domenica 5 febbraio 2023

La pazzia nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La pazzia è un argomento un po’ trascurato dai poeti simbolisti e decadenti italiani; fa eccezione Sergio Corazzini, che non fa mancare, nelle sue prime raccoltine di versi, almeno una poesia in cui si parli di follia; questa può nascere in un giovane fortemente innamorato, che non riesce ad elaborare la perdita della ragazza morta prematuramente; può essere altresì rappresentata da un sagrestano che decide di suicidarsi all’interno di una chiesa; e può infine esplicitarsi in un soliloquio di un uomo disperato e solo, che si confessa e si racconta, rivolgendosi al cielo che riflette le prime luci dell’alba. Nei versi di Gian Pietro Lucini (un frammento tratto dal poema La Cantata dell’Alba), in un ambientazione quattrocentesca, il personaggio detto “Pazzo”, interpreta la voce della coscienza, che svela i bassi intenti di chi si vuol definire innamorato; nello stesso tempo, ammonisce i protagonisti della vicenda, e li invita a ricordare l’estrema precarietà della vita umana. In Demenza di Umberto Saffiotti, un uomo che sta sul bordo di una fontana in cui si trovano delle sirene di marmo, ha la certezza che una di esse si animi, fremendo al contatto delle gocce d’acqua che le cadono addosso dalla fontana; e, anche lui fremente, le bacia il petto e a sua volta viene baciato dalla statua. In Sintesi, Tito Marrone parla di una simbolica e sinistra “reggia della follia”, dove personaggi a loro volta simbolici – presi dal mondo delle maschere e della leggenda – si sfrenano in danze di ogni tipo, mentre fuori, muti stanno a guardare esseri umani ridotti in miseria. In Il pazzo di Federico De Maria, si parla di un luogo misterioso, in cui visse qualcuno che non c’è più, e che ha lasciato, in chi lo ha conosciuto vivendo a sua volta in quel luogo, dei ricordi inquietanti. Guido Ruberti in Nevrastenia, rivolgendosi ad una non precisata amica, la invita ad abbandonarlo al suo triste destino di demente e di futuro suicida. Francesco Scaglione infine, in Le litanie dei pazzi, fa parlare i malati di mente che si trovano all’interno di un manicomio, e che confidano ad un enigmatico signore vestito sempre di nero che si aggira nelle stanze del luogo di cura, di non essere affatto pazzi.

 

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Sergio Corazzini: "Follie" in "Dolcezze" (1904).

Sergio Corazzini: "La chiesa venne riconsacrata..." in "L'amaro calice" (1905).

Sergio Corazzini: "Dai «Soliloqui di un pazzo»" in "Le aureole" (1905).

Federico De Maria: "Il pazzo" in "La Leggenda della Vita" (1909).

Corrado Govoni "Occhi della follia" in "Gli aborti" (1907).

Gian Pietro Lucini: "Il Pazzo (cantando e suonando)" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Tito Marrone: "Sintesi" in «Le scimmie e lo specchio», 1946.

Guido Ruberti: "Nevrastenia" in "Le Evocazioni" (1909).

Umberto Saffiotti: "Demenza" in "Le Fontane" (1902).

Francesco Scaglione: "Le litanie dei pazzi" in "Le litanie" (1911).

 

 

 

Testi

 

LA CHIESA VENNE RICONSACRATA...

di Sergio Corazzini

 

Il sagrestano pazzo

traversò la chiesa oscura,

lentamente, con il mazzo

delle chiavi appeso alla cintura.

 

I frati, ne le piccole celle,

dicono le orazioni

de la sera, poi, quando le stelle

prima de l’Ave Maria

stanno su le cose terrene,

ogni monaco viene

al suo piccolo letto,

nitido come un altare,

e accende il luminetto

a la Vergine Maria,

che non fa che lagrimare

perché ha sette spade in core

che le dànno acerba doglia,

sempre acerba e sempre lenta!

Poi ognuno si spoglia,

e ognuno s’addormenta

nella pace del Signore.

 

L’acquasantiera di bronzo, tonda,

sembra un occhio lagrimoso

che il suo pianto silenzioso

a stille su le fronti de gli uomini diffonda.

 

I confessionali, con le loro

tendine verdi un po' sciupate,

con le piccole grate

gialle che ne l’ombra sembrano d’oro,

sonnecchiano allineati,

ognuno con le sue due candele

spente ai lati.

 

Sono essi, alveari ove ronzino, api, i peccati,

e l’assoluzione sia miele?

 

Un rosario di granatine

a i piedi del Crocifisso morente

sembra sangue gocciato lentamente

dalla fronte coronata di spine.

 

Un piccolo libro delle

Massime Eterne fu dimenticato

sopra una sedia, aperto.

È logoro. Certo,

è d’una delle solite beghine

che vengono la sera.

Fra le pagine c’è un Santo:

san Giovanni decollato;

dietro il Santo, una preghiera.

Il libro dimenticato

aperto, è l’unica bocca che parli

nella chiesa silenziosa,

è l’unico occhio che veda,

nella chiesa oscura,

la morte della creatura.

 

Il sagrestano recise la grossa

corda per cui pendeva davanti la figura

di Cristo, la lampada rossa

con la sua fiamma quieta e pura.

La lampada cadde con sorda

percossa su le pietre sepolcrali;

l’uomo con tre moti uguali

girò intorno al collo la corda

e penzolò nel vuoto.

Davanti il Crocifisso

sembrò un macabro voto

improvvisamente sorto

fra il Cielo e l’Abisso.

 

Poi che la lampada non c’era più

biancheggiò d’avanti Gesù,

piamente la cotta del sagrestano morto.

 

(da "L'amaro calice", 1905)

 

 

 

 

IL PAZZO

di Federico De Maria

 

Son già passati molti anni

ch'egli fu qui: e da allora

nessuno è più ritornato

fra queste mura — ma ancora

vi resta come il sentore

della vita sua senza affanni,

senza gioia e senza dolore.

 

Qui riman tutto adesso

immutato, come ai suoi dì.

Ogni cosa mi parla di lui.

Mi si rivela sempre qualche nuovo

tratto dell'anima sua:

e lo riconosco così

lucidamente che ne ò quasi terrore.

Talor mi domando se fui

in que' giorni qui, a viverci io stesso,

a vivere della sua vitia.

Mi affaccio per la finestra

al giardino, chiuso lontano

da i monti, ed a poco a poco

mi sento prendere dal suo pensiero,

con qualche ricordanza sbiadita

di sensazioni passate...

Tutto è gigante nel piano

arboreo: — le rame assumono

fantastiche apparenze vive

con enormi occhi di fuoco...

I monti nudi ed azzurri

s' allontanan, ma appaion più grandi.

prendon forne sensitive,

quasi il dormente scheletro d'un antico mostro orrendo.

Nell'aria passan susurri

ignoti, che intendo...

 

Mi affaccio sopra la strada.

E le case son tutto un presepe

infantile... i veicoli enormi

tirati da enormi animali

portan degli esseri informi

e minuscoli a cui il mio pensiero non bada...

E tutto fugge lungo ampi viali

infiniti... Guardo il mio letto,

ed è immenso come uno sgomento...

Il mio bicchiere io non oso

toccarlo, perché nel suo cavo

racchiude un invisibile mondo...

Io solo non vivo: io mi sento

lieve lieve, come una intelligenza

incorporea, sospesa nel vuoto

dell'aere profondo...

E innanzi mi riddano, senza

posa, con stravagante malìa,

quattro parole scheletriche, che

nereggian scritte in fondo

a un armadio (da lui ? da me ?)

— parole d'un senso terribile e ignoto:

«TUTTO FINIRÀ PER ANEMIA»

 

(da "La leggenda della vita", 1909)



Emile Wauters, "Madness of Hugo van der Goes"
(da questa pagina web)


domenica 29 gennaio 2023

La poesia di Adriano Grande

 

Adriano Grande (Genova 1897 - Roma 1972), così come Giorgio Vigolo e Diego Valeri, è uno dei migliori poeti italiani del Novecento che, per motivi a me sconosciuti, è stato troppo spesso trascurato dai curatori di antologie e dagli editori della nostra penisola. Questi ultimi, in particolare – a parte rare eccezioni – hanno finito per dimenticare il poeta ligure; tant’è vero che, nel giorno in cui pubblico questo post, ancora non esiste un volume che raccolga l’intera opera poetica di Grande. Ricordo, che, nei primi anni dell’ultima decade del XX secolo, lessi alcuni versi di Grande all’interno di un’antologia dove, in verità, si trovavano ben poche pagine dedicategli; ciò mi bastò per “scoprirlo”, ovvero per identificare la sua grandezza; da allora non smisi mai di cercare, negli scaffali delle librerie romane, almeno un libro di versi da lui pubblicato (fosse anche una ristampa); mai mi riuscì di trovarne alcuno. Ora, nella mia biblioteca ci sono sette volumi con le poesie di Grande, che con gli anni acquistai e che vado a leggere e rileggere spesso, poiché ancora oggi la sua poesia mi piace moltissimo.

Per meglio comprendere il fare poetico di Grande, mi pare sia il caso di riportare una sua frase, presente nell’antologia Lirici nuovi (1941), che è anche una dichiarazione di poetica:

 

 «Poetare, infondo, significa sempre affidarsi in qualche modo all’ineffabile, ma con gli strumenti e l’umiltà di un artigiano»

 

Quindi, secondo Grande, la poesia nasce da qualcosa d’indefinibile e d’inesprimibile, e la sua struttura si deve costruire umilmente, così come fa l’artigiano quando crea un oggetto. Questa opinione, si rispecchia in tutto il percorso poetico di Grande: sempre fedele ad una ben definita linea, che non ha mai preso in considerazione mode o tendenze. Certo, anche Grande fu influenzato dai nostri migliori poeti del Novecento e della fine dell’Ottocento, come D’Annunzio, Sbarbaro Novaro, Cardarelli e Montale; senza dubbi può essere facilmente associato alla cosiddetta “Linea ligure”, a cui dedicai un altro post qualche tempo fa, e ciò è evidente soprattutto per il fatto che Grande predilige la descrizione di paesaggi della sua regione natale. Eppure, l’unicità poetica di Grande rimane ben rintracciabile dalla raccolta d’esordio, intitolata Avventure (1927) agli ultimissimi versi che compaiono nell’unica antologia poetica che lo riguardi, pubblicata qualche anno prima della sua scomparsa. Da non dimenticare, infine, che Grande ebbe il merito di fondare e dirigere due riviste letterarie della massima importanza, quali furono Circoli e Maestrale. Chiudo, riportando i titoli di tutte le opere poetiche di Grande, a cui seguono tre fra le sue migliori poesie.

 


Opere poetiche

 

“Avventure”, Edizioni del «Baretti», Torino 1927.

“La tomba verde”, Buratti, Torino 1929.

“Nuvole sul greto”, Edizioni di «Circoli», Genova 1933 (2° ed. 1938).

“Alla pioggia e al sole, Carabba, Lanciano 1935.

“Poesie in Africa”, Vallecchi, Firenze 1938.

“Strada al mare”, Vallecchi, Firenze 1943.

“Fuoco bianco”, Edizioni della Meridiana, Torino 1950.

“Preghiere di primo inverno”, Ubaldini, Roma 1951.

“Canto a due voci”, Maia, Siena 1954.

"Consolazioni", Edizioni del Fuoco, Roma 1955.

“Avventure e preghiere”, Ubaldini, roma 1955.

“Su sponde amiche”, Rebellato, Padova 1958.

“Stagioni a Roma”, Rebellato, Padova 1959.

“Acquivento”, Carpena, Sarzana 1962.

"La tomba verde e Avventure", Mondadori, Milano 1966.

“Poesie (1929-1969)”, Mursia, Milano 1970.

 

 


 

 

Testi


NEL GRETO

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

in me vivente trovare una pace

di tomba: o dove nacque

riconoscere l'onda

del canto.

 

Assai stagioni nel brusio del bosco

l'anima tacque, fonte

di breve corso. Accanto,

fresco di capelvenere, un crepaccio

pauroso l'inghiottiva: umido e verde,

la memoria ne serba il singhiozzare

come un rimorso.

 

Scampo non c'è, violata

esistenza: quel che un tempo

amavi a te ripetere nel fresco

silenzio, si distende

in torbida corrente

che troppo spesso stagna

lungo una frequentata

e rumorosa riva: l'accompagna

la polvere dei greti

che vorresti bagnare e non potrai.

 

Segreti più non hai

per me: su le tue sponde

nessuna minuziosa

e folta meraviglia

di felci e fronde impiglia i miei pensieri,

né delle fratte l'irsuto vigore

il tuo tremare a chi passa nasconde:

solo chi non ha sete

nel fondo del tuo corso può contare

le pietre.

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

tornare al mio geloso

segreto.

All'orlo di un crepaccio

nel mio fuggir le voci di natura

piangerei di vergogna:

ma tornerebbe un'acqua

la vita, trasparente nel silenzio.

 

Una rampogna m'ha sospinto a valle:

ascoltandola ho vinto la paura

ma ho lasciato il mio meglio alle spalle.

Ora vorrei che fosse la mia tomba

quella del mare, solenne: nel rombo

delle tempeste s'odono gridare

presso gli scogli i monti e le foreste.

 

(da "Nuvole sul greto", 2° Edizione, Edizioni di «Circoli», Genova 1938, pp. 35-37)

 

 

 

 

PARADISO PERDUTO

 

O Paradiso, il mio pensier dirupa,

nebbia di falda in falda

riscende,

sol ch'io l'alzi a toccar nella memoria

quella che un tempo, calda di puerile

speranza,

immagine di te mi componevo.

 

Io non so più quel che allora sapevo,

vanamente m'arrampico ai ricordi,

non ho più lena, istante non m'avanza

che la vile esistenza non s'appanni:

cresciuti

ormai già troppo, gli anni

m'affondan nella terra, come pioggia

e vento affondano tra l'erba i sassi.

 

Pure, la terra è bella, or che mi presta

occhi la fanciulletta

mia gaia per guardarla

come di primavera

guardano i fiori che sembran stupire

del tornare dell'alba

dopo la sera.

 

Ed ella, che per vivere s'appoggia

a me quasi alberello a una muraglia,

beve dalle parole di sua madre,

acqua di mattutino

cielo, la meraviglia delle fiabe:

ma dormendo si perde

in strade ove seguirla non possiamo.

 

Destandosi, ritorna a noi più verde

di foglie; e il suo giocare

incessante riprende; e non rivela

il Paradiso che dormendo ha visto:

e il suo segreto rende ancor più triste

il mio segreto.

 

(da "Alla pioggia e al sole", Carbba, Lanciano 1935, pp. 29-31)

 

 

 

 

VILLERECCIA

 

Din don dan delle campane

mentre il sole sui castagni

nella valle dell'infanzia

scende a fiotti.

 

Vetturale, figurina

così viva nel ricordo

coi tuoi schiocchi,

pe' miei occhi

troppo liscia è questa strada

ch'era un tempo polverosa.

 

Tanta pace

ricordata

ora è falsa: fischia il treno,

stride il freno

senza posa sull'asfalto

che al villaggio mi conduce.

 

Din don dan delle campane

nel mio viaggio

di ritorno,

nella luce che trapela

dai castagni dell'infanzia,

solo il musco

lungo i viottoli gentili

cheto accoglie come al tempo

ch'io ti vidi, o vetturale,

la giornata.

 

1948

 

(da "Acquivento", Carpena, Sarzana 1962, pp. 72-73)

 

 

 

 

venerdì 27 gennaio 2023

Shemà

 

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

 

          Considerate se questo è un uomo

          Che lavora nel fango

          Che non conosce pace

          Che lotta per mezzo pane

          Che muore per un sì o per un no .

          Considerate se questa è una donna,

          Senza capelli e senza nome

          Senza più forza di ricordare

          Vuoti gli occhi e freddo il grembo

          Come una rana d'inverno.

 

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa e andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.


10 gennaio 1946

 

 

COMMENTO

Nel “Giorno della Memoria” che, a quanto si dice, sta perdendo sempre più d’interesse in tempi in cui si riscontra un allarmante, generalizzato ritorno agli armamenti e un sempre più alto numero di conflitti bellici che coinvolgono anche paesi europei; e, contemporaneamente, ci si accorge che il razzismo è divenuto un male cronico, ineliminabile e pericolosissimo, mi pare più che mai opportuno pubblicare un post in cui si possano di nuovo leggere dei versi scritti da Primo Levi, e che compaiono sia all’inizio del suo romanzo autobiografico più famoso: Se questo è un uomo; sia nella sua raccolta poetica più significativa: Ad ora incerta. Sono versi molto crudi, che spesso si possono anche leggere nelle pagine delle antologie scolastiche vecchie e nuove; ecco, a tal proposito, come vengono brevemente presentati da una di queste, che fu anche il mio testo di Lettere del primo biennio di Liceo Scientifico (1979-1981):

 

[…] Le parole sono le più semplici, le più quotidiane, senza un’eco dei sapientissimi moduli verbali realizzati dagli uomini di lettere nei decenni precedenti; - ma l’intonazione è quella delle invettive dantesche, e la maledizione lanciata dal poeta contro chi vorrà dimenticare, e lasciar cadere il ricordo delle infamie compiute, quella stessa dei versetti più duri, implacabili, martellati dell’Antico testamento.¹

 

Il titolo della poesia: Shemà, in lingua ebraica significa Ascolta, ma è anche il nome di una delle preghiere più famose della liturgia ebraica.

Primo Levi (Torino 1919 – ivi 1987), che nella vita svolse il mestiere di chimico, fu deportato dai tedeschi e quindi internato nel campo di concentramento di Auschwitz, all’inizio del 1944. In quel contesto infernale, quasi miracolosamente riuscì a sopravvivere fino all’arrivo dei russi, nel 1945. In due romanzi che rientrano nella migliore letteratura italiana del Novecento: Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963), ha raccontato la sua esperienza nel famigerato campo di sterminio e il suo travagliato ritorno in patria dopo la liberazione.

La poesia Shemà, l’ho trascritta dalla pagina 15 del volume Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1984; gli stessi versi, senza titolo, si leggono anche a mo’ di epigrafe, nel citato volume Se questo è un uomo (nella foto qui sotto si può vedere la pagina 1 dello stesso, ripubblicato dallo Stabilimento Nuova Stampa Mondadori, Cles 1997).

 



 

NOTE


1)     Da I problemi - antologia italiana per il biennio delle scuole superiori, Casa Editrice D’Anna, Messina-Firenze 1974, p. 787.

domenica 22 gennaio 2023

Antologie: "Guida al Novecento"

 

Guida al Novecento è il titolo di un'antologia letteraria curata da Salvatore Guglielmino (1926-2001), pubblicata per la prima volta da Principato Editore di Milano nel 1971. L'edizione che posseggo e di cui voglio brevemente parlare, è la quarta e fu pubblicata nel 1986. Questo volume, composto da 1311 pagine (escludendo le tavole fuori testo), era destinato agli studenti delle scuole medie superiori e, come spiega bene il titolo, intendeva guidare questi ultimi allo studio della letteratura italiana ed europea compresa in un periodo storico che prende avvio dall'ultima parte dell'Ottocento e si conclude all'inizio dell'ottavo decennio del Novecento. La struttura di questa antologia è certamente anomala e, direi, originale; come spiega lo stesso curatore nella Presentazione, il libro si compone di due parti: un profilo letterario dalla fine dell'Ottocento ad oggi, e una parte antologica dedicata a suddetto periodo. Sempre nella stessa sezione, Guglielmino, dopo aver avvertito che il linguaggio dell'opera antologica non si avvale di alcun compiacimento linguistico, precisa il fatto che ogni periodo storico preso in considerazione, è preceduto da una premessa inerente il contesto politico-sociale dello stesso; con questo procedimento, il curatore intendeva facilitare il compito dell'insegnante, il quale poteva usufruire del testo già pronto, senza dover aggiungere nulla di personale. Tralascio il resto della Presentazione e riproduco soltanto l'elenco delle cinque parti di cui si compone l'antologia:

 

1. La crisi di fine Ottocento

2. Le inquietudini del primo Novecento

3. Tra le due guerre

4. La parabola del neorealismo

5. Revisioni, neo-avanguardia, mercato

 

Parlando ora della sola parte dedicata alla poesia, posso dire che questa antologia scolastica non si discosta dalle altre uscite su per giù negli stessi anni; non è la sola, infatti, che giustamente include poeti determinanti per le future generazioni, pure se da alcuni considerati ottocenteschi, quali furono Pascoli e D'Annunzio; e altrettanto giustamente non esclude alcuni poeti francesi d'estrema importanza, così come gl'italiani, nella sezione dedicata alla nascita della nuova poesia nostrana sviluppatasi nel primo decennio del XX secolo. Per tutto il resto, il libro segue uno schema ben preciso, di cui ho già parlato, tenendo sempre presenti i migliori scrittori europei e non, che in varie circostanze sicuramente suggestionarono l'operato degli italiani. Chiudono l'antologia i poeti della cosiddetta "Quarta generazione", insieme ai collaboratori della rivista Officina ed ai Novissimi. Non mancano le esclusioni, sorprendenti e a volte clamorose; tra i dialettali il curatore salva soltanto Biagio Marin e Franco Loi. Ecco infine l'elenco dei poeti italiani presenti in questa antologia.

 

 



GUIDA AL NOVECENTO

 

Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Sergio Corazzini, Marino Moretti, Guido Gozzano, Filippo Tommaso Marinetti, Aldo Palazzeschi, Gian Pietro Lucini, Corrado Govoni, Dino Campana, Clemente Rebora, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Vittorio Sereni, Sandro Penna, Mario Luzi, Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Biagio Marin, Franco Fortini, Andrea Zanzotto, Elio Pagliarani, Roberto Roversi, Giovanni Giudici, Edoardo Sanguineti, Franco Loi.