti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Giuliano Donati Pétteni: "Sera nello spedale" in "Intimità" (1926).
Giulio Gianelli: "Il dolce infermo" in «Grande Illustrazione», marzo 1914.
Corrado Govoni: "Quante ore trascorse senza luce" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il lamento del tisico" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni "La febbre" e "Il cancro" in "Gli aborti" (1907).
Federico De Maria: "Dame Vérole" in «Poesia», novembre 1908.
Ugo Ghiron: "La compagna" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Enzo Marcellusi: "Allucinazioni d'una convalescenza" in "I canti violetti" (1912).
Fausto Maria Martini: "Convalescenza" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "Senza ragione" e "A una malattia" in "Poesie provinciali" (1910).
Pietro Mastri: "Nella corsìa la duplice" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "La Pietà" in "Dal profondo" (1910).
Yosto Randaccio: "Ombre di convalescenza" e "Un'ora dolce" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Anemica" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "Peste Regina" e "Delirium tremens" in «Poesia», ottobre 1908.
Giovanni Tecchio: "De profundis" in "Canti" (1931).




Testi

CONVALESCENZA IN SETTEMBRE
di Francesco Cazzamini Mussi

I.
Apri quella finestra: oggi mi sento
più debole: è un languore senza fine
che mi tiene e mi uccide... Oh se mi uccide!
Non dire nulla, no. Viver che importa?
Ho bevuto a una tazza che ora è vuota.
È presto? Tu, lo dici? Che sai tu?

Apri quella finestra. Entra col vento
un'aria molle: ed io rivivo, ancora.
È la vita che torna e che mi spira
sulla bocca riarsa, sulla fronte
aggrottata, sugli occhi dolorosi
le sue promesse tentatrici e calde...

Io non mi muovo: sta quieta. Guarda:
ha il mio corpo, nel letto, una sua strana
fissità di cadavere: s'io chiudo
gli occhi di già mi raffiguro morto.

Morto! È dolce sentire d'esser morto!
Ecco: vengon gli amici indifferenti
e addolorati: alcuni rammentando
l'alte virtù del buon compagno estinto....

Oh, ma non viene chi vorrei, nemmeno
l'ultimo giorno, quando il mondo è un vano
nome ormai privo d'ogni sua lusinga;
ecco, forse per me sorride l'ora
di pace e la mia bocca di già chiusa
per sempre è priva ancor della carezza
desiata e rimpianta e la mia fronte
non percepisce l'alito leggero
d'un bacio — intendi? — l'alito d'un bacio...
Oh lascia che il profumo della sera
venga per le finestre, lo lo respiro
voluttuosamente perché m'entri
nei polmoni, nel sangue e nel cervello,
e fors'anche nel cuor che lo ricorda...

II.
Ah quest'odor voluttuoso e tardo
di rose sensuali e questo acuto
e più snervante di magnolie in fiore
e la modestia raffinata delle
verbene ed il languore doloroso
delle azalee morenti ed il profumo
vivido e fresco della terra rorida
di rugiada e l'azzurro del mio cielo
ed il silenzio triste della villa!...

Io rivivo. Sei tu che ancor mi vuoi,
o vita, col furore della tua
verginità che nasce e che si dona,
per rifiorire e per mutar sua forma?
Io rivivo, e se il capo sui guanciali
abbandoni già stanco, se socchiuda
gli occhi nella vertigine dell'essere
malato, ecco rivedo una fulgente
strada e una vetta e il cuor canta una sua
diana squillante di vittorie, e sogna...

Ma quella bocca, quella bocca muta
e gli occhi ambigui tra le ciglia oscure
ma quella mano...?

III.
Oh passami la mano entro i capelli
tacitamente, e sia la tua carezza
lunga così che non mi faccia male...
Oggi son buono, e languo di dolcezza
e di rimpianto. Forse t'amo. Oh, illudimi,
amami tu, dammi una tua menzogna,
offrimi un desiderio, qualche cosa
che sia per me come il polline all'aria,
come il lento pulviscolo alla luce...

Passami la tua mano entro i capelli...

Non so: mi sento buono oggi, mi sento
timido, e gli occhi che non han più lacrime
vorrebbero trovar l'antica polla.
Vorrei piegare il capo nel tuo grembo
ed aspettar così l'ave e la sera.
Forse materna tu sorrideresti
perdonando al fanciullo che t'offese...

Anche direbbe il labbro tuo: — Vuoi questo?
Ch'io ti perdoni?... È facile... Bambino! —
Ma il perdono che forse mi daresti
chiamandomi bambino è quella gioia
senza sorriso che ricorda agli uomini
ciò che fu loro inutilmente...

                                Pensa
a questo strano avverbio: inutilmente!

(da "Fogline d'assenzio")


Giovanni Segantini, "Petalo di rosa"
(da questa pagina)


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