domenica 12 febbraio 2023

Riviste: "La Settimana"

 

La Settimana è il titolo di una rivista letteraria pubblicata a Napoli tra l’aprile del 1902 ed il febbraio del 1904. La direzione fu sempre della celebre scrittrice napoletana Matilde Serao, che in verità non riuscì mai a farla decollare; tant’è vero che, dopo neppure due anni di vita, la Settimana interruppe le sue pubblicazioni. Pure, nelle sue pagine, scrissero prose, versi, saggi critici e testi teatrali, personaggi importanti dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento; tra di essi si ricordano Luigi Capuana, Giovanni Verga, Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Giacosa, Giovanni Pascoli, Adolfo De Bosis, Gabriele D’Annunzio, Diego Angeli, Angiolo Orvieto, Cosimo Giorgieri Contri, Ferdinando Russo, Francesco Pastonchi, Tito Marrone ecc. La stessa Serao, collaborò costantemente alla rivista con alcuni frammenti d’indubbio valore. Lo scarso successo della rivista, che si verificò fin dalle prime uscite, spinse, gradualmente, molti scrittori ad allontanarsi da essa; a causa di ciò, la rivista, negli ultimi numeri ormai presentava un repertorio zeppo di sconosciuti o quasi, e, conseguentemente, fu ben presto destinata a chiudere. Ecco, infine, tre poesie piuttosto famose, pubblicate dalla rivista La Settimana.

 

 


 

 

LA SPICA

di Gabriele D'Annunzio

 

Laudata sia la spica nel meriggio!

Ella s'inclina al Sole che la cuoce,

verso la terra onde umida erba nacque;

s'inclina e più s'inclinerà domani

verso la terra ove sarà colcata

col gioglio eh'è il malvagio suo fratello,

con la vena selvaggia

col cìano cilestro

col papavero ardente,

cui l'uom non seminò, in un mannello.

 

E di tal purità che pare immune,

sol nata perché l'occhio uman la miri;

sì bella ordinanza che par forte.

Le sue granella sono ripartite

con la bella ordinanza che c'insegna

il velo della nostra madre Vesta.

Tre son per banda alterne;

minore è il granel medio;

ciascuno ha la sua pula;

d'una squammetta nasce la sua resta.

 

Matura anco non è. Verde è la resta

dove ha il suo nascimento dalla squamma,

però tutt’oro ha la pungente cima.

E verdi lembi ha la già secca spoglia

dove il granello a poco a poco indura

ed assume il color della focaia.

E verdeggia il festuco

di pallido verdore

ma la stipula è bionda.

S'odon le bestie rassodare l'aia.

 

Dice il veglio: «Ne' luoghi maremmani

già gli uomini cominciano segare.

E in alcuna contrada hanno abbicato.

Tu non comincerai, se tu non veda

tutto il popolo eguale della messe

egualmente risplender di rossore».

E la spica s'arrossa.

Brilla il fil nella falce,

negreggia il rimanente,

di stoppia incenerita è il suo colore.

 

E prima la sudata mano e poi

il ferro sentirà nel suo festuco

la spica; e in lei saran le sue granella,

in lei sarà la candida farina

che la pasta farà molto tegnente

e farà pane che molto ricresce.

Ma la vena selvaggia

ma il cìano cilestro

ma il papavero ardente

con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

 

E la vena pilosa, or quasi bianca,

è tutta lume e levità di grazia;

e il cìano rassembra santamente

gli occhi cesii di Palla madre nostra;

e il papavero è come il giovenile

sangue che per ispada spiccia forte;

e tutti sono belli,

belli sono e felici

e nel giorno innocenti;

e l'uom non si dorrà di loro sorte.

 

E saranno calpesti e della dolce

suora, che tanto amarono vicina,

che sonar per le reste quasi esigua

citara al vento udirono, disgiunti;

e sparsi moriran senza compianto

perché non dànno il pane che nutrica.

Ma la vena selvaggia

e il cìano cilestro

e il papavero ardente

laudati sien da noi come la spica!

 

(da «La Settimana», 3 agosto 1902)

 

 

 

 

AMOR AMORUM

di Antonio Fogazzaro

 

Disse il Poeta: «Che vuoi tu da me?

Pietra son fatto e Sepolcro mi chiamo»

Disse la Bella: «Ed io Sepolcro ti amo

Viva mi voglio seppellire in te».

 

Disse il Poeta: «Molte son sepolte

Nel cuore mio di gel, posto non v'ha».

Disse la Bella: «Forse de le molte

Una cortese al mio pregar sarà».

 

Sul cuor di gel posò la bocca ardente

le sorelle dolcissima pregò.

Sola levossi allor tacitamente

Colei che prima egli di amore amò.

 

Colei che vita ed anima e bellezza

Come polvere e cenere gli offrì,

Perché egli avesse un'ora di dolcezza

Tacitamente lagrimando uscì.

 

(da «La Settimana», 16 novembre 1902)

 

 

 

 

NEBBIA

di Giovanni Pascoli

 

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

          sull'alba,

da' lampi notturni e da' crolli

          d'aeree frane!

 

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch'è morto!

Ch' io veda soltanto la siepe

          dell'orto,

la mura ch'ha piene le crepe

          di valeriane.

 

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch'io veda i due peschi, i due meli,

          soltanto,

che dànno i soavi lor mieli

          pel nero mio pane.

 

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch'ami e che vada!

Ch'io veda là solo quel bianco

          di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

          don don di campane...

 

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involate al volo

del cuore! Ch'io veda il cipresso

          là, solo,

qui, solo quest' orto, cui presso

          sonnecchia il mio cane.

 

(da «La Settimana», 3 maggio 1903)

 

 

 

 

 

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