Ho paura la sera
solo all’imbrunire
quando s’aggrava
sulla mia anima il
peso
della tristezza, ho
paura
di traversare la
strada,
che non s’allenti in
quell’attimo
la mia ultima presa
alla vita; e una
volontà
di sonno, più forte
di tutto, mi stenda
sul letto d’asfalto.
Questa breve poesia
di Giorgio Vigolo fa parte della raccolta intitolata La luce ricorda, edita da Mondadori nel 1967. In questo libro, il
poeta romano radunò gran parte dei versi che fino ad allora aveva pubblicato,
con l'aggiunta di una sezione inedita: Nuove
poesie. Ho paura, la sera fa
parte della sezione: Amico di Caronte,
datata 1947, e fu pubblicata per la prima volta nel volume Linea della vita (Mondadori, Milano 1949).
La poesia è,
principalmente, una confessione del poeta, che esprime, ammette, dichiara una
sua profonda paura. Vigolo, romano, vissuto sempre o quasi nella capitale
italiana, conoscitore dei segreti più reconditi della sua città, probabilmente
nel corso delle frequenti passeggiate per le strade del centro che aveva
l'abitudine di fare (come si evince anche da molte sue prose), si accorge di
avere un malessere esistenziale. È un senso forte di tristezza quello che prova
il poeta, soprattutto verso l'imbrunire, quando la luce del sole va scomparendo
e si addensano le prime ombre della sera. In questi momenti l'uomo, già
tormentato da precedenti dolori e da numerose delusioni, teme di perdere la sua
"ultima presa / alla vita":
quell'istinto di sopravvivenza che abbiamo tutti, e che ci spinge ad andare
avanti anche tra mille difficoltà, perché la forza della vita è superiore
rispetto a quella, contraria, della morte. La presenza, sulle strade, proprio
in quelle ore crepuscolari, di un cospicuo numero di autoveicoli, fa sì che
Vigolo pensi, per un attimo, all'idea di gettarsi sull'asfalto all'improvviso
e, in pochi secondi, farla per sempre finita. Il poeta in questo contesto parla
di "una volontà / di sonno":
quel sonno eterno che è, fondamentalmente, la morte. In altri testi, Vigolo,
espone questa sua preferenza per il "sonno", quale salvagente dai
dolori e rifugio dalla tristezza e dalla stanchezza. Sempre riguardo al sonno
come anticipo della morte e fuga dalla vita, mi vengono in mente due bellissimi
passi di altrettanti racconti. Il primo, di Jack London, è tratto da Martin Eden:
«Improvvisamente si
accorse di quanto fosse disperata la sua situazione. Con occhi limpidi vide che
era entrato nella Valle delle Ombre. Tutta la vita che ancora gli restava
svaniva, si dileguava, lo avviava verso la morte. S'accorse di quanto a lungo
dormisse ormai, del bisogno che aveva di dormire. Una volta odiava il sonno,
perché lo derubava di preziosi momenti, in cui avrebbe potuto vivere. Dormire
quattro ore su ventiquattro voleva dire essere derubato di quattro ore di vita.
Com'era rammaricato per quel sonno! Adesso invece era la vita che non gli
andava più. La vita non era più buona, e gli lasciava in bocca un gusto amaro.
Ecco il suo pericolo. La vita che non tendeva verso la vita era sul punto di
estinguersi».
Il secondo (e qui
concludo) è di Carlo Cassola e fa parte de Il
taglio del bosco:
«Precipitare nel buio
del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno
venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni
pensiero, e perché un altro giorno era passato. A uno a uno i giorni passavano,
e i mesi e gli anni restavano dietro le spalle. Aveva trentott'anni; non era
lontano il traguardo dei quaranta, passato il quale sarebbe stato un uomo
maturo, quasi una persona anziana».
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