La rivista Novissima. Albo d'Arti e Lettere, negli
anni che vanno dal 1901 al 1910, ovvero dalla sua nascita alla fine della sua
prima fase di pubblicazioni, ha rappresentato uno dei momenti più sublimi per
quel che concerne l'arte liberty mondiale. Ciò va riferito esclusivamente alle
arti figurative; distinzione obbligatoria, visto che Novissima nacque come rivista artistica a tutto tondo, che
includeva, nelle sue eleganti e preziose pagine, oltre a disegni e dipinti,
anche prose, poesie e perfino partiture musicali. Quello che m'interessa
approfondire in questo post, relativo a questa prestigiosa rivista, è soltanto
la presenza della poesia. Edoardo de Fonseca (1867-1936), ideatore e curatore
di Novissima, volendo rappresentare
il meglio della letteratura italiana, si rivolse anche ad alcuni tra i più noti
esponenti della poesia italica di quel preciso periodo, invitandoli a
pubblicare versi sulla sua nuova rivista. Vi fu chi rispose positivamente, e
infatti, già a partire dai primi anni dalla sua nascita, Novissima presenta poesie di Gabriele D'Annunzio e di Giovanni Pascoli (tanto per fare
due nomi illustrissimi). Eppure, se si analizzano complessivamente gli autori e
le poesie pubblicate da Novissima in questi dieci anni, certamente
si rimane un po' delusi, sia per il valore che per l'importanza dei versi
presenti. Anche i due vati della poesia italiana non fecero certo uscire, in
anteprima sulla rivista, alcuni tra i loro migliori versi. Se poi si vanno a
vedere le firme degli altri poeti italiani qui presenti, si noterà che sono, spesso,
nomi allora famosi, con discrete qualità poetiche, ma tutt'altro che giovani.
Volendo citarne alcuni, vi figurano: Antonio Cippico, Arturo Colautti,
Guglielmo Felice Damiani, Augusto Ferrero, Virgilio La Scola, Giuseppe
Lipparini, Giovanni Marradi, Pietro Mastri, Ettore Moschino, Angiolo Silvio
Novaro, Enrico Panzacchi, Francesco Pastonchi ecc.
Chiudo questa breve
dissertazione, riportando, tratte dalla rivista in questione, tre poesie di tre
poeti italiani che a quei tempi non potevano definirsi giovanissimi (avevano
superato da un pezzo la trentina), ma che, comunque, rappresentavano le nuove
leve: quelle che avrebbero dovuto rinnovare e prolungare il prestigio della
poesia nostrana dopo i fasti pascoliani e dannunzaini: promesse di un domani
che non divenne mai oggi.
Copertina della rivista "Novissima" del 1903 (da http://www.italianways.com/novissima-dieci-magnifici-anni-di-arte-e-cultura-in-stile-liberty/ ) |
REFRIGERIO
di Virgilio La Scola
Quando, accesa da
l'amore,
Tutta avvolta nel
mistero de la sera
Per i campi via
trapassi,
La tua traccia
candescente
Lambe ed arde gli
alti gigli
Che s'apposero ai
tuoi passi.
Ma dal fonte dei miei
baci,
Sazia, fresca,
sonnolenta riedi all'alba...
E al nitore de le
stelle
Brilli adorna di
rugiada;
Han bagliori le tue
sete,
Ha candori la tua
pelle;
Desta un canto ogni
tuo passo...
A ogni stilla che
abbandoni sul cammino,
Da la traccia
inaridita,
Uno spento niveo
giglio
Esilmente rigermoglia
A la bianca alba
infinita.
Refrigerio, del poeta siciliano Virgilio La Scola (Palermo
1869 - ivi 1927), uscì nella rivista Novissima
del 1901. In seguito La Scola la inserì nel suo volume La placida fonte, Zanichelli, Bologna 1907, alle pagine 125-126,
con lievi varianti (soprattutto di punteggiatura). In questi versi viene
descritta una vaga e affascinante figura femminile che molto somiglia ad una
dea, la quale, appena giunta la sera, si allontana dal poeta per avviarsi verso
campi pieni di gigli che al suo passare vengono arsi dal calore emanato dalla
dea accesa da l'amore. Ma ecco che
all'alba la donna ricompare in tutt'altra guisa: splendente, rugiadosa,
candida... e le gocce di rugiada che fa cadere passando per gli stessi campi
cha aveva attraversato la sera precedente, fanno rigermogliare i gigli. Si
respira, in questa poesia, un'aria mistica e vi compaiono anche molti elementi
misteriosi (relativi ovviamente alla figura femminile descritta) che a mio
avviso indicano un celato simbolismo. D'altronde La Scola fu, lungo la sua
carriera poetica che si svolse soprattutto nei primi dieci anni del XX secolo,
poeta mistico e, in parte, simbolista.
IL PESCATORE
di Angiolo Silvio
Novaro
Quando la Notte nella
sua bisaccia
le mani pone, e trae
suoi chicchi d'oro
che poi ne' campi su
de' cieli caccia,
il pescatore, che non
sa ristoro,
si leva, e monta
sopra la sua barca
remando, con in mente
un suo tesoro,
che gliela faccia nel
ritorno carca:
un tesoro lucente a
cui la luna
stessa, mirando, le
sue ciglia inarca.
Così, sognando quella
sua fortuna,
scioglie ei la lenza,
e spia se qualche argento
vivo risplenda in
grembo all'acqua bruna.
Il pescatore di Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866
- Oneglia 1938) fu pubblicata in Novissima
nel 1902. Quando, nel 1905, lo scrittore ligure pubblicò presso l'editore
Treves di Milano, il suo primo libro di poesie intitolato La casa del Signore, inserì col medesimo titolo i versi qui
riportati, seguiti da altri, alle pagine 39-41. La nuova poesia, molto più
lunga, è la prima delle tre comprese nella sezione La notte del pescatore dell'amante e del poeta. Nei versi qui
riportati si ritrova in pieno la poetica che sempre caratterizzò la carriera
artistica di Novaro: romanticismo, semplicità e, se si vuole, un pizzico di
ingenuità. Le immagini della Notte che, in forma umana di contadino, semina il
cielo di stelle (chicchi d'oro); del pescatore che si sveglia pensando al suo
tesoro (argento vivo), ovvero ad una pesca abbondante e, infine, quella della
luna che osserva curiosa l'uomo che si avvia al suo lavoro, molto somigliano a
tutte le altre immagini che Novaro saprà inventare con rarissima fantasia nella
sua opera poetica più famosa, dedicata al pubblico infantile: Il Cestello (Treves, Milano 1910).
L'ALBERO INSONNE
di Pietro Mastri
Un lampione è là, dal
vespro all'alba;
che allunga in giro
le sue fredde lame,
che infiltra la sua
scialba
luce fin dentro
dentro al tuo fogliame.
Albero, e tu frattanto
non dormi più. Ben
tutta la natura
dorme: tu vegli... Oh
quella fiamma accanto!
Com'è la notte, oltre
il suo cerchio, oscura!
Fiso ed assorto omai
nella molesta
luce è il tuo spirto
anelo;
né più vedi ondeggiar
sulla tua testa
le trasparenti immense
ombre del cielo;
né vedi tremolar lo
sparso lume
de le stelle, - sì
dolce e mite e pio
lume, onde sgorga
nella notte il fiume
tacito dell'oblio.
Ora invano per te
lento vapora
il sonno della notte,
e più non cade
sulle tue fronde,
ancora
trepide al vento e
molli di rugiade.
Nessun uccello più -
sogno sereno
in cor pacato -,
quando l'ombra cala,
vien ora ad annidarsi
nel tuo seno
col capo sotto l'ala.
Ma neri obliqui
vipistrelli e sciami
di strani insetti,
cui la fiamma attira,
svolazzan fra' tuoi
rami,
quasi fantasmi
intorno a chi delira...
Albero insonne,
passan le tue notti
così: torbide e
lente.
E quando a giorno
ecco che a rosei fiotti
rompe la pura luce
d'oriente,
oh, non più la
profonda
gioia di
risvegliarsi, la divina
gioia di risentire
acre e feconda
fluir la vita al sol
della mattina!
L'albero insonne di Pietro Mastri (Firenze 1868 - ivi 1932)
fu pubblicata sulla rivista Novissima
nel 1902. Fu poi inclusa (con alcune modifiche) nel volume poetico di Mastri: Lo specchio e la falce, Treves, Milano
1907, alle pagine 99-103. Questa poesia parla di un albero che, disturbato
dalla recente presenza, nei suoi pressi, di un lampione, quando arriva la notte
non riesce più ad addormentarsi a causa della potente luce emanata dall'intruso,
che ha un'intensità tale da penetrare anche attraverso il fogliame del
vegetale. E allora, il povero albero è costretto a vegliare per tutte le ore
notturne, infastidito anche dalla presenza di pipistrelli e insetti; quando poi
giunge l'alba e quindi il mattino, troppo logorato dalla veglia notturna, non ritrova
più la gioia di svegliarsi e di godersi il sole della nuova giornata. Molto
probabilmente, Mastri, in questi versi volle esporre la sua critica nei
confronti della modernità: mentre i poeti futuristi si apprestavano a celebrare
il progresso tecnologico ed industriale creando versi che inneggiavano alle
macchine, all'elettricità, alle fabbriche e perfino ai lampioni (si leggano le
poesie di Luciano Folgore: Fiamma a gas
e di Paolo Buzzi: Primi lampioni), il
poeta toscano va in tutt'altra direzione, affermando poeticamente come possa
essere deleterio l'uso di certi oggetti "moderni" per l'equilibrio
naturale della terra: l'albero che soffre a causa del lampione non è altro che
la natura agonizzante a causa dell'inquinamento. Si può quindi dire che Mastri
abbia avuto la precisa percezione di ciò che, di lì ad alcuni anni, sarebbe
accaduto a causa del poco rispetto dell'uomo nei confronti della natura e degli
altri esseri viventi presenti sul pianeta.
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