La perdita della
madre è uno degli eventi più tragici e dolorosi che si possano presentare
nell'arco della vita di un essere umano, e non sto certo a spiegarne i motivi,
poiché sono ovvii. Le dieci poesie di seguito riportate, le ho scelte in parte
per la loro bellezza e, in parte, perché molto mi ricordano la storia personale
vissuta da poco. Vi compaiono ancora una volta versi di alcuni poeti da me
prediletti: Pascoli, Sinisgalli, Valeri, Vigolo ecc. Qualche lirica è molto
famosa, come, ad esempio, La madre di
Giuseppe Ungaretti, che, quando uscì in volume, fu molto apprezzata anche dal
critico Benedetto Croce, troppo spesso severo nel giudicare le opere del poeta
di Alessandria d'Egitto.
Dedico queste dieci
poesie alla mia mamma.
APPRENDO UN ALTRO
SILENZIO
di Raffaele Carrieri
(1905-1984)
Apprendo un altro
silenzio
Alla fine del giorno:
La sera attendo
Il tuo ritorno.
Con la tua mano
Al posto vuoto
La polvere tolgo
A poco a poco.
In ciascun giorno
Di nuovo ti perdo.
In ciascun angolo
Ancora ti aspetto.
Col tuo occhio
Mi guardo intorno:
Dietro ogni muro
Mi trovo solo.
Di silenzio in
silenzio
Ti scorgo, ti sento
E parlo da solo
Tutto l'inverno.
(Da
"Stellacuore", Mondadori, Milano 1970)
MAMMA, IL MARTIRIO
TUO DURÒ DUE GIORNI
di Giuseppe
Casalinuovo (1885-1942)
Mamma, il martirio
tuo durò due giorni,
al terzo giorno non
vivevi più.
Parvero quei due
giorni pel tuo male
lunghi quanto due
secoli son lunghi.
In quei due giorni tu
moristi sempre,
sempre e poi sempre,
cento volte all'ora;
dopo due giorni di
continua morte,
al terzo giorno non
moristi più.
(Da
"Dall'ombra", Soc. Tipografico-Editrice Nazionale, Torino 1907)
IL DURO FILAMENTO
di Mario Luzi
(1914-2005)
«Passa sotto la
nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al
tempo ch’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare
troppo a lungo».
La voce di colei che
come serva fedele
chiamata si dispose
alla partenza,
pianse ma preparò
l’ultima cena
poi ascoltò la
sentenza nuda e cruda
così come fu detta,
quella voce
con un tremito appena
più profondo,
appena più toccante
ora che viene
di là dalla frontiera
d’ombra e lacera
come può la cortina
d’anni e fora
la coltre di fatica e
d’abiezione,
cerca il filo del
vento, vi s’affida
finché il vento la
lascia a sé, s’aggira
ospite dove fu di
casa, timida
e spersa in queste
prime albe dell’anno.
L’ora è quell’ora
cruda appena giorno
che il freddo mette a
nudo la città
livida nelle sue
pietre, tagliente
nei suoi spigoli e,
dentro, nell’opaco
versano latte nelle
tazze, tostano
pane, il bambino
mezzo desto biascica
mentre appunta sul
diario il nuovo giorno.
Nel grumo di calore
che è più suo,
nella bolla di vita
ch’è più tenera
per lei cresciuta
alla pazienza in terre
povere, pie,
l’ascolto, voce fievole,
tendersi a queste
ancora grevi, ancora
appannate dal lungo
sonno, chiedere
asilo, volersi
mescolare.
Dico: abbi pace, abbi
silenzio. Dico...
Udire voci trapassate
insidia
il giusto, lusinga il
troppo debole,
il troppo umano
dell’amore. Solo
la parola all’unisono
di vivi
e morti, la vivente
comunione
di tempo e eternità
vale a recidere
il duro filamento
d’elegia.
È arduo. Tutto
l’altro è troppo ottuso.
«Passa sotto la
nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al
tempo ch’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare
troppo a lungo».
(Da "Dal fondo
delle campagne", Einaudi, Torino 1965)
LA VOCE
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
C'è una voce nella
mia vita,
che avverto nel punto
che muore;
voce stanca, voce
smarrita,
col tremito del
batticuore:
voce d'una accorsa
anelante,
che al povero petto
s'afferra
per dir tante cose e
poi tante,
ma piena ha la bocca
di terra:
tante tante cose che
vuole
ch'io sappia,
ricordi, sì... sì...
ma di tante tante
parole
non sento che un soffio...
Zvanî...
Quando avevo tanto
bisogno
di pane e di
compassione,
che mangiavo solo nel
sogno,
svegliandomi al primo
boccone;
una notte, su la
spalletta
del Reno, coperta di
neve,
dritto e solo
(passava in fretta
l'acqua brontolando,
Si beve?);
dritto e solo, con un
gran pianto
d'avere a finire
così,
mi sentii d'un tratto
daccanto
quel soffio di
voce... Zvanî...
Oh! la terra, com'è
cattiva!
la terra, che amari
bocconi!
Ma voleva dirmi, io
capiva:
- No... no... Di' le
devozioni!
Le dicevi con me pian
piano,
con sempre la voce
più bassa:
la tua mano nella mia
mano:
ridille! vedrai che
ti passa.
Non far piangere
piangere piangere
(ancora!) chi tanto
soffrì!
il tuo pane, prega il
tuo angelo
che te lo porti... Zvanî... -
Una notte dalle
lunghe ore
(nel carcere!), che
all'improvviso
dissi - Avresti molto
dolore,
tu, se non t'avessero
ucciso,
ora, o babbo! - che
il mio pensiero,
dal carcere, con un
lamento,
vide il babbo nel
cimitero,
le pie sorelline in
convento:
e che agli uomini, la
mia vita,
volevo lasciargliela
lì...
risentii la voce
smarrita
che disse in un
soffio... Zvanî...
Oh! la terra come è
cattiva!
non lascia
discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io
capiva:
- Piuttosto di' un
requie per noi!
Non possiamo nel
camposanto
più prendere sonno un
minuto,
ché sentiamo
struggersi in pianto
le bimbe che l'hanno
saputo!
Oh! la vita mia che
ti diedi
per loro, lasciarla
vuoi qui?
qui, mio figlio? dove
non vedi
chi uccise tuo
padre... Zvanî?... -
Quante volte sei
rivenuta
nei cupi abbandoni
del cuore,
voce stanca, voce
perduta,
col tremito del
batticuore:
voce d'una accorsa
anelante
che ai poveri labbri
si tocca
per dir tante cose e
poi tante;
ma piena di terra ha
la bocca:
la tua bocca! con i
tuoi baci,
già tanto accorati a
quei dì!
a quei dì beati e
fugaci
che aveva i tuoi
baci... Zvanî!...
che m'addormentavano
gravi
campane col placido
canto,
e sul capo biondo che
amavi,
sentivo un tepore di
pianto!
che ti lessi negli
occhi, ch'erano
pieni di pianto, che
sono
pieni di terra, la
preghiera
di vivere e d'essere
buono!
Ed allora, quasi un
comando,
no, quasi un
compianto, t'uscì
la parola che a
quando a quando
mi dici anche
adesso... Zvanî...
(Da "Canti di
Castelvecchio", Zanichelli, Bologna 1907)
IN UN CIMITERO DI
MONTI
di Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi (1871-1919)
Tarda il sentiero in
un silenzio d’erba
che ingialla di
rammarico, e rinverde
non mietuta, tra un
vel d’aridi gambi.
Una rosa selvatica,
una stella
di iride azzurra,
affacciansi talora
da quel deserto come
un sogno...; un sogno
che intende co le
pallide pupille
a un altro sogno,
lungi, interminato.
Un suon di foglia,
che sul gambo oscilla,
il vol silenzioso
d’una magra
farfalla bianca, il
canto d’un uccello;
o il vento che tra
gli alberi viaggia
il monte, con il
sole, con le stelle
e con vele di nubi,
variando
colloqui d’ombre e
immagini di luce...
E in aria pende a
l’infinito un’eco
di mar che rompa a
un’invisibil riva,
o nella valle o
dietro il monte.
Ed ora
è questa la tua vita,
o madre mia.
(Da "Sonetti e
Poemi", Società Editrice Ligure-Apuana, Empoli 1910)
PREGHIERA ALLA MADRE
di Umberto Saba
(1883-1957)
Madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo
alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta
era la pena
che morte a entrambi
io m’invocavo)
madre
ieri in tomba
obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga
quasi vena
d’acqua, cui dura
forza reprimeva,
e una mano le toglie
abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io
sento
il tuo ritorno, madre
mia che ho fatto,
come un buon figlio
amoroso, soffrire.
Pacificata in me
ripeti antichi
moniti vani. E il tuo
soggiorno un verde
giardino io penso,
ove con te riprendere
può a conversare
l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo
mesto viso,
sì che l’ali vi perda
come al lume
una farfalla. È un
sogno,
un mesto sogno; ed io
lo so. Ma giungere
vorrei dove sei
giunta, entrare dove
tu sei entrata
- ho tanta
gioia e tanta
stanchezza! -
farmi, o madre,
come una macchia
dalla terra nata,
che in sé la terra
riassorbe ed annulla.
(Da "Tre
composizioni", Treves-Treccani-Tumminelli, Milano-Roma 1933)
16 SETTEMBRE 1943
di Leonardo
Sinisgalli (1908-1981)
Mia madre diceva il 16
settembre,
poco prima di morire
sulla mezzanotte,
che una pulce la
pungeva sulla schiena
una pulce pesante come un cavallo.
Una zampa oscura la
premeva sul letto.
Mia madre doveva
sudare per resistere,
e spirare bocconi,
senza aver trovato la forza
di dire una
preghiera.
Sono tornati i fiori
sulla loggia,
più nessuno li ha
innaffiati.
Hanno rimesso i ferri
ai puledri
e i giorni si sono
consumati.
La brutta bestia
miagola ancora
tra le crepe della
vecchia casa.
Una sera del mese di
agosto
noi stavamo sul
terrazzo
a guardare in cielo
l’immenso vespaio.
Il vento di agosto
che distoglie la pula
dal grano e dà
l’ebbrezza ai trebbiatori
incappucciati sulle
aie,
e fa splendere le
pale sulla paglia,
schiariva ai nostri
occhi la speranza
di una pace sudata.
Mio padre
si addormentò sulla
sedia
al soffio di quell’aria
serena.
Mia madre parlò a me
che fumavo:
«L’acqua torbida»
disse «scorre avanti
all’acqua sincera, il
fiume
trascina la verità».
Nasce ogni sera dalle
crepe dei muri
il canto della bestia
che non si è addomesticata.
Gufo o donnola,
civetta o faina,
mezzo mammifero,
mezzo uccello,
stermina le galline,
lacera le lenzuola nelle casse.
Non è gatto, non è
gallo, è demone
che si nasconde nei
solai,
che vuole il fumo la
penombra i calcinacci,
e ha ribrezzo delle
foglie;
animale legato alle
pieghe dei panni,
all’odore dei morti.
Mio padre siede a
mattutino
sulla pietra del
focolare.
La gente va e viene
con le bottiglie
nascoste negli
scialli a cercare aceto
per combattere
l’afta.
Le donne parlano dei
porci
alle vicine, dei
porci puliti come cani
e allevati sotto i
letti.
Epidemie di buoi di
pecore di galline.
Sono i segni della
fine?
Li enumerano le donne
che si sono sedute
sulle fascine
attorno al fuoco a
commemorare mia madre.
(Da "I nuovi
Campi Elisi", Mondadori, Milano 1947)
LA MADRE
di Giuseppe Ungaretti
(1888-1970)
E il cuore quando
d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il
muro d’ombra,
Per condurmi, Madre,
sino al Signore,
Come una volta mi
darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di
fronte all’Eterno,
Come già ti vedevo
Quando eri ancora in
vita.
Alzerai tremante le
vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio,
eccomi.
E solo quando m’avrà
perdonato,
Ti verrà desiderio di
guardarmi.
Ricorderai d’avermi
atteso tanto,
E avrai negli occhi
un rapido sospiro.
(Da "Sentimento
del Tempo", Vallecchi, Firenze 1933)
QUELLA NOTTE...
di Diego Valeri
(1887-1976)
Quella notte,
sperduto per l'aria,
su l'immensa città
sconosciuta,
c'era un povero
pensiero che errava,
che cercava, che
cercava il mio cuore;
ma non sapeva dove,
non sapeva dove...
C'era un grido di
donna, affiochito,
soffocato dal pianto,
smarrito;
un tuo grido - il tuo
ultimo, mamma -
che chiamava,
chiamava il mio nome...
Ma io non l'ho
sentito,
io non l'ho sentito.
(Da
"Umana", Taddei, Ferrara 1916)
GRIDO ALLA MADRE
di Giorgio Vigolo
(1894-1983)
Madre, mia madre
dove sei nel lontano?
dove ti sei perduta
dopo la morte,
che più non mi mandi
la tua immagine,
e deserti sono i miei
sogni,
ma meno della mia
vita?
Io sto quaggiù lo
vedi in quale pericolo:
strani mostri mi
fanno le cacce,
girano intorno
intorno alla poca rupe.
Madre, se esisti ancora
in qualche punto
dell'universo
nata alla bontà
indivisa
da cui ti staccasti
nel nascere,
fammi sentire
diminuita la mia
solitudine,
schiariscimi gli
occhi,
che io giunga a
rivederti
nell'alto del tuo
sereno,
e smetta di scorgere
al tuo posto le
ambigue
larve che ti
nascondono
al figlio.
(Da "La luce
ricorda", Mondadori, Milano 1967)
Giovanni Segantini, "L'angelo della vita" (da questa pagina web) |
Nessun commento:
Posta un commento