domenica 8 gennaio 2023

Poeti dimenticati: Ettore Sanfelice

 

Nacque a Viadana, in provincia di Mantova, nel 1862 e morì a Reggio Emilia nel 1923. Dopo la licenza liceale ottenuta a Mantova, frequentò la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna; ivi si laureò. Si trasferì quindi a Cento, dove iniziò la sua carriera di insegnante. Finita questa prima esperienza professionale, tornò a Viadana, dove ricominciò a studiare assiduamente, per poi ottenere un seconda laurea in Lettere. In seguito ebbe di nuovo la possibilità d’insegnare presso vari istituti scolastici, ma la cronica e dolorosa malattia che lo aveva nel frattempo colpito, lo costrinse prima del tempo ad abbandonare il lavoro; ricoverato in varie strutture di cura, a partire dai quarant’anni e fino al giorno della sua morte, non scrisse più nulla, a causa delle sofferenze atroci che lo tormentarono. La sua produzione poetica, che si svolse in meno di un ventennio, mostra le caratteristiche tipiche della poesia italiana del secondo Ottocento, con qualche elemento comune ad alcuni poeti decadenti francesi.

 

 

Opere poetiche

 

“Raggi ed Ombre”, Zanichelli, Bologna 1885.

“Mattutino”, Zanichelli, Bologna 1886.

“Gru migranti (Primo stuolo)”, Libreria Treves, Bologna 1891.

“Dalla neve alla rosa”, Stracca, Velletri 1895.

“Liriche e scene”, Muglia, Messina 1901.

“Antologia poetica”, Stamperia Valdonega, Verona 1962.

 

 


 

 

Presenze in antologie

 

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp.194-198).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 315-317).

 

 

 

Testi

 

 

ACCENDO IL LUME...

 

Accendo il lume per fugar le amare

fantasie che mi stan sotto le ciglia;

e non so quale spirto mi consiglia

di guardarmi allo specchio, e ricercare

delle mie vision l'ombra nel volto;

nulla vi scorgo; esser vorrei sepolto.

 

(da "Antologia poetica", Stamperia Valdonega, Verona 1962, p. 56)

 

 

 

 

NON SO DI CHE LANGUO...

 

Non so di che languo; il mio cuore va in cerca di strani affanni, e una mortale melanconia mi copre, come un velo di cenere, tessuto sopra lievissima trama d'oro.

  Io non so dove vado; seguo la via che è forse della gioia, o forse del dolore; ahimé, mi dimentica l'amicizia, l'invidia, l'amore.

  La speranza vacilla; svanisce; sono lungi il male e il bene; sono solo. A che questo mio errare, come nube? Perché questa vita? Perché il cielo non cala sulla terra, e non avvolge tutto come lenzuolo di morte?

 

(da "Antologia poetica", Stamperia Valdonega, Verona 1962, p. 89)

 

domenica 1 gennaio 2023

Augurio di Capodanno

 

Io credo all'uccellino batticoda:

che ci porti il buon anno.

Scorre liscio su l'umido tappeto

di bruni muschi, alla soglia del mare,

sosta un tratto a beccare, e poi di nuovo

scivola via come una spola, vola,

sparisce in cielo. Neppur ci ha guardati.

Ma è bello, affusolato, grigio e bianco:

porta, certo, il buon anno.

 




 COMMENTO

Augurio di Capodanno è il titolo di una poesia di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976), leggibile alla pagina 361 del volume Poesie (Mondadori, Milano 1962), in cui il poeta veneto volle inserire tutta la sua produzione in versi - ad esclusione di una parte da lui rinnegata - pubblicata fino a quell’anno. L’augurio del titolo, riferito alla festa del Capodanno, fantasiosamente è dato al poeta dall’uccellino batticoda; quest’ultimo, detto anche Ballerina bianca o Motacilla alba, è un passeriforme facilmente osservabile sia nel continente europeo che in quello asiatico. Lo si riconosce per il caratteristico piumaggio bianco, grigio e nero, oltre che per la lunga coda agitata costantemente dal pennuto (da qui nasce il soprannome citato da Valeri). Ma perché il poeta pensa che porti fortuna, e la sua vista rappresenti un sincero e concreto augurio di buon anno? Semplicemente per la sua bellezza, e per il piacere che dà a chi lo osserva, sorpreso dai suoi colori e dalla sua agilità. Ciò dimostra, una volta di più, che basta poco ad un poeta, per innescare la sua infinita e imprevedibile fantasia, e per creare una breve ma bellissima poesia, semplicemente e spontaneamente nata da una osservazione apparentemente insignificante avvenuta il primo giorno del nuovo anno.



Motacilla alba
(Di Cherubino - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25664445)



sabato 24 dicembre 2022

Notte di Natale

 

Sempre più disperata dentro l'anima,

sempre più sola questa lunga notte,

di memoria in memoria a dirti amore.

Fu per le strade della dolce estate

che non ritorna, ora è città l'inverno,

e straniero a nascondermi nel buio

della mia stanza, gli occhi grandi in volto,

vedo la pioggia che vacilla ai lumi

del vento, l'oro delle porte accese.

Per lo stupore d'essere, la mano

si distingue sul vetro nella mite

chiarezza effusa, ed è destarti all'alba

delle parole chiedere se esisti,

se vivere di te forse è morire.

 

Le verande nel mare rifiorite

d'un soffio nella cenere, la calma

dell'ascoltare le parole buone,

comuni, che non sembrano mai dette

e sono qui tra noi, in questa notte

dove ogni voce che mi parla è tua.

 

Di memoria in memoria a dirti amore,

di silenzio in silenzio a dire pioggia

la tristezza del mondo, la paura.

 

 


 

COMMENTO

 

Notte di Natale è il titolo di una poesia di Alfonso Gatto (Salerno 1909 - Orbetello 1976), presente nella raccolta intitolata Poesie d’amore, pubblicata per la prima volta dalla Mondadori di Milano nel 1973. Io l’ho trascritta dalle pagine 86 e 87 della 4° edizione della stessa, pubblicata sempre da Mondadori nell’ottobre del 1976. Più precisamente, Notte di Natale è la 6° poesia della SECONDA PARTE di Poesie d’amore, e fa parte dei versi scritti dal poeta campano tra il 1960 ed il 1971. Sempre in questo volume, alla pagina 175, c’è una nota che si riferisce proprio a Notte di Natale, e che riporto di seguito.

 

«L’oro delle porte accese» (nel testo) è la luce meridionale delle porte natalizie dei «bassi» intendo. Le notti natalizie sono a volte teneramente dolci, anche se piovose. Debbo avvertire che il verso «comuni che non sembrano mai dette», riferito alle parole, è un mio antico verso della poesia «Il Dio povero» (Osteria flegrea). Nello scrivere questa poesia, sapevo di usare, volevo usare, questo verso antico (per me segnaletico d’ogni povera identità, della mia, soprattutto). Rispetto al testo della prima stesura, apparsa su «L’Approdo Letterario», numero 53 (1971), questo nuovo testo ha perduto, perché eliminati, quattro versi tra la prima e la seconda strofa attuali.

 

Qui Gatto, nello stile ermetico che lo ha sempre caratterizzato, parla delle sensazioni da lui provate durante la notte di un recente Natale. La disperazione e la solitudine che nei primi versi emergono in modo lampante, stanno ad indicare la sofferenza che prova il poeta, mentre affacciato alla finestra osserva la pioggia cittadina cadere; non lo consola l’atmosfera natalizia, né nessun altra cosa: potrebbe farlo soltanto avere la possibilità di parlare con la sua compagna (che sta dormendo); per questo il poeta pensa a quando giungerà l’alba, e quindi potrà, con delicatezza, svegliare il suo amore; una delle prime domande che gli farà, si riferirà alla sua concreta presenza ed esistenza, ovvero alla certezza di un amore al quale egli si aggrappa strenuamente, essendo tutto ciò che gli rimane. Il verso 14, forse, vuole porre in risalto l’estrema importanza dell’amore provato dal poeta per la sua donna; esso è così imponente, da far sì che l’uomo viva soltanto per questo intenso sentimento, finendo per ignorare qualsiasi altra sensazione vitale. Nei versi successivi il poeta, oltre a descrivere qualche aspetto del paesaggio circostante, rimarca la presenza concreta della donna amata, della sua voce che lo rincuora e che a lui sembra l’unica presente in quel luogo. Gli ultimi versi, ritornano su alcuni concetti già espressi all’inizio della poesia: la memoria, il silenzio, la pioggia, la tristezza e, infine, la paura, che è poi quella di rimanere solo, senza neppure la presenza della donna amata, il che vorrebbe significare, per il poeta, raggiungere il picco della disperazione. Ma si tratta solamente di pensieri, poiché la donna, mentre egli si affligge, è ancora lì con lui.

 

domenica 18 dicembre 2022

Riviste: «Nuova Antologia»

 

Nuova Antologia è il titolo di una prestigiosa rivista italiana, che nacque nel 1866; essendo ancora oggi in circolazione, va considerata come la più antica rivista dell’intera Europa. Fondata a Firenze dall’economista Francesco Protonotari, Nuova Antologia ebbe il preciso intento di rappresentare l’ideale proseguimento di un’altra assai prestigiosa rivista: l’Antologia del Vieusseux (1821-1832); per tale motivo, gli argomenti ivi trattati spaziarono fin dall’inizio dalle materie umanistiche a quelle scientifiche, avvalendosi già dai primi numeri di collaboratori famosissimi (Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, Terenzio Mamiani ecc.). All’inizio del Novecento, con la nuova direzione del politico Maggiorino Ferraris, la rivista conobbe un periodo particolarmente fortunato, che si concluse con l’inizio della Grande Guerra; durante il conflitto la Nuova Antologia sospese le pubblicazioni, per riprenderle a pace raggiunta; qui iniziò la sua fase calante, che ebbe lunga durata; a partire dal 1932, con l’arrivo del nuovo direttore Luigi Federzoni, divenne rivista ufficiale dell’Accademia d’Italia; fino al 1943 – ovvero fino al crollo del regime fascista – la Nuova Antologia visse un nuovo periodo felice, anche grazie alla collaborazioni di scrittori e critici illustri, come Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Riccardo Bacchelli, Carlo Bo ecc. Dal 1946, la rivista si rinnovò totalmente, avvalendosi della collaborazione di giovani intellettuali italiani; ebbe una crisi quasi fatale negli anni ’70 del XX secolo, che riuscì a superare grazie al decisivo intervento del politico Giovanni Spadolini, che quindi ne divenne proprietario; in questi anni, Nuova Antologia trasferì la sua sede a Firenze, ed ebbe un ulteriore ritorno di vendite, grazie ancora una volta alle prestigiose collaborazioni di cui si avvaleva. Come già detto, la rivista è tutt’ora esistente.

Volendo ora soffermarsi un momento su uno dei periodi più importanti che visse la Nuova Antologia, e che coincide coi primi quindici anni del Novecento, e volendo restringere il discorso alla sola poesia – che la rivista sempre considerò ed ospitò nelle sue pagine – si può dire che qui, a parte qualche eccezione, non trovarono spazio tanti poeti italiani giovani e promettenti (cosa che invece avvenne in altre riviste dell’epoca, come Poesia e La Voce); la rivista si limitò a tenere presente soltanto coloro che già si erano affermati: poeti del secondo Ottocento e del primissimo Novecento come Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi, Mario Rapisardi, Arturo Graf, Giovanni Marradi, Vittoria Aganoor, Gabriele D’Annunzio, Enrico Thovez, Giovanni Cena, Cosimo Giorgieri Contri, Francesco Pastonchi e tanti altri ancora. Fanno eccezione Guido Gozzano e Arturo Onofri (il primo, nel marzo del 1909, qui pubblicò per la prima volta i versi de La signorina Felicita), ma ciò non basta per poter dire che la Nuova Antologia abbia rappresentato qualcosa di determinante e neppure d’importante nella fase di rinnovamento della poesia italiana del XX secolo; discorso che si conferma ancor più sfogliando le pagine degli anni successivi al periodo qui preso in considerazione, in cui, tra l’altro, la poesia venne sempre più trascurata. Chiudo, come al solito, riportando tre testi poetici trascritti dalle pagine della rivista.

 

 


 

 

L’ISOLA DEI MORTI (*)

di Arturo Graf

 

In mezzo al mare un’isola remota

Da quanto vive e si travaglia al mondo:

Intorno il mar che non ha fin né fondo;

In alto il ciel ch’eternamente ruota.

 

Poche, stagliate, cenerine rupi,

Cui, da piede, la salsa onda frastaglia;

Sulle rupi, all’ingiro, una gramaglia

D’erti cipressi inviluppati e cupi.

 

Sterminato è quel mar, placido, tetro;

Né fragoroso turbine sovverte,

Né lenta prora fende mai l’inerte

Onda che muta splende e par di vetro.

 

Sterminato è quel ciel, nitido, eguale;

Né tenebrosa nuvola vi tuona,

Né uccel che migri ad agognata zona

Batte mai pel diffuso etere l’ale.

 

Sotto l’antico ciel, nella grandeva

Pace oblïosa, incommutabilmente,

Dalla silenzïosa onda lucente

L’isola come salda ombra si leva.

 

Vasta quiete, alto silenzio! Un Lete

Fatto mare: un’immobile parvenza:

Uno stupor senza memorie, senza

Desio... Vasto silenzio, alta quïete!

 

Solo, quando nei gorghi algidi spento

Cade (poiché rifulse invano) il sole,

Fra i gran cipressi, entro le cave gole,

Mormora un lieve spirito di vento.

 

(*) Questi versi mi furono in parte suggeriti da un noto, mirabile dipinto di Arnoldo Böcklin.

 

(da «Nuova Antologia», 16 gennaio 1904)

 

 

 

 

LUCE

di Arturo Onofri

 

Or che l'ombra, in cui m'appago,

sulle vie del mondo piove:

una luce ia me si muove

come stella a fior d'un lago.

 

E non vedo più la riva

che nel buio si cancella;

vedo solo quella stella

come sola cosa viva.

 

Sotto il sole era la vita

una festa pittoresca;

ma, cuor mio, non ti rincresca

se in un gorgo or' è sparita.

 

Quel che vidi e udii, cogliendo

ora un suono ora un frastaglio,

ecco (intero, unico abbaglio!)

per magìa dì sogno apprendo.

 

Nulla guardo, nulla odo:

ma soltanto adesso immenso

è il pensiero che non penso,

è l'amore che non godo.

 

Dal silenzio musicale

si diffonde un'armonia

che ritrova in me la via

del mio cuore primordiale.

 

E dal vinto incantamento

del frastuono e del colore,

dall'età di ciò che muore,

creo l'eterno, a mio talento.

 

(da «Nuova Antologia», 1° gennaio 1912)

 

 

 

 

ANCORA

di Diego Valeri

 

Verrà la morte dalle tempie vuote,

dal cuore secco, dagli occhi fissati:

verrà la pace. Ma ch'io soffra, intanto,

ancora e ancora di questo sbocciare

di rose rosse sotto azzurri cieli,

e di questo svariare vagabondo

d'onde bionde e turchine su la seta

grigia del mare, e di questa dolcezza

fonda di donna, che s'offre al mio cuore

sempre più stanco sempre più bramoso

come un inganno di sonno e di sogno.

Verrà la pace; ma così gran bene

ch'io lo soffra, finché non sia spremuto

dai bruciati occhi miei l'ultimo pianto.

 

(da «Nuova Antologia», 16 febbraio 1929)

 

domenica 11 dicembre 2022

Il passato nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Il passato è un altro argomento particolarmente caro ai poeti decadenti, simbolisti e crepuscolari. Viene spesso evocato e descritto in modi assai diversi; c’è chi lo ritrova tramite vecchi oggetti, come Willy Dias nella bellissima poesia intitolata Cose morte; chi, con estremo rimpianto, lo rivede nella giovanile immagine di una prostituta, conosciuta ai tempi dell’infanzia, quando l’anima del poeta era del tutto priva di ogni tipo di malizia; c’è chi, tramite visioni fantastiche, lo immagina in luoghi isolati e incontaminati, quasi fosse un vero e proprio paradiso terrestre. Ma, ancora una volta, è Gabriele D’Annunzio ad anticipare tutti gli altri poeti, con la sua famosa poesia Hortus larvarum, in cui, tramite la rievocazione di una serie di elementi (luoghi, figure, musiche, profumi e altro ancora) che emanano un fascino tutto particolare, palesa un accorato rimpianto verso un determinato, favoloso passato, colmo di languidezze e di romanticherie: lo stesso di cui si parla in numerose altre poesie che furono scritte negli anni successivi, e che evidenziano, se non una imitazione, una netta influenza che il poeta pescarese determinò nelle generazioni più giovani, compresa quella dei poeti crepuscolari.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Libero Altomare: "Il Passato" in "I Poeti Futuristi" (1912).

Diego Angeli: "Riflessi di nuvole" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Pompeo Bettini: "La pioggia discende dal cielo" in "Poesie" (1897).

Francesco Cazzamini Mussi: "Senza titolo" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).

Francesco Cazzamini Mussi: "Armonie d'una volta" in "Le allee solitarie" (1920).

Francesco Cazzamini Mussi: "Allora - ora" in "Il cuore e l'urna" (1923).

Giovanni Cena: "Ella?" in "Homo" (1907).

Carlo Chiaves: "Tra i veli de la memoria" in "Sogno e ironia" (1910).

Guelfo Civinini: "Canzonetta in falbalà" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Guglielmo Felice Damiani: "Tomba antica" in "Lira spezzata" (1912).

Gabriele D'Annunzio: "Hortus Larvarum" in "Poema paradisiaco" (1893).

Adolfo De Bosis, "Era, una volta, nel mondo..." in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1914).

Federico De Maria: "Inventario d'amore" in "La Leggenda della Vita" (1909).

Willy Dias: "Cose morte" in «Domenica Letteraria», febbraio 1896.

Francesco Gaeta: "Ammonimento" in "Poesie d'amore" (1920).

Cosimo Giorgieri Contri: "Strada di Valsalice" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Cosimo Giorgieri Contri: "L'isola del passato" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Cosimo Giorgieri Contri: "Nimis vixi" in «Nuova Antologia», aprile 1907.

Emilio Girardini: "Passato" in "Chordae cordis" (1920).

Corrado Govoni: "La pendola del passato" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Guido Gozzano: "Cocotte" in "I colloqui" (1911).

Arturo Graf: "Rovina" in "Medusa" (1990).

Virgilio La Scola: "La casa del passato" e "Ora religiosa" in "La placida fonte" (1907).

Gian Pietro Lucini: "Meditazione" in "Poesia", settembre 1908.

Olindo Malagodi: "Visione di tramonto" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).

Tito Marrone: "Dittico del passato" in «L'Arte», aprile 1902.

Fausto Maria Martini: "Anniversario" in "Poesie provinciali" (1910).

Arturo Onofri: "Dentro il sonoro stanzone dov'io sogno e lavoro" in "Canti delle osai" (1909).

Arturo Onofri: "Le figure enigmatiche del sogno" in "Vincere il drago!" (1928).

Angiolo Orvieto: "L'ignoto" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Addio passato, sogni, tenerezza!" in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Lord Mailor" in "Poemi" (1909).

Giovanni Pascoli: "Mai più... mai più..." in "Poesie varie" (1912).

Giuseppe Piazza: "Il passato" in "Le eumenidi" (1903).

Guido Ruberti: "Alla soglia" in "Le Evocazioni" (1909).

Agostino John Sinadinò: "Con i semplici suoni dolci" in "La Festa" (1900).

Federigo Tozzi: "Stendonsi i giorni all'ombre sonnolente" in "La zampogna verde" (1911).

Diego Valeri: "Distacco" in "Umana" (1916).

Remigio Zena: "L'organetto" in "Tutte le poesie" (1974).

 

 

Testi

 

 

HORTUS LARVARUM

di Gabriele D’Annunzio

 

Il bel giardino in tempi assai lontani

occultamente pare lontanare.

Le fonti, chiare di chiaror d'opale,

fan ne la calma suoni dolci e strani.

Nei roseti le rose estenuate

cadono, quasi non odoran più.

L'Anima langue. I nostri sogni vani

chiamano i tempi che non sono più.

 

O danze, arie di tempi assai lontani,

voi che in qualche dimora secolare

facean su 'l virginale risonare

dolentemente così bianche mani:

mani di donna avida ancor d'amare,

non più giovine, non amata più:

e voi movete questi sogni vani,

arie di tempi che non sono più!

 

O profumi di tempi assai lontani,

voi che nel fondo de le vuote fiale

lasciaste la dolcezza essenziale

così che par che un spirito n'emani

(forse ne le segrete anime tale

un sol ricordo non vanisce più):

e voi guidate i nostri sogni vani,

profumi, ai tempi che non sono più!

 

O figure di tempi assai lontani,

voi che il tessuto pallido animate,

ninfe su fiumi, cacciatrici armate

dietro bei cervi in bei boschi pagani

(Delia, taluno a notte alta, d'estate,

te rimirando non dormiva più):

e voi ridete in questi sogni vani

come nei tempi che non sono più!

 

E tu vissuta in tempi assai lontani,

donna, come le tue danze obliate,

come i profumi tuoi ne le tue fiale,

donna che avevi così bianche mani,

tu che moristi avida ancor d'amare,

non più giovane, non amata più,

oggi tu passa in questi sogni vani,

morta dei tempi che non sono più!

 

(da "Poema paradisiaco. Odi navali", Treves, Milano 1893)

 

 

 

 

ALLA SOGLIA

di Guido Ruberti

 

Oggi passai, Marcella,

innanzi all'antica tua casa

e le memorie come un flutto

di un subito han l'anima invasa.

Ahi quanto il tempo ha distrutto

dal primo tuo amore,

dalla mia ribellione!...

Fissato ho il vecchio balcone

senza rancore,

Dove se' or tu, bambina?

Mi sembra ch'io debba vederti;

spuntar di sotto la tendina

tra i vasi dei rossi gerani,

agitar le piccole mani

o il leggiadro grembiale

ne' brevi segni occulti...

 

Di fronte, lassù pel viale,

dai filari di virgulti

a quando a quando una morta

gialla foglia si stacca.

A grandi mucchi le foglie

giaccion su la terra smorta:

autunno! autunno! le tue spoglie

dorate, il tuo virile casco

già cedono al punger della brezza!

 

La giornata è grigia; ha una tristezza

dolce e pensosa, una lontana

chiarità indefinita:

sei tu dunque partita?

sei tu dunque perduta?

E nulla del passato ti resta,

come a me, nel vecchio cuore?

E la scorsa vita una molesta

pagina di un libro obliato

ti sembra? Pure tutto è stato:

l'amor defunto, l'oblianza;

come la sottile fragranza

di un peccato che non ha ritorno,

l'Autunno dolce, il vecchio giorno,

la soglia appena intravveduta,

la piccola veranda muta

e chiusa sotto sotto il ciel piovorno.

 

(da "Le Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909)

 

Alfred Kubin , "The past forgotten swallowed"
(da questa pagina web)