di Vittorio Betteloni (1840-1910)
Fu a mezzo ottobre, quando si fan gialle
Le foglie, e al primo soffio che diserra
II monte su la valle
Cascano in folla a terra;
Fu a mezzo dell'ottobre disadorno,
Che a la modesta villa,
Dov'ebbero tranquilla
Dimora i padri miei, feci ritorno.
Dopo l'assenza di molt'anni al loco
Feci ritorno dell'infanzia mia;
Partii fanciullo e poco
Men che adulto or venia:
Nessuno ravvisarmi avria saputo,
Ma gli antichi cipressi
Vidermi appena, ch'essi
Mossero il capo in segno di saluto.
Furon dinanzi del cancel piantati
Da non so quale de' miei vecchi stessi
Que'due vecchi cipressi;
E là come soldati
Stan da gran tempo a guardia del mio tetto,
E mi conobber tosto,
Perchè ai lor piè deposto
Io soleva giocar da pargoletto.
(Da "Nuovi versi", Zanichelli, Bologna 1880)
MAMMA, QUESTA D'OTTOBRE...
di Giovanni Cena (1870-1917)
Mamma, questa d’ottobre così gaia
giornata, sembra d’una primavera
ultima. Senti? rondinelle a schiera
empiono di bisbigli la grondaia.
Senti? tutto è brusio. Biondo nell’aia
il sol, tiepido ancora. Ma l’intera
famiglia è qui d’intorno, e prega e spera
che dalla casa il reo morbo scompaia.
Oggi si spilla il vino e si ripone
il grano turco: a noi il buon Signore
nulla di queste cose diede, mamma.
Pur siamo lieti: poi che 'l buon Signore
ancor ci appresta molte cose buone,
la tua salute, il tuo sorriso, mamma.
(Da "Madre", Streglio, Torino 1900)
OTTOBRE
di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937)
Il mio core è a te da canto,
Il mio core qui non è:
M'empie gli occhi a un tratto il pianto,
E non so, non so perché.
Triste è ottobre, e l'aria é scura;
Tace inerte la città;
E un presagio di sventura
Fitto in animo mi sta.
Su le vie di pioggia lustre
Fioco trema a specchio il sol,
E l'augel, con cura industre,
Su le torri posa il vol.
Ma 'l tuo labbro roseo e infido
É un cespuglio sempre in fior,
Dove fanno i baci 'l nido,
Dove il nido fa l'amor.
O diletta, io t'amo tanto;
Ma, se tu sorridi a me.
M'empie gli occhi a un tratto il pianto,
E non so, non so perchè.
(Da "Le Occidentali", Triverio, Torino 1887)
L'OTTOBRATA
di Domenico Gnoli (1838-1915)
Su tre colonne di granito, girano
Due snelli archi di pietra e fanno un vago
Portichetto, riparo a' densi ardori.
Salgono a destra pampinosi colli.
A manca s'apre la verde pianura.
Sotto scoppian le risa, è di bicchieri
Un tintinnio, gaio tumulto. Vino,
Datemi vino! Sopitor de' mali
Ridesta al senso de la gioia il core.
Di sé fanno ghirlanda sovra il prato,
Scotono i lombi al crepitar de' cembali
Le giovinette lucide; percotono
Coll'agil piè la terra a suon di nacchere.
Datemi vino! Dagli occhi giranti
Saettano la luce dell'amore:
Stilla sudor da le guance vermiglie
Che par brina piovuta su le rose:
Volano i panni, s'avvolgono a' nudi
Colli di cigno le corvine chiome.
Datemi vino! Tutto il ciclo ride,
É la natura un infinito riso.
La gioia è moto. Volano pel tremulo
Etere i raggi del divino sole,
Ondeggia la marina irrequieta,
L'uccello l'ali, la donzella i fianchi
Agita al ballo: ogni nervo mi trema.
Ed ecco stanco del tripudio poso
All'ombra lunga e nera d'un cipresso.
Il vino mi vapora la tristezza
Nel capo: in terra mi distendo e tocco
Con mano un teschio da la vanga rotto.
Vien fuori, o sede d'una vita spenta.
Chi fosti? Donna di beltà divina?
Non temer di mostrarmiti sì brutta.
Io colla viva fantasia t'incarno,
Ti fo gli occhi brillar fuor da le buche
E giù dal cranio piovere i capelli:
Ti compongo le guancie delicate
Circonfuse d'un molle aere d'amore.
Di gelosa rancura ti molesta
Il ballo delle donne ch'or son belle?
Io colla viva fantasia le scarno,
Le dischiomo, le cieco, e sotto a quella
Maschera di bellezza sta la morte.
Dimmi, da quanti secoli non godi
La gioconda campagna, e su quest'osso
Batte dell'ebre danzatrici il piede?
Muoion le madri, sull'ossa obliate
Danzan le figlie, il piè de le nepoti
Già s'addestra ne' balli. Le progenie
De' morituri l'una l'altra incalza.
O mio capo che senti e vedi e odi,
Starai sotterra ignudo. Un dì la vanga
Del contadino che i vigneti educa
Ti romperà, ti getteranno là
Come un ciottolo. Capo, non tremarmi:
Già non avrai d'un ciottolo più senso.
Spira l'aura del vespero; il cadente
Raggio del sole qua e là sugli erti
Pinacoli de' templi accende i vetri,
E per la strada polverosa i folli
Canti i percossi cembali lontanano.
Entro il passato già ruina il giorno
Il bel giorno d'autunno. Or che rimane
Di que' fervidi balli? Ardeano i cieli
Ardeano i campi al divin Sole, e meste
Risplendon le lucerne alle finestre.
Posa natura, posano i mortali:
ha termine ogni cosa, sterminato
É il desio. Come uccel, quando la neve
Copre i campi, non trova ove si posi
E fuor del tempo cerca la sua vita.
(Da "Versi di Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871)
OCTOBER
di Olindo Guerrini (1845-1916)
Muoio. Cantan le allodole
Ferme sull'ali nel profondo ciel,
E il sol d' ottobre tepido
Albeggia e rompe della nebbia il vel.
Caldo di vita un alito
Sale fumando dall'arato pian.
Muoio. Cantan le allodole
E le giovenche muggon da lontan.
La vostra lieta porpora,
Roselline d'inverno io non vedrò;
Le carni mie si sfasciano...
Domani al mio balcon non tornerò.
(Da "Postuma", Zanichelli, Bologna 1879)
OTTOBRE
di Andrea Maffei (1798-1885)
Chi v'insegnò, gentili abitatori
Dell'aere, a ramingar di clima in clima
Quando al soffio autunnal la neve prima
Copre d'un vel le acute alpi maggiori?
Vi profuse Natura i suoi favori
Ben più che a noi. Tegnamo, è ver, la cima
Per la poca ragion che ne sublima;
Che pro, s'ella è ravvolta in tanti errori?
Voi l'istinto conduce, onde sereno,
Senza il misero don dell'inlelletto,
Liberi pellegrini, il dì traete.
Oh se buio ci fosse ogni altro affetto
Fuor che l'amore, il vostro unico freno,
Noi pur saremmo creature liete.
(Da "Versi editi ed inediti", Le Monnier, Firenze 1858)
ALBA D'OTTOBRE
di Guido Menasci (1867-1925)
Un ciel d'autunno: un cielo di grigia pallidezza.
Il cheto Arno disegna una curva d'argento
ed i pioppi su l'argine fremono bianchi al vento.
A l'orizzonte appare il chiaror del mattino:
un chiaror freddo: lascia laggiù certe penombre.
Da la pianura tacita, leggieri come ombre
risospinti da l'alito tenue della brezza
veli di nebbia levansi d'un color cenerino.
Nel grigio smorto e pallido dell'alba autunnale
come una pace mistica de la campagna sale
e i Desiderii paiono sopirsi entro di me
e il sospiro d'amore diventa orazione;
religiosa, lontana, or l'Adorazione
raggia pura da l'anima e s'alza fino a Te.
(Da "Il libro dei ricordi", Giusti, Livorno 1895)
L'OTTOBRE
di Luigi Mercantini (1821-1872)
Fine a stagion sì dolce
É il mese dei diletti:
Chi vuol goder si affretti
A la collina.
Per le vallee s' inchina,
Ai prati si riposa,
Ma libera e gioiosa
É l'alma al colle.
Un'aura fresca e molle
Per greppi e ripe l'ale
Move agli olezzi e sale
Alla mia vetta.
La lieta cascinetta
I don' dell'aura accoglie,
Mentre ogn'arbor le foglie
Agita intorno.
Il signor del soggiorno
Ad un balcon s'affaccia,
E all'usata sua traccia
Il guardo gira.
Prima lontano ei mira
Del mar l'azzurra lista,
E rallegra sua vista
Al sol che nasce.
Poi suo veder si pasce
Alla foresta, al monte,
Al zampillar d un fonte
Giù pei campi.
Talor si volge ai lampi
D'una scoppiante canna,
E vede il can che azzanna
I morti augelli.
Sul margin dei ruscelli
'Ve più la frasca è stretta
Vede far la civetta
Capolino;
E l'incauto augellino
Sopra il ramo viscoso
Del garzoncel festoso
Intanto è colto.
Ma più fiso è il suo volto
Là presso ad un boschetto
Dove ha maggior diletto
II cacciatore.
Questi 'n sul primo albore
Al capannel si appiatta,
Ed al bosco e alla fratta
E al prato guarda.
E molt'ora non tarda
Ch'uno ed un altro augello
Si cala al praticello
E intorno vola.
Ma breve è sua carola,
Perchè l'uom de l'agguato
Già la fune ha tirato
Agli spaventi.
Gli augelli ad altro intenti
Drizzan l'ala a le fronde;
Ma è lì che si nasconde
Ultimo inganno.
Pel capo appesi stanno
Da la non vista ragna,
Chi è preso invan si lagna
E l'ali sbatte.
Così l'ore son tratte
Di chi pei colli ha stanza;
E insiem col dì s'avanza
Il godimento.
Vedi curvato e lento
Col vomer faticoso
Pei solchi ir disioso
L'aratore.
E innanzi a lui d'amore
Cantar le zappatrici,
Tritando alle pendici
Il duro suolo;
Mentre d'intorno a volo
Pigolando saltella
La vispa gallinella
E ingozza il grano;
Ma lei caccia il villano
Che sparge eletta e monda
Su la terra feconda
La semenza.
O soave potenza
Di gioie ignote a molti:
Sol chi tien con gli stolti
Non ti prezza.
(Da "Canti", Ferrario, Milano 1885)
OTTOBRE
di Emilio Praga (1839-1875)
Un lenzuolo di nebbia avvolge il cielo,
e la pioggia minuta e lenta cade;
le colline lontane han messo il velo,
e di fango si coprono le strade.
Piangono come vedove le biade,
e l'elegìa, battendo stelo a stelo,
addormenta le selve e i nidi invade,
i nidi pieni di piume e di gelo.
Che narrano le goccie ai bruchi erranti?
Alle buccie che dice il vento fioco?
Oh nelle tombe scheletri grondanti,
oh beltà, robustezze, a poco a poco
scioglientisi coll'acqua, e vegetanti!...
E la gente sonnecchia intorno al foco.
(Da "Trasparenze", Casanova, Torino 1878)
OTTOBRE
di Mario Rapisardi (1844-1912)
Ride limpido il Sol dopo la piova
Sopra gli umidi campi ridolenti
Di nepitella, e più vicino appare
Per lo nitido ciel l'ardua montagna
Tutta ametiste ed òr; solo una grigia
Lista di nebbia fuggitiva rade
Il bruno castagneto, e su la cima
Un'arruffata nugoleita posa.
Biancheggian qua e là ville e capanne
Tra gli alberi occhieggiando, e qualche ardita
Guglia di campanile al ciel s'appunta.
Fuma la terra nericante; luce
D'argentei fili il fresco aere; tremola
Un sottile vapor su' cristallini
Sassi in rìtondi monticelli estrutti
A ridosso alle siepi, incoronate
Di caprifoglio; ed or cinerei or bianchi,
Come al Sol piace e al venticello, ondeggiano
Lungo i viali i giovinetti olivi.
Tripudia intanto fra' pomposi tralci
Col nuovo autunno la vendemmia, ed acri
Fragranze e canti lascivetti avventa
Per l'aure ricche di salute: sfilano
Tra' racemosi pampini, al fragore
Balzellante dei cembali, rubeste
Gambe e femori audaci fluttuanti
Sotto l'incarco delle colme corbe.
Guarda con desioso occhio il seguace
Villano, e ambigui allettamenti e prede
Medita, e chi motteggiando s'adagia
Con voci aspre rabbuffa, in quel che innanzi
Il festoso mastin latra e saltella.
Così fervon le amiche opere; canta
Al gorgogliar degli sgorganti tini
L'affaccendata villanella; io sento
Penetrarmi nel sangue una divina
Pace, e de' sogni miei penso, e sorrido.
(Da "Versi", Lombardi, Milano 1888)
Santiago Rusiñol Prats, "Otoñal" |
Caro Leonardo,
RispondiEliminaper me è stato un grande piacere d'incontrare nel mare virtuale un tale fervente e fedele amante (anche conoscitore) della poesia italiano. Quanto riguarda a me, sono russo, ma da parecchi anni amo e traduco la poesia italiana, sopratutto negli esempi poco conosciuti nel mio Paese. Ad esempio, ora sto preparando alle stampe la prima edizione russa dei Canti Orfici di Dino Campana, tre anni fa ho tradotto quasi intero volume delle Parole di Antonia Pozzi ecc. M'interessa molto Luisa Ciaconi, vorrei tradurre la sua Tebaide, ma non posso trovare né l'edizione cartacea né un file utilizzabile dei suoi versi. Non potrebbe Lei aiutarmi di trovarne una versione digitale buona?
La ringrazio per aver letto il mio messaggio e Le voglio esprimerLe il mio profondo rispetto.
Sergio.
Ciao, grazie per i complimenti e spero tu voglia seguirmi ancora per molto tempo. Riguardo all'opera poetica di Luisa Giaconi, oltre al volume che è uscito da qualche anno, è possibile scaricare l'edizione postuma di "Tebaide" (1912) a questa pagina: https://archive.org/details/tebaidepoesie00giac
EliminaGrazie ancora e saluti.
Grazie Leonardo. L'avevo scaricata prima di scriverti. Ma tu stesso vedi come è digitata, con insegni ignoti invece delle lettere ecc. Se fossi italiano nativo, forse, m'ingegnerei di leggerla, ma, purtroppo...
EliminaOh, scusa, c'è anche il pdf. Questo è meglio.
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