domenica 20 febbraio 2022

Antologie: "Antologia della Diana"

 

La Diana è il titolo di una rivista letteraria pubblicata a Napoli tra il gennaio del 1915 ed il marzo del 1917. Inizialmente vi collaborarono alcuni scrittori giovani, che avevano ben pochi punti in comune, a parte la volontà di rinnovare la letteratura italiana e quindi di rompere con la tradizione; tra di essi vi era anche il fondatore della rivista: Gherardo Marone. Ma, ad un anno dalla sua nascita, si può ben dire che La Diana fosse mutata decisamente in meglio; ciò grazie ad un programma meno fumoso e ad una linea culturale ben più definita, che si allontanava da un iniziale, generico futurismo, a vantaggio del neoliberismo e del frammentismo poetico. Già a partire dalla seconda metà del 1915, sulla Diana si potevano leggere scritti di prestigiosi autori italiani di quel preciso periodo; ma le collaborazioni, nei mesi a seguire, andarono sempre più infittendosi, comprendendo scrittori, critici e poeti come Massimo Bontempelli, Giuseppe Antonio Borgese, Paolo Buzzi, Benedetto Croce, Auro D'Alba, Salvatore Di Giacomo, Lionello Fiumi, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Piero Jahier, Elpidio Jenco, Carlo Linati, Francesco Meriano, Marino Moretti, Nicola Moscardelli, Arturo Onofri, Clemente Rebora, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Mario Venditti e Giuseppe Villaroel; assai sporadiche, invece, le presenze degli stranieri (si ritrova qualcosa di Tristan Tzara, Miguel de Unamuno e alcuni poeti nipponici). L'Antologia della Diana è un volume che fu pubblicato nel 1918 a Napoli, dalla Libreria della Diana (casa editrice che aveva già dato alle stampe diversi volumi dei collaboratori della rivista napoletana); al suo interno raccoglie scritti degli autori più significativi, già presenti nelle pagine della rivista; purtroppo, qualcuno di essi, all'uscita del volume era già deceduto a causa del conflitto mondiale imperversante, ma anche a causa della famigerata "Spagnola": malattia virale temibile che, anch'essa, si sviluppò in quegli anni. Chiudo riportando i nomi degli scrittori che figurano in quest'antologia, facendo seguire un asterisco a coloro che sono presenti con delle poesie o delle prose poetiche.

 

 


 

ANTOLOGIA DELLA DIANA

 

Benedetto Croce, Antonino Anile, Paolo Argira*, Guglielmo Bonuzzi, Antonio Bruno*, Paolo Buzzi*, Carlo Carrà*, Giovanni Cavicchioli*, Annunzio Cervi, Mario Cestaro*, Auro d'Alba*, Vincenzo Davico, Filippo De Pisis*, Salvatore Di Giacomo*, Lionello Fiumi*, Luciano Folgore*, Massimo Gaglione, Rocco Galdieri*, Telesio Interlandi*, Piero Jahier*, Elpidio Jenco, Carlo Linati, Eugenio Gara*, Corrado Govoni*, Giuseppe Lipparini*, F. T. Marinetti*, Gherardo Marone*, Armando Mazza*, Marino Moretti*, Alberto Neppi*, Arturo Onofri*, Mario Pant, Giovanni Papini*, Enrico Pea, Eugenio Prati, Renato Prisciantelli*, Mario Puccini, Giuseppe Ravegnani*, G. Titta Rosa*, Umberto Saba*, Alberto Savinio*, Camillo Sbarbaro*, Haruchichi Scimoi, Ardengo Soffici, Raffaele Uccella, Giuseppe Ungaretti*, Diego Valeri*, Mario Venditti*, Bruno Vignola*, Giorgio Vigolo*, Giuseppe Villaroel*.

 

domenica 13 febbraio 2022

Gli animali nei versi dei poeti crepuscolari


 


A volte, leggendo i versi dei poeti che più amo, ovvero i crepuscolari, ho notato la presenza di animali, che in alcuni casi, sono i protagonisti assoluti di determinate poesie. In effetti, rileggendo attentamente un po' tutti i loro versi, viene fuori che Gozzano così come Corazzini, Moretti, Govoni e Palazzeschi - tanto per citare i nomi più famosi di questa scuola - amavano gli animali, e alcuni tra loro ne avevano anche in casa o in giardino. Il più esagerato, in questo particolare settore, è ancora una volta Corrado Govoni, che già a partire dalla sua prima raccolta, Le fiale (1903), ne cita diversi; nei sonetti che occupano interamente questo libro di versi, infatti, compaiono passeri, api, rondini, cigni, pavoni, cardellini, tordi, beccacce e capinere. In Armonia in grigio et in silenzio (1903), già a partire dalla dedica - che riporto di seguito - si parla d'animali:

 

  Al mio bianco micio, affinché non mi graffi più le mani quando io giuoco con lui ed impari a non voler più assaltare i poveri canarini ogni volta che li vede, e di vivere sempre d'accordo con loro, come fa con la colombina.

 

E a proposito di gatti, questa raccolta contiene due poesie dedicate ai felini domestici: I gatti bianchi e La siesta del micio. Anche in Fuochi d'artifizio: volume poetico dello stesso Govoni, pubblicato nel 1905, i gatti sono più volte citati; a tal proposito, bellissima è la poesia intitolata Le litanie del mao. In queste pagine, oltre ai gatti, si parla più volte di rondini (animali particolarmente cari al poeta emiliano), come nei versi di Dialogo delle rondini tornate col poeta, dove, come fa ben capire il titolo, s'instaura una sorta di colloquio tra gli uccelli e l'autore dei versi, nel periodo in cui questi pennuti sono soliti ritornare a popolare i tetti delle città italiane. Per quel che riguarda Gli aborti (1907), ovvero l'ultimo volume prettamente crepuscolare di Govoni, mi limito ad elencare i titoli delle poesie in cui compaiono degli animali: Il tritone; La chiocciola; Il canto del gallo; Le api; Le farfalle; Gli uomini e i cani del re; Dove stanno bene gli uccelli; Ai corvi. Govoni, anche nelle raccolte successive, in cui abbracciò - soltanto parzialmente - altre correnti poetiche, continuò a descrivere moltissimi animali, praticamente fino all'ultimo libro di poesie pubblicato postumo.

Passando a Sergio Corazzini, nelle raccoltine del poeta romano vi sono soltanto brevi accenni ad animali come le rondini, i ragni, gli agnelli ed i gatti; a proposito dei felini, indimenticabili per me sono i versi di Bando, in cui Corazzini esprime il desiderio di dormire, proprio come un gatto, fino alla fine dei secoli. Ma è nei versi sparsi, rintracciabili in riviste e giornali del primissimo Novecento, che Corazzini inserisce qualche animale, erigendolo a protagonista del componimento poetico; è il caso dei due sonetti intitolati rispettivamente L'agnello e L'oca (il secondo è in dialetto romanesco); infine, torna di nuovo il felino più domestico del mondo nella breve poesia Il gatto e la luna.

Volendo ora parlare di Guido Gozzano, si può dire che già nella sua prima raccolta: La via del rifugio (1907), vi siano due sonetti in cui gli animali - in questo caso l'oca e il cardellino - sono presenti in modo importante; ne I colloqui (1911), rimangono impressi nella mente - tra i tanti indimenticabili - i versi in cui si parla di Makakita: lo scimpanzé freddoloso citato nella poesia In casa del sopravvissuto, che il poeta tiene in braccio, seduto davanti al caminetto, in una gelida giornata invernale. Non meno suadenti sono le disperate cetonie capovolte dell'ultima poesia della raccolta (è la seconda che porta il medesimo titolo di quest'ultima), che il poeta un tempo aiutava a rimettersi in piedi, spinto da un senso di pietà verso questi animaletti in chiara difficoltà. Si potrebbe andare ancora avanti, parlando dei grilli, delle falene e delle rondini: animali citati nel poema La signora Felicita ovvero la Felicità, e di altri ancora. Per ultime, ovviamente, si ricordano Le farfalle: protagoniste dell'omonimo poema mai pubblicato in vita dallo scrittore piemontese.

Anche Marino Moretti, già nella raccolta Poesie scritte col lapis (1910), si rivela amico degli animali; lo stanno a dimostrare diverse liriche, come La domenica dei cani randagi e La domenica dell'orso, entrambe rintracciabili nella sezione intitolata Le domeniche; di altro tono è un'altra poesia, intitolata Aquila, presente nella sezione Alcune poesie scritte con la penna; qui infatti il poeta romagnolo confessa la sua immensa ammirazione per il nobile rapace, cui vorrebbe assomigliare. In Poesie di tutti i giorni (1911), c'è un poema intitolato Frate Asino, in cui si narra la storia di un frate e di un asino; quest'ultimo improvvisamente apparso alle soglie del convento, e immediatamente accolto con entusiasmo dai religiosi. Con lo stesso titolo e con qualche variante, il poema fu riproposto da Moretti anche nella raccolta Il giardino dei frutti (1916).

Nelle primissime raccolte di Aldo Palazzeschi, e in particolare ne I cavalli bianchi (1905), alcuni animali compaiono nei paesaggi favolistici del tutto personali, caratterizzati da una sorta di accidia, d'irrigidimento molto vicino all'immobilismo, con cui il poeta toscano partecipò a modo suo alla stagione poetica cosiddetta crepuscolare. Pappagalli che si chiudono in un mutismo ostinato; civette posate sui rami degli alberi, che ridono guardando le acque tranquille del fiume che scorre sotto di loro; anguille enormi, che vivono dentro una vasca, e che la gente cerca di pescare per mangiarsele; cigni, pavoni e gatti (tutti rigorosamente bianchi) che circondano un principe particolarmente affascinante: sono questi gli animali che s'incontrano leggendo i primi versi di Palazzeschi; ma gli animali continueranno ad essere inclusi anche nelle raccolte futuriste dello scrittore fiorentino, con altri ruoli e, addirittura, con la possibilità di parlare, come nella poesia La morte di Cobò.

Fausto Maria Martini, nella sua prima raccolta intitolata Le piccole morte (1906), parla di alcuni animali, soprattutto uccelli, come nel componimento "In cordis vigilia", dove resta indelebile nella memoria la bellissima immagine dei passeri che volano verso un cipresso, e ivi si addormentano come nelle braccia /  d'una mamma per tutti. Un'altra poesia del medesimo libro s'intitola Le colombe; qui, però, i pennuti si fanno desiderare e vengono invocati dal poeta, che ne sente la mancanza. Nella successiva raccolta: Panem nostum..., gli animali sono presenti raramente; compaiono, per esempio, nella breve poesia La lucciola e il serpente, dove l'insetto e il rettile, così come la "farfalla d'oro" del penultimo verso, probabilmente rappresentano dei simboli ben precisi. Le rondini, invece, sono le protagoniste di altri versi e di una prosa poetica, che è possibile leggere nel volume Tutte le poesie (1969), e che comparvero per la prima volta in riviste del primo Novecento.  

Pochissime tracce di animali si trovano nell'unica raccolta di versi, Sogno e ironia, pubblicata da Carlo Chiaves nel 1910. C'è soltanto una poesia, intitolata Ragnateli, in cui lo scrittore piemontese loda il ragno, ovvero l'artefice di una tela perfetta; l'animaletto non viene mai nominato, ma è definito "artista", e, pur ammettendo che la sua opera possegga caratteristiche architettoniche praticamente impeccabili, comprende che, alla fine, tale capolavoro altro non è che una trappola, per catturare gli insetti di cui il ragno si nutre. Tra le Poesie sparse, presenti nel volume Tutte le poesie edite e inedite (1971), c'è un'altra lirica: Cappuccetto rosso, che è una vera e propria parodia della famosa favola; qui, il lupo famelico che divora Cappuccetto rosso, è divenuto un animale mansueto, simile ad un agnello, perché abilmente ammaestrato dalla diabolica ragazzina.

Giulio Gianelli, nella sezione finale - intitolata Due favole - che fa parte della sua raccolta poetica più importante: Intimi vangeli (1908), inserisce tre animali: una chioccia, una capretta e un'agnellina, che sono i protagonisti di due poesie assai semplici e delicate; entrambe, per determinate caratteristiche, ricordano certi versi di Giovanni Pascoli e di Angiolo Silvio Novaro.

Pochissimi riferimenti ad animali si rintracciano nell'opera poetica di Carlo Vallini; per citarne qualcuno, vi sono delle rondini che volano attorno alla casa del nonno scomparso nel quinto dei Sonetti della casa, in La rinunzia (1907); mentre in La pietà, settimo capitolo del poemetto Un giorno (1907), il poeta chiede clemenza a Dio, per una serie di sue mancanze e, tra le altre: per l'anima mia che si sente / a un tempo grande ed inane: / umile innanzi a un cane, / superba innanzi al saccente [...] pel piccolo insetto modesto / che s'affanna e che non si vede / e ch'io, camminando, col piede / inconsciamente calpesto.

Nelle poesie di Nino Oxilia non mancano certo degli animali; già nei Canti brevi (1909), si nota, qua e là, la presenza di corvi, rospi, lucciole e, soprattutto di rondini, come nei seguenti versi: Le rondini volano a sciami. / Si inseguono, vanno attorno / e pare che dicano «m'ami?» / «non vedi che è finito il giorno?». / Son lungi, cinguettano piano, / poi giungono e allora un umano / urlo, di pianto, di ebbrezza, / s'ode una voce infinita / che spasima nella gran chiarezza / l'inno alla vita. Ne Gli orti, raccolta che uscì postuma nel 1918 (il poeta era morto nella Grande Guerra durante l'anno precedente), indimenticabile è l'immagine del cane descritto nella poesia intitolata Ò visto: Ò visto le monache passare tra i letti / dell'ospedale, / passare piane leggere / con un ticchettìo di rosari / sulle gonne grossolane; / e avevano gli occhi buoni, / gli occhi sommessi e calmi, / e io mi sono ricordato di Dog, / del mio povero cane, / che mi guardava con occhi simili / quando io ero malato...

In Liriche (1904) di Tito Marrone, ci sono due poesie che vedono protagonisti gli animali; nella prima, intitolata Gli usignoli, e che si compone di soli otto versi, il poeta siciliano crea un paesaggio notturno e favoloso, reso ancor più affascinante dal meraviglioso canto degli usignoli. La seconda, che s'intitola Il gatto, è una sorta d'ammonimento per mettere in guardia gli uomini che, ingannati dall'apparenza tranquillizzante del felino, si provano ad accarezzarlo mentre dorme disteso sotto i raggi del sole; ma il gatto, infastidito dal gesto amichevole, improvvisamente si ribella e con le unghie ferisce la mano dell'improvvido essere umano, per poi tornare, di nuovo tranquillo, a crogiolarsi al sole.

domenica 6 febbraio 2022

Poeti dimenticati: Geppo Tedeschi

 

Nacque a Oppido Mamertina (Reggio Calabria) nel 1907 e morì a Roma nel 1993. Seguace, fin da giovanissimo, di Marinetti e del futurismo, Tedeschi cominciò a pubblicare versi nel terzo decennio del Novecento. Se è vero che la sua poesia, e in particolar modo la primissima, ricalca i temi cari ai futuristi, è altrettanto vero che Tedeschi andò progressivamente allontanandosi dal movimento, almeno per le tematiche dei suoi versi, sempre più incentrati sulla vita paesana e su figure - persone o animali - evidentemente incontrate e conosciute nella terra natale. Tutto sommato, la sua migliore poesia non si discosta poi molto da quella dei grandi poeti meridionali del XX secolo: Quasimodo, Carrieri, De Libero, Gatto e Sinisgalli; risulta però, nella sua intera opera in versi, del tutto assente qualsivoglia traccia di ermetismo; al contrario si fanno notare una semplicità, un'ironia ed un'allegria decisamente particolari, che lo distinguono da tutti gli altri poeti del suo tempo.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Gli affari del primo porto mediterraneo", Il Radicchio, Genova 1932.

"Un saluto a Marinetti", Grafiche La Sicilia, Messina 1933.

"Il golfo della Spezia", Il Radicchio, La Spezia 1933.

"Idrovolanti in siesta sul golfo di Napoli", Studio Editoriale, Napoli 1938.

"Corti circuiti", Carabba, Lanciano 1938.

"Il sonnivendolo", Carabba, Lanciano 1939.

"I canti con l'acceleratore", Carabba, Lanciano 1940.

"Ruralismo calabrese", Faenza 1942.

"Rosolacci tra il grano", Gastaldi, Milano 1943.

"Canne d'organo", Gastaldi, Milano-Roma 1951.

"Liriche epigrafiche", Gastaldi, Milano 1951.

"Zufoli sul colle", Corso, Roma 1957.

"L'incendiario del villaggio", 1957.

"Tempo di aquiloni", Editrice Scena Illustrata, Roma 1963.

"Antologia poetica dal Futurismo ad oggi. 1932-1975", Catria, Roma 1975.

 

 


 

 

Presenze in antologie

 

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 645-648).

"I futuristi", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1994 (pp. 380-388).

"L'altro Novecento, Volume V: La poesia centro-meridionale e insulare", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 97-99).

 

 

 

 

Testi

 

 

ERANO INVECE I GRILLI ED I RANOCCHI

 

Parve d'udire,

dentro sonno e veglia,

al vecchio

prete

un canto di campane.

Un canto di campane a mattutino.

Balzò dal letto,

aperse la finestra.

Erano, invece, i grilli

ed i ranocchi

che tinnivano,

a gola dispiegata,

sui bordi erbosi,

della via maestra.

 

[da "Dal futurismo ad oggi (1932-1975)", Catria, Roma 1975, p. 94]

 

 

 

 

 

APRIGLI LE BRACCIA, SIGNORE

 

Scarnito,

come i margini

dei rivi,

a TE, per sempre,

torna il pellegrino.

Polvere, ancora,

à di maestre vie.

Ti porta i piedi scalzi

e l'abbaiare

dei cani, a sera,

dalle fattorie.

 

[da "Dal futurismo ad oggi (1932-1975)", Catria, Roma 1975, p. 103]

 

 

 

 

CONFESSIONE

 

Amo il sole,

a maniera di ramarro.

Quando fa bruma

e a noi vengono i tordi,

mi riscaldo alla fiamma

dei ricordi.

 

[da "Dal futurismo ad oggi (1932-1975)", Catria, Roma 1975, p. 135]

domenica 30 gennaio 2022

Gli "uccellacci" in 10 poesie di 10 poeti italiani

 

Contrapposti agli uccellini in un famoso film di Pier Paolo Pasolini, gli uccellacci sono i protagonisti di queste dieci poesie da me selezionate. Il dispregiativo che viene spesso usato per descrivere tali pennuti, nasce da una cattiva fama che li riguarda, tramandata da generazioni che risalgono al passato più remoto; il motivo risiede nel fatto che, questi uccelli, avessero - esclusa qualche specie che non esiste più - delle abitudini di natura prettamente alimentare, sgradite agli esseri umani; più raramente, invece, la nomea deriva dal loro aspetto alquanto spiacevole, se non terrificante. Ovviamente, i poveri animali non hanno colpe, poiché la natura li ha fatti così. In alcuni dei versi qui presenti, gli "uccellacci" fungono da simboli, che hanno delle accezioni totalmente negative, collegate a determinate tipologie di umanità; anche in questo caso, la natura non c'entra nulla, poiché gli uomini paragonati agli uccelli si comportano in modo malevolo deliberatamente, e ancora una volta gli animali subiscono un ingiusto trattamento, avendo ben poco a che vedere con quelle persone che le poesie vogliono prendere a bersaglio. Si noterà infine, che la maggior parte di questi uccelli sono dei rapaci; la loro assidua presenza è dovuta al fatto che si nutrono di altri animali - a volte anche piuttosto grandi - e alla loro scarsa bellezza (per non dire bruttezza), a parte rare eccezioni.

 

 

 

GLI "UCCELLACCI" IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI

 

 

 

IL GRIFONE FEMMINA È PIÙ CRUDELE...

di Giuseppe Conte (1945)

 

Il grifone femmina è più crudele, più

vorace, perché non ha fame. Sta

fermo senz'ali, alto, la fila

di mammelle immutabili, mature.

 

Non vola, non piomba sulle cerbiatte. Eguale

davanti a sé guarda oltre un immenso

vaso dai due manici l'immagine

che lo riproduce - grifone

 

femmina.

 

(da "L'oceano e il ragazzo", TEA, Milano 2002, p. 67)

 

 

 

 

L'AVOLTOIO

di Eugenio Galvano (1911-1977)

 

Or sognavo d'un grande albero spoglio,

onde avoltoi lentamente con ali immense calavano,

ed uno sul mio cuor s'è posato.

Senza respiro di soprassalto mi sono svegliato,

e il maledetto nel buio della notte è svanito,

lasciando nell'aria il presentimento che ritornerà.

 

(da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1935, p. 13)

 

 

 

 

CORVO

di Arturo Graf (1848-1913)

 

    Nel concavo emisfero

Del ciel la nebbia boreal si pigia:

      Sotto la nube grigia

Appare il corvo come un punto nero.

 

    Sovra il piano deserto

Stende la neve un gran lenzuolo bianco:

      Un pellegrino stanco

Trascina alla ventura il passo incerto.

 

    Qualche sfrondata macchia

Lugubremente impruna la pianura;

      Avido di pastura

Sotto la nube il negro corvo gracchia.

 

    Irretito dal gelo,

Vinto dalla stanchezza e dall’ambascia,

      Il pellegrin s’accascia;

Il corvo sopra lui tresca pel cielo.

 

(da "Le poesie", Chianore, Torino 1922, p. 88)

 

 

 

 

UPUPA, ILARE UCCELLO...

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Upupa, ilare uccello calunniato

dai poeti, che roti la tua cresta

sopra l’aereo stollo del pollaio

e come un finto gallo giri al vento;

nunzio primaverile, upupa, come

per te il tempo s’arresta,

non muore più il Febbraio,

come tutto di fuori si protende

al muover del tuo capo,

aligero folletto, e tu lo ignori.

 

(da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1993, p. 61)

 

 

 

 

STAGIONI

di Giampiero Neri (1927)

 

Febbraio, l'allocco guarda

da una cavità del muro i movimenti

della fredda stagione.

Si adatta naturalmente

alle necessità

attento al rumore delle foglie

ai segnali di ogni piccola vita.

Nel suo lavoro paziente

Si riconosce.

Forma, destino e nome

che avrà la ricompensa.

 

(da "Teatro naturale", Mondadori, Milano 1998, p. 56)

 

 

 

 

LO SPECCHIO DELLE CIVETTE

di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

 

Sull'acqua del fiume tranquillo

si sporge bruciato il gran ramo

d'un albero grande che solo quel ramo ha bruciato.

Si posan la notte sul ramo sporgente

civette a migliaia.

Si posan ridendo, guardando ne l'acqua

del fiume che sotto vi scorre tranquillo.

 

(da "I cavalli bianchi Lanterna Poemi", Empirìa, Roma 1996, p. 20)

 

 

 

 

L’ASSIUOLO

di Giovanni Pascoli (1855-1912)

 

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù...

 

Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chiù...

 

Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?...);

e c’era quel pianto di morte...

chiù...

 

(da "Myricae", Giusti, Livorno 1903, p. 125)

 

 

 

 

IO SON VECCHIA...

di Francesco Pastonchi (1874-1953)

 

"Io son vecchia, benché forse non pajo,

e ne ho visto di mondo, e perciò gracchio.

Gracchio sull'ingiustizia: che, s'io bacchio

quattro nocelle, a te colma uno stajo.

 

"È bello dir" contentati al tuo sajo

anche se ti camuffi a spaventacchio"

ma s'io m'acciuffo e mettomi un pennacchio,

mi giova — non vi sembra? — e non fò guajo.

 

"Vaghi i paoni che si stanno pari

a bellezza di penne e portamenti

principeschi per questi paradisi!

 

Ma io, cornacchia, non ho per compari

che i desolati inverni e i geli e i venti,

e gracchio: e i gracchi sono i miei sorrisi".

 

(da "Il randagio", Mondadori, Roma 1921, p. 91)

 

 

 

 

CHIÙ

di Luigi Pirandello (1867-1936)

 

Che hai fatto? Dimmi, forse perché

sei nato gufo, piangi così?

credi forse che peggio di te

non ci sian bestie, gufo? Ma sì,

ce n'è, ce n'è!

Io ne conosco,

non lì nel bosco -

tante ce n'è!

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1991, p. 233)

 

 

 

 

IL FALCO

di Sebastiano Satta (1867-1914)

 

Alto, nell’alba fresca,

Il falco, occhioni d’oro,

Vaga qua e là sul vento...

 

Uno solo ne adoro,

E tu ne adori cento,

Ogni volto t’invesca.

 

(da "Canti", Ilisso Edizioni, Nuoro 1996, p. 200)



Robert Duncanson, "Vulture and its Prey"
(da questa pagina web)