domenica 26 febbraio 2023

La povertà in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Avevo già pubblicato 10 poesie in cui erano protagonisti i poveri; qui, invece, si parla più in generale di povertà, ovvero di uno stato sociale di completa indigenza; è una delle situazioni spiacevolissime in cui gli esseri umani possono facilmente trovarsi. C’è chi nasce povero e chi lo diviene per una serie di eventi sfavorevoli; ci sono, anche, coloro che decidono di vivere in completa povertà (scelta coraggiosa, forse difficilmente comprensibile ai più, ma rispettabilissima). C’è, infine, chi teme la povertà, perché già l’ha provata, o semplicemente perché comprende a pieno il suo significato. Ma, per fortuna, ci sono tanti esseri umani che hanno superato dei periodi più o meno lunghi di totale povertà, riuscendo addirittura a garantire uno stato di benessere duraturo ai propri figli. Troppo spesso la povertà coinvolge intere nazioni, per motivi economici, oppure per una precisa responsabilità di chi le governa. Abbattere totalmente la povertà in ogni luogo della terra è un’utopia, ma sforzarsi per eliminarne una buona parte dovrebbe essere considerato un dovere per tutti i cittadini del pianeta.

 

 

 LA POVERTÀ IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

UN CANTO PER LA POVERA GENTE

di Alfredo Bondi (?-?)

 

Vorrei fare un canto

- un canto per la povera gente -

un canto di poche parole,

di parole da niente

ma che vadano dritte

al cuore

 

un canto che sapesse

di crudo sasso

di pane e di cipolla

del piccone e della vanga

 

un canto che dicesse

il pianto dell'umile gente

- un pianto forte

senza lagrime -

 

un canto che suonasse

come un vecchio e triste valzer

da organetto ambulante,

un suono senza note

un canto senza parole

un canto fatto di niente

per la povera gente

 

un canto triste

 

un canto grande!

 

(da "I canti d'un bimbo malato", C.L.E.T., Napoli 1939, p. 67)

 

 

 

 

LA POVERTÀ È UN MIRACOLO

di Roberto Carifi (1948)

 

La povertà è un miracolo

di queste sciarpe nere,

la malattia che si arrende

quando la ringraziamo in rue St. Honoré

e si comincia a esistere proprio adesso

con la rovina dichiarata a bassa voce

mentre codesta lingua non è più straniera

e morte, nel mio tedesco, è una preghiera.

 

(da “Occidente”, Crocetti, Milano 1990, p. 39)

 

 

 

 

POVERTÀ

di Tullio da Consalvatico (pseud. di Tullio Pascucci, 1901-1980)

 

Un giorno ch'ero tanto

solo, mi dissi:

Sono povero!

e mi venne

da piangere.

Oh Signore, finché date

lacrime alle vostre

creature, potranno esse

dirsi povere?

 

(da «Quaderni di Poesia», 25 gennaio 1931)

 

 

 

 

 

POVERTÀ COME LA SERA

di Alfonso Gatto (1909-1976)

 

Torna povera d'amore

nel ricordo l'erba e a sera

reca solo quest'odore

della morta primavera,

 

questi prati freschi al velo

della corsa che negli occhi

dei bambini è quasi il cielo,

questo sogno che non tocchi

 

liberandolo in segreto

come l'aria dei tuoi colli.

Resti limpida se lieto

di tristezza e d'aria volli

 

povertà come la sera

per spogliarti sino al volto,

sino agli occhi in cui dispera

questa luce, se t'ascolto

 

vana ai limiti del cielo

nel clamore aperta e rosa

come nube che al suo gelo

torna vaga e si riposa.

 

Resti povera d'oblio

lungo il prato che al suo muro

di celeste imbianca, addio,

nel lasciarti anche il futuro

 

smemorata voce annotta.

 

(da "Poesie", Jaca Book, Milano 1997, pp. 33-34)

 

 

 

 

POVERTÀ

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Quando non avrò più niente

allora sarò povero povero,

più della chiocciola

che gira con il suo castello

come  arrotino,

più del rospo che prende il sole

come un lebbroso senza fame

sul marciapiede, contro il muro.

Ma che cosa ha la lucciola cerinaia?

E non è povero

anche l'usignuolo emigrante?

Penso che cosa farò,

che ci son tante cose

che possono far quelli

che non sanno far nulla

che non hanno più nulla.

Se facessi il lustrascarpe?

Potrei anche tenere

una cassetta di candele....

Se imparassi a suonare l'organino?

Se facessi il pastore?

Deve esser bello mungere le pecore

portare in collo

i belanti agnellini

piantar lo stazzo nel chiaror di luna.

Andrei col gregge per le vie maestre,

mi lascierei crescere la barba,

porterei il lunghissimo mantello

di pesante bigello,

farei la calza in mezzo ai prati,

andrei a vender la ricotta ed il formaggio,

avrei un cane

che mi vorrebbe bene.

Non potrei fare lo spazzino?

Andare

di paese in paese

con la mia mercanzia ;

specchi tascabili,

pettini, spilli, nastri, fazzoletti, saponette,

poveri oggetti di chincaglieria ;

contrattare con le ragazze

bramose intorno al sacco aperto,

tirare il soldo,

fare qualche regalo

ai clienti fedeli.

E gettar la mia voce triste

per la campagna : — Lo spazzino! spazzino!...

Esser fratello dell' arrotino

dello spazzacamino del magnano

dello zingaro del bottaio....

Dormir la notte in un fienile

mangiare sopra un paraccarro

riposare dietro una siepe in fiore....

E salutare con la mano i mendicanti,

come dei vecchi amici,

che vanno sotto le finestre

delle case

a fare i loro auguri.

Potrei fare lo strillone

in qualche gran città,

gridare le notizie di disgrazie

alle signore, ch'escon dal teatro

con brividi di gemme,

correre anch'io

dietro una lucida carrozza

agitando il foglio bianco

come un fazzoletto per l'addio.

E se facessi i burattini

per i bambini?

Qualche cosa farò

venderò qualche cosa anch' io.

Quando non avrò più niente

allora sarò povero povero...

 

(da “Poesie scelte”, Taddei, Ferrara 1920, pp. 243-245)

 

 

 

 

ODE ALLA POVERTÀ

di Fausto Maria Martini (1886-1931)

 

Un tempo, pel mio vivere giocondo,

io chiesi, o povertà, più d'un tesoro:

tanto d'argento io chiesi, e tanto d'oro,

quanto ne manca ai poveri del mondo!

 

Fui solo, un tempo: oggi l'industre amica

empie di luce la mia stanza oscura:

io scrivo, ella lavora e canta, e dura

da mane a sera l'abile fatica.

 

Canta: «Spirto gentil!» e qualche volta

anche sorprendo in mezzo ai versi miei,

il suo: «Brillasti un dì, ma ti perdei...»

ché, s'io pur finga, la mia mente ascolta.

 

Ogni giorno così m'è caro, in grazia

di tua santa presenza, o povertà:

onde t'invoco: per nostra umiltà,

di poca gioia l'anima si sazia.

 

tu concedi a noi, – poiché lontane

son l'aspre voglie, e il cuore t'è fedele,

poiché l'amante mi prepara il miele,

e con sue mani forma e appresta il pane,

 

poiché ella è dolce come una colomba,

e alla serenità pura m'invita. –

che tanta terra basti per la vita,

quanta ne basta per la nostra tomba!

 

(da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910, pp. 59-60)

 

 

 

 

TROVARSI IN UNA CITTÀ SCONOSCIUTA…

di Pietro Mignosi (1895-1937)

 

Trovarsi in una città sconosciuta, di sera,

il vestito frusto, la barba incolta e il cuore laggiù

che per andarci il treno corre affannato tre giorni...

 

Ma non c'è niente di nostro in questa città maledetta?!

Tutti stranieri al mio cuore, tutti felici questi uomini...

Neppure un pezzente cui dare un soldo e un sorriso

e averne in cambio una parola amorosa!

 

Ma nel suburbio ho incontrato - le Chiese a quest'ora son chiuse -

una chiesetta nerastra con un sol occhio di luce.

 

Entro. Tutti i poveri di Roma si son qui dati convegno:

mi riconoscono, o Dio! m'han tutti sorriso quei poveri!

Ma senza rivolgere il capo. Assorti. Ché m'aspettavano...

 

(da "Dialettica", Priulla, Palermo 1924, p. 35)

 

 

 

 

POVERTÀ

di Mariano Rugo (1895-1977)

 

Ogni essere vivente

prende il suo poco bene

(ciò che dall’indigente

vita ci spetta e viene),

 

prende in fretta un minuzzolo

dove lo trova: come

questi poveri passeri,

nel fango senza nome.

 

(da «Quadrivio», 23 gennaio 1943)

 

 

 

 

POVERTÀ

di Lisa Salvadori (?-?)

 

Non sono io signora e castellana

Che piega I servi a sua potenza fiera,

Io son colei che volle una sua vana

Idea seguire, io sono qui straniera.

 

Vengo da reggia povera e lontana

E reco l’orma della mia severa

Vita raminga, folle castellana

Anch’io son forse di mia reggia altera.

 

Che val se non di gemme è rivestita

La mia fragrante giovinezza? Assorte

Vegliano le pupille della vita.

 

Attendi in tua serena povertà

Dicono le pupille; ombra di morte

Te non oltraggia con la sua viltà.

 

Morte te non disfiora, te che tenti

Piegar la Gloria, te che sai l’inquieto

Agitarsi del mondo, e non paventi

 

Ira né oltraggio e nulla speri, nulla

Avvolta come in magico segreto

Col tuo volto di sfinge e di fanciulla.

 

Morte per te non batte oscura l’ora

Ma quando l’ali inalzerà la Gloria

Sul tuo gran sogno e griderai, signora

 

Di splendido castello, ai cieli, al mondo

Il magico stupor di tua vittoria,

L’ombra verrà dal suo regno profondo.

 

(da «Ars Italica», 25 marzo 1925)

 

 

 

 

LUME DI POVERTÀ

di David Maria Turoldo (1916-1992)

 

Signore, non ti chiedo di avere

quello che gli altri hanno;

essi non sanno

il caldo

lume di questa povertà.

 

Nulla è il loro possesso

di fronte alla nostra

pena d'essere spogli.

 

(da "O sensi miei... Poesie 1948-1988", Rizzoli, Milano 2002, p. 36)

 

Thomas B. Kennington, "The pinch of poverty"
(da questa pagina web)




domenica 19 febbraio 2023

Poeti dimenticati: Mario Maria Martini

 

Nacque a Genova nel 1880 e ivi morì nel 1953. Prosatore, drammaturgo e traduttore, come poeta esordì con una raccolta incentrata sulle vicende della Grande Guerra, alla quale partecipò. Convinto dannunziano, fu tra i protagonisti dell'impresa di Fiume. Fondò e diresse varie riviste, tra le quali Caffaro e Le Opere e i Giorni. I suoi versi risentono di influssi parnassiani e decadenti; in particolare, si nota una vicinanza - per temi ed atmosfere - alla poesia dei crepuscolari.

 

 

 

 

 

Opere Poetiche

 

"Fiamme", Sonzogno, Milano 1918.

"Immagini allo specchio", Alpes, Milano 1926.

"Il cuore del tempo", Libreria Bozzi, Genova 1935.

 

 


 

 

 

Testi

 

 

 

DOLORE

 

Dolore, io ben conosco il tuo segno,

poiché quello che in prima era tormento

or s'è cangiato in un rodere lento,

ch'è morso e lacerìo senza ritegno.

 

Schiavo perduto sono in cieco regno,

straccio logoro in preda ad acqua e a vento,

senza speranza più né pentimento

nelle tue mani abbandonato in pegno.

 

Or dimmi tu se in questa atroce guerra

vuoi perdurarmi per la mia tortura

in fin ch'io spenga l'ultima parola;

 

o vuoi che in grembo alla materna terra

m'affretti volontaria ostia immatura

che nel disfacimento si consola.

 

(da «Le Opere e i Giorni», febbraio 1927)

 

 

 

 

FÒLE

 

Fòle, fòle d'ogni colore

come i fiori del campo,

innumerevoli come le stelle

e, talune, anche più belle,

 

intorno al vecchio mio cuore,

stanco senza più scampo,

il vostro laccio tessete

e, poco a poco, stringete.

 

Null'altro che fòle cercai

nella vita errabonda:

ho vissuto di fòle

come si vive di sole.

 

Vaghe fòle che amai,

che tornate come l'onda

al mio cuor di macigno,

ma per voi dischiuso scrigno,

 

verità siete voi certa

più chiara di ogni saggezza:

Dio, musica, pena

ond'è colma ogni vena;

 

sul cupo mistero aperta

finestra; superstite ebbrezza

dagli obliati Miti,

nei deserti infiniti

 

della realtà scomparsi;

pòlline rinascente,

che da ignote contrade

rifiorisce per tutte le strade;

 

fòle onde fiero riarsi

nella storia di mia gente,

donde sgorgò la canzone,

che la mia vita compone,

 

or che il Tempo mi conduce

colà dove la mia sfinge

deporrà dall'ambiguo viso

l'enigma del suo sorriso,

 

sia in me la vostra luce,

che dall'eterno attinge

immortale splendore

sovra l'umano errore.

 

(da "Il cuore del tempo", Libreria Bozzi, Genova 1935, pp. 72-74)

 

domenica 12 febbraio 2023

Riviste: "La Settimana"

 

La Settimana è il titolo di una rivista letteraria pubblicata a Napoli tra l’aprile del 1902 ed il febbraio del 1904. La direzione fu sempre della celebre scrittrice napoletana Matilde Serao, che in verità non riuscì mai a farla decollare; tant’è vero che, dopo neppure due anni di vita, la Settimana interruppe le sue pubblicazioni. Pure, nelle sue pagine, scrissero prose, versi, saggi critici e testi teatrali, personaggi importanti dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento; tra di essi si ricordano Luigi Capuana, Giovanni Verga, Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Giacosa, Giovanni Pascoli, Adolfo De Bosis, Gabriele D’Annunzio, Diego Angeli, Angiolo Orvieto, Cosimo Giorgieri Contri, Ferdinando Russo, Francesco Pastonchi, Tito Marrone ecc. La stessa Serao, collaborò costantemente alla rivista con alcuni frammenti d’indubbio valore. Lo scarso successo della rivista, che si verificò fin dalle prime uscite, spinse, gradualmente, molti scrittori ad allontanarsi da essa; a causa di ciò, la rivista, negli ultimi numeri ormai presentava un repertorio zeppo di sconosciuti o quasi, e, conseguentemente, fu ben presto destinata a chiudere. Ecco, infine, tre poesie piuttosto famose, pubblicate dalla rivista La Settimana.

 

 


 

 

LA SPICA

di Gabriele D'Annunzio

 

Laudata sia la spica nel meriggio!

Ella s'inclina al Sole che la cuoce,

verso la terra onde umida erba nacque;

s'inclina e più s'inclinerà domani

verso la terra ove sarà colcata

col gioglio eh'è il malvagio suo fratello,

con la vena selvaggia

col cìano cilestro

col papavero ardente,

cui l'uom non seminò, in un mannello.

 

E di tal purità che pare immune,

sol nata perché l'occhio uman la miri;

sì bella ordinanza che par forte.

Le sue granella sono ripartite

con la bella ordinanza che c'insegna

il velo della nostra madre Vesta.

Tre son per banda alterne;

minore è il granel medio;

ciascuno ha la sua pula;

d'una squammetta nasce la sua resta.

 

Matura anco non è. Verde è la resta

dove ha il suo nascimento dalla squamma,

però tutt’oro ha la pungente cima.

E verdi lembi ha la già secca spoglia

dove il granello a poco a poco indura

ed assume il color della focaia.

E verdeggia il festuco

di pallido verdore

ma la stipula è bionda.

S'odon le bestie rassodare l'aia.

 

Dice il veglio: «Ne' luoghi maremmani

già gli uomini cominciano segare.

E in alcuna contrada hanno abbicato.

Tu non comincerai, se tu non veda

tutto il popolo eguale della messe

egualmente risplender di rossore».

E la spica s'arrossa.

Brilla il fil nella falce,

negreggia il rimanente,

di stoppia incenerita è il suo colore.

 

E prima la sudata mano e poi

il ferro sentirà nel suo festuco

la spica; e in lei saran le sue granella,

in lei sarà la candida farina

che la pasta farà molto tegnente

e farà pane che molto ricresce.

Ma la vena selvaggia

ma il cìano cilestro

ma il papavero ardente

con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

 

E la vena pilosa, or quasi bianca,

è tutta lume e levità di grazia;

e il cìano rassembra santamente

gli occhi cesii di Palla madre nostra;

e il papavero è come il giovenile

sangue che per ispada spiccia forte;

e tutti sono belli,

belli sono e felici

e nel giorno innocenti;

e l'uom non si dorrà di loro sorte.

 

E saranno calpesti e della dolce

suora, che tanto amarono vicina,

che sonar per le reste quasi esigua

citara al vento udirono, disgiunti;

e sparsi moriran senza compianto

perché non dànno il pane che nutrica.

Ma la vena selvaggia

e il cìano cilestro

e il papavero ardente

laudati sien da noi come la spica!

 

(da «La Settimana», 3 agosto 1902)

 

 

 

 

AMOR AMORUM

di Antonio Fogazzaro

 

Disse il Poeta: «Che vuoi tu da me?

Pietra son fatto e Sepolcro mi chiamo»

Disse la Bella: «Ed io Sepolcro ti amo

Viva mi voglio seppellire in te».

 

Disse il Poeta: «Molte son sepolte

Nel cuore mio di gel, posto non v'ha».

Disse la Bella: «Forse de le molte

Una cortese al mio pregar sarà».

 

Sul cuor di gel posò la bocca ardente

le sorelle dolcissima pregò.

Sola levossi allor tacitamente

Colei che prima egli di amore amò.

 

Colei che vita ed anima e bellezza

Come polvere e cenere gli offrì,

Perché egli avesse un'ora di dolcezza

Tacitamente lagrimando uscì.

 

(da «La Settimana», 16 novembre 1902)

 

 

 

 

NEBBIA

di Giovanni Pascoli

 

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

          sull'alba,

da' lampi notturni e da' crolli

          d'aeree frane!

 

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch'è morto!

Ch' io veda soltanto la siepe

          dell'orto,

la mura ch'ha piene le crepe

          di valeriane.

 

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch'io veda i due peschi, i due meli,

          soltanto,

che dànno i soavi lor mieli

          pel nero mio pane.

 

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch'ami e che vada!

Ch'io veda là solo quel bianco

          di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

          don don di campane...

 

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involate al volo

del cuore! Ch'io veda il cipresso

          là, solo,

qui, solo quest' orto, cui presso

          sonnecchia il mio cane.

 

(da «La Settimana», 3 maggio 1903)