La Settimana è il titolo di una rivista letteraria pubblicata a Napoli tra l’aprile del 1902 ed il febbraio del 1904. La direzione fu sempre della celebre scrittrice napoletana Matilde Serao, che in verità non riuscì mai a farla decollare; tant’è vero che, dopo neppure due anni di vita, la Settimana interruppe le sue pubblicazioni. Pure, nelle sue pagine, scrissero prose, versi, saggi critici e testi teatrali, personaggi importanti dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento; tra di essi si ricordano Luigi Capuana, Giovanni Verga, Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Giacosa, Giovanni Pascoli, Adolfo De Bosis, Gabriele D’Annunzio, Diego Angeli, Angiolo Orvieto, Cosimo Giorgieri Contri, Ferdinando Russo, Francesco Pastonchi, Tito Marrone ecc. La stessa Serao, collaborò costantemente alla rivista con alcuni frammenti d’indubbio valore. Lo scarso successo della rivista, che si verificò fin dalle prime uscite, spinse, gradualmente, molti scrittori ad allontanarsi da essa; a causa di ciò, la rivista, negli ultimi numeri ormai presentava un repertorio zeppo di sconosciuti o quasi, e, conseguentemente, fu ben presto destinata a chiudere. Ecco, infine, tre poesie piuttosto famose, pubblicate dalla rivista La Settimana.
LA SPICA
di Gabriele
D'Annunzio
Laudata sia la
spica nel meriggio!
Ella s'inclina al
Sole che la cuoce,
verso la terra
onde umida erba nacque;
s'inclina e più
s'inclinerà domani
verso la terra
ove sarà colcata
col gioglio eh'è
il malvagio suo fratello,
con la vena
selvaggia
col cìano
cilestro
col papavero
ardente,
cui l'uom non
seminò, in un mannello.
E di tal purità
che pare immune,
sol nata perché
l'occhio uman la miri;
sì bella
ordinanza che par forte.
Le sue granella
sono ripartite
con la bella
ordinanza che c'insegna
il velo della
nostra madre Vesta.
Tre son per banda
alterne;
minore è il
granel medio;
ciascuno ha la
sua pula;
d'una squammetta
nasce la sua resta.
Matura anco non
è. Verde è la resta
dove ha il suo
nascimento dalla squamma,
però tutt’oro ha
la pungente cima.
E verdi lembi ha
la già secca spoglia
dove il granello
a poco a poco indura
ed assume il
color della focaia.
E verdeggia il
festuco
di pallido
verdore
ma la stipula è
bionda.
S'odon le bestie
rassodare l'aia.
Dice il veglio:
«Ne' luoghi maremmani
già gli uomini
cominciano segare.
E in alcuna contrada
hanno abbicato.
Tu non
comincerai, se tu non veda
tutto il popolo
eguale della messe
egualmente
risplender di rossore».
E la spica
s'arrossa.
Brilla il fil
nella falce,
negreggia il
rimanente,
di stoppia
incenerita è il suo colore.
E prima la sudata
mano e poi
il ferro sentirà
nel suo festuco
la spica; e in
lei saran le sue granella,
in lei sarà la
candida farina
che la pasta farà
molto tegnente
e farà pane che
molto ricresce.
Ma la vena
selvaggia
ma il cìano
cilestro
ma il papavero
ardente
con lei cadranno,
ahi, vani su le secce.
E la vena pilosa,
or quasi bianca,
è tutta lume e
levità di grazia;
e il cìano
rassembra santamente
gli occhi cesii
di Palla madre nostra;
e il papavero è
come il giovenile
sangue che per
ispada spiccia forte;
e tutti sono
belli,
belli sono e
felici
e nel giorno
innocenti;
e l'uom non si
dorrà di loro sorte.
E saranno
calpesti e della dolce
suora, che tanto
amarono vicina,
che sonar per le
reste quasi esigua
citara al vento
udirono, disgiunti;
e sparsi moriran
senza compianto
perché non dànno
il pane che nutrica.
Ma la vena
selvaggia
e il cìano
cilestro
e il papavero
ardente
laudati sien da
noi come la spica!
(da «La Settimana», 3 agosto 1902)
AMOR AMORUM
di Antonio
Fogazzaro
Disse il Poeta:
«Che vuoi tu da me?
Pietra son fatto
e Sepolcro mi chiamo»
Disse la Bella:
«Ed io Sepolcro ti amo
Viva mi voglio
seppellire in te».
Disse il Poeta:
«Molte son sepolte
Nel cuore mio di
gel, posto non v'ha».
Disse la Bella:
«Forse de le molte
Una cortese al
mio pregar sarà».
Sul cuor di gel
posò la bocca ardente
le sorelle
dolcissima pregò.
Sola levossi
allor tacitamente
Colei che prima
egli di amore amò.
Colei che vita ed
anima e bellezza
Come polvere e
cenere gli offrì,
Perché egli
avesse un'ora di dolcezza
Tacitamente
lagrimando uscì.
(da «La Settimana», 16 novembre 1902)
NEBBIA
di Giovanni
Pascoli
Nascondi le cose
lontane,
tu nebbia
impalpabile e scialba,
tu fumo che
ancora rampolli,
sull'alba,
da' lampi
notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose
lontane,
nascondimi quello
ch'è morto!
Ch' io veda
soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha
piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose
lontane:
le cose son ebbre
di pianto!
Ch'io veda i due
peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi
lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose
lontane
che vogliono
ch'ami e che vada!
Ch'io veda là
solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho
da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose
lontane,
nascondile,
involate al volo
del cuore! Ch'io
veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'
orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
(da «La
Settimana», 3 maggio 1903)
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