domenica 12 settembre 2021

Gli occhi nella poesia italiana decadente e simbolista

 

I versi dei poeti simbolisti parlano spesso di occhi femminili, che posseggono una serie di requisiti e, direi, di poteri tali da ipnotizzare chi li osserva. A volte sono paragonati a pietre preziose (Angeli, Cena), altre volte ai laghi e alle ruote dei pavoni, come fa Govoni, che in Ottavario degli occhi elenca una serie di tipologie relative agli occhi, tutte associate a determinate categorie dell'umanità. Ci sono dei poeti (Guglielminetti, Oxilia) che ripensano agli sguardi fuggitivi del passato, rammaricandosi del fatto che il tempo abbia travolto inesorabilmente quegli occhi incontratisi per brevissimo tempo. A volte l'occhio non è umano, come nella poesia di Garoglio, che vede l'orbita lunare simile ad un occhio stanco, che lo osserva "infermo attediato senza alcuna / speranza..."; alla stessa stregua, Venditti vede l'occhio lunare il quale, stanco di vegliare "su 'l mondo che soffre e non dorme", piangendo si sprofonda nel mare. C'è poi un'aura di mistero che di sovente aleggia nella presenza di occhi quanto mai insondabili e di cui non si conosce neppure il proprietario (in quest'ultimo caso essi terrorizzano il povero poeta che si sente osservato in qualunque momento); Moscardelli invece, identifica degli occhi che si aggirano per le strade del mondo in ogni momento, in cerca di "fratelli lontani / sperduti, sconosciuti".

 

 

 

 Poesie sull'argomento

 

Diego Angeli: "I suoi occhi" e "Il mistero degli occhi" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Giovanni Cena: "Gli occhi" e "Quegli occhi" in "In umbra" (1899).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Gli occhi" in "Le poesie" (1912).

Guglielmo Felice Damiani: "Occhi" in "Lira spezzata" (1912).

Arturo Foà: "Gli occhi" in "Le vie del'anima" (1912).

Diego Garoglio: "Occhio velato..." in "Sovra il bel fiume d'Arno" (1913).

Corrado Govoni: "I tuoi occhi" e "Ottavario degli occhi" in "Gli aborti" (1907).

Amalia Guglielminetti: "Occhi ignoti" in "Le Seduzioni" (1909).

Corrado Govoni: "Laghi" in "Le fiale" (1903).

Enzo Marcellusi: "Gli occhi" in "I canti violetti" (1912).

Nicola Moscardelli: "Occhi" in "La Veglia" (1913).

Ada Negri: "Gli occhi" in "Dal profondo" (1910).

Nino Oxilia: "Al tetro buio crocicchio..." in "Canti brevi" (1909).

Giovanni Tecchio: "Gli occhi" in "Canti" (1931).

Mario Venditti: "Il martire insonne" in "Il terzetto" (1911).

 

 

 

 Testi

 

 

QUEGLI OCCHI

di Giovanni Cena

 

Perché..? Perché, rincasando,

dovere tutte le sere

passare per quelle nere

colonne dell'atrio? Quando

 

la grande porta ebbi aperta,

tremarono i miei ginocchi.

Sempre, sempre quegli occhi

dentro la tenebra incerta!

 

Ristettero i piedi gravi...

Dover passare, lambire

quasi il suo corpo, sentire

quegli occhi rossastri, cavi,

 

larghi così che vie più

parevano dilatarsi!

Io lo sentivo già farsi

presso. Ma come si fu

 

in mezzo a l'atrio, stette.

Densa era l'ombra su lui.

Fuggire negli angoli bui?

Strisciare lungo le strette

 

pareti? Ma come, se

sentivo il suo petto ansare

su me, la bocca alitare

rapida, calda, su me?

 

Immoto stetti: non più di

un attimo. Ah! infinito!

E guardai inorridito

gli occhi. E sentii come ignudi

 

coltelli gelidi, acuti

lungo le carni strisciare.

Gridare volli, gridare...

Grevi erano i labri e muti.

 

Quando mi scossi, salii

rapido, come avessi ale:

e seguianmi per le scale

ansamenti e scivolii.

 

Apersi, chiusi, ed entrai

sotto le coltri tremante.

Rimasi per un istante

soffocato... Ascoltai...

 

Udii alcuni rintocchi

lontani, brevi... Ripresi

fiato. Poi tutto mi stesi...

Orrore! con chiusi gli occhi,

 

io vidi, vidi quegli occhi

traverso le ciglia, sempre,

traverso le coltri! Sempre

quegli occhi! Sempre quegli occhi!

 

(da "In umbra", 1899)

 

 

 

 

GLI OCCHI

di Giovanni Tecchio

 

Stan la vita e la morte in fondo agli occhi:

Tra la raminga umana folla ascosi,

Balsami sono all'anima preziosi,

O pur sottili acuminati stocchi.

 

E neri e ardenti, donde pare scocchi

Quasi un dardo mortal; dolci e amorosi,

Aridi e freddi o in lacrime pietosi,

Di virtù pieni o dal dolor non tocchi.

 

In voi, vivi carbonchi, o torvi o queti,

O del color del mare occhi sereni

Di vergini sognanti e di poeti;

 

Soavi occhi di pie, candide suore,

In voi, tinti d'amore o di veleni,

L'arduo mistero è in tutti voi del cuore.

 

(da "Canti", 1931)



Odilon Redon, "Closed Eyes"
(da questa pagina web)


 

domenica 5 settembre 2021

"Dall'anima. Ricordi e sogni" di Costanzo Gazzera

 

Poeticamente parlando, il nome di Costanzo Gazzera è legato ad un solo volumetto di versi, intitolato Dall'anima. Ricordi e Sogni. Questo libriccino fu pubblicato dall'editore Streglio di Torino nel 1898. Ora, rimane difficile stabilire chi sia Costanzo Gazzera; mi sembra improbabile infatti che si tratti del famoso archeologo italiano nato a Bene Vagienna nel 1778 e morto a Torino nel 1859; ed è improbabile sia per il fatto che, nell'anno in cui uscì questo volumetto, costui fosse scomparso da ben quarant'anni, ma anche perché, leggendo i versi della raccolta, ci si accorge che appartengono ai tempi in cui il libro andò alle stampe, e non possono essere stati scritti mezzo secolo prima. Questa tesi è confermata anche dal sito Internet Culturale, in cui è possibile consultare i cataloghi delle più o meno grandi biblioteche italiane, e che, nella scheda del libro in questione, aggiunge al nome di Costanzo Gazzera la dicitura: "omonimi non identificati". Dato quindi per certo che si tratta di omonimia, mi preme aggiungere che questi pochi versi furono scritti da un eccellente poeta, e che il volumetto, nel periodo in cui fu pubblicato, venne segnalato da alcune riviste importanti. La raccolta Dall'anima (Ricordi e sogni è il sottotitolo) si compone di 27 poesie, racchiuse in 56 pagine. Dopo il preambolo: tre sonetti preceduti dalla dicitura Alla memoria de' miei fratelli DOMENICO ed ONORATO, seguono tre sezioni intitolate rispettivamente: IL DRAMMA, TRISTE ANIMA e LE CONSOLATRICI DELLA VITA. Leggendo tutte le poesie, ciò che emerge maggiormente è un senso di profonda tragicità - dovuto anche alle dolorose esperienze personali - e un saldo legame familiare; non è un caso che in molte di queste poesie i protagonisti siano i parenti più stretti del poeta. Quest'ultimo elemento (ma anche il primo è pertinente) avvicina decisamente il Gazzera alla poetica di Giovanni Pascoli, ed in particolare ai temi della raccolta Myricae, che proprio in quegli anni veniva pubblicato dal poeta romagnolo, con edizioni nuove e arricchite di ulteriori versi. Un altro elemento che si nota chiaramente è un frequente riferimento all'acqua, che quasi sempre è collegata alla morte (nella poesia Il gorgo, per esempio, si parla di un tragico evento che coinvolse due giovinetti). Infine, soprattutto nelle ultime liriche, il Gazzera pone in risalto le figure femminili, siano esse vere (la sorella, la madre e la sposa), siano immaginarie o leggendarie (Ofelia, l'amante e la musa); tutte quante o quasi, vengono incluse nella terza sezione che porta un titolo molto simile a quello di una raccolta di Giovanni Alfredo Cesareo, ma che non credo possa avere avuto alcuna influenza sul Gazzera. Ricordo infine che, a quanto ne so, altri due sonetti del medesimo autore, esclusi da questa raccolta, furono pubblicati nel medesimo anno della sua uscita, ovvero nel 1898, dalla Gazzetta letteraria. Dopo Dall'anima, di Costanzo Gazzera non si seppe più nulla, e nemmeno si è mai saputo se questo fosse il suo vero nome o soltanto uno pseudonimo (forse proprio questo elemento fece sì che in molti ritennero l'archeologo scomparso da quarant'anni quale autore di questi versi). Chiudo riportando due fra le migliori poesie tratte da Dall'anima.

 

 

 


 

 

 

L'ANIMA

 

L'azzurro, la porpora e l'oro

distendon lor riso nei cieli

con mutevol vicenda:

poi tendono lividi veli

le nubi, chiudenti tremenda

ruina in lor seno.

 

Poi migran pel cielo sereno,

com'esili fiocchi di lana,

candidi cirri a schiere:

fioriscon nel cielo una vana

vicenda di mostri e chimere

le nubi dileguanti.

 

Un lembo dei cieli cangianti

io penso esser l'anima, gioia

del sole a quando a quando.

Poi nubi vi tende la noia,

e nembi il dolore: migrando

sempre passano i sogni.

 

(da "Dall'anima. Ricordi e sogni", Streglio, Torino 1898, p. 27)

 

 

 

 

L'AMANTE

 

Da la mia fronte, o Amica ignota ancora,

tu con le dita tremule trarrai

la invisibil ghirlanda, ond'ebbi assai

spine al cervel che tutto ne dolora.

 

Io avrò ne gli occhi una novella aurora,

la bella luce ch'io non vidi mai...

O qual corona al capo mio darai

tutta di sogni, o Amica ignota ancora?

 

Ecco, tra il vel di lagrime che gli occhi

lucido offusca, or io ti vedo, o Ignota,

che me, me chiami alla novella via:

 

e mi par che una dolce melodia

lenta mi giunga, pallida, remota...

O fantasma, ecco, a te piego i ginocchi.

 

(da "Dall'anima. Ricordi e sogni", Streglio, Torino 1898, p. 52)

 

domenica 29 agosto 2021

Antologie: "Scrittrici d'Italia"

 

Pur ritenendo che non abbia alcun senso distinguere tra sesso maschile e femminile quando si parla di poesia, eccomi di nuovo a parlare di un'antologia in cui compaiono soltanto donne. Scrittrici d'Italia è il titolo di un libro pubblicato dalla Newton Compton di Roma nel 1991; la selezione antologica di brani letterari in prosa o in versi, scritti esclusivamente da donne nate in Italia, è stata curata da Alma Forlani e Marta Savini. È un lungo viaggio attraverso la migliore letteratura italiana al femminile, che parte dal XIII secolo e giunge fino al Novecento; quest'ultimo, però, risulta assai penalizzato, poiché l'ultima scrittrice presa in considerazione è Lina Galli: nata nell'ultimo anno del secolo XIX. Detto ciò, mi sembra utile riportare un brano relativo alla presentazione di quest'opera antologica, che si trova sul risvolto della sovra copertina:

 

Questo volume è un'antologia delle scrittrici italiane, organizzata in modo storicamente ordinato, in grado di offrire del fenomeno un panorama completo. La scelta effettuata dalle curatrici consente una lettura di grande interesse, suggestiva, appassionante, che documenta, anche col sussidio di agili ed esaurienti profili biografici, le variegate dinamiche di una molteplice vocazione alla scrittura: da chi intendeva emulare amici letterati a chi perseguiva un successo professionale o un mezzo di elevazione sociale; da chi si abbandonava all'improvvisazione a chi cercava la disciplina di un'accorta ricerca stilistica; da chi affidava alla pagina i più segreti moti del cuore, senza prevederne la pubblicazione, a chi, magari analfabeta, vergava faticosamente il foglio per ordine del confessore.

 

Devo infine constatare che il lavoro delle curatrici è stato veramente encomiabile, e grazie a questo volume è possibile conoscere - anche se soltanto parzialmente - personaggi femminili di indubbio valore, forse trascurati dai critici letterari del passato e del presente, che sarebbe opportuno studiare e approfondire maggiormente. Il mio discorso vale soprattutto per l'ambito poetico, che certamente è ben rappresentato nelle 265 pagine di questo volume. A tal proposito - e qui chiudo - riporto i nomi di tutte le 54 scrittrici presenti nell'antologia, aggiungendo un asterisco a coloro che figurano come poetesse.

 


 


Compiuta Donzella*, Caterina da Siena, Alessandra Macinghi Strozzi, Antonia Giannotti Pulci*, Lucrezia Tornabuoni*, Camilla Battista Varano, Veronica Gambara*, Vittoria Colonna*, Tullia d'Aragona, Chiara Matraini*, Laura Terracina*, Isabella di Morra*, Gaspara Stampa*, Laura Battiferri Ammannati*, Veronica Franco*, Francesca Turrini Bufalini*, Maria Maddalena de' Pazzi, Veronica Giuliani, Petronilla Paolini Massimi*, Faustina Maratti Zappi*, Maria Cecilia Baij, Maddalena Morelli*, Elisabetta Caminèr Turra*, Eleonora de Fonseca Pimentel, Maria Luisa Cicci*, Isabella Teotochi Albrizzi, Teresa Bandettini Landucci*, Diodata Saluzzo Roero*, Costanza Monti Perticari, Amalia Solla Nizzoli, Maria Giuseppina Guacci Nobile*, Cristina Trivulzio Belgiojoso, Caterina Percoto, Luigia Codemo, Erminia Fuà Fusinato*, Maria Alinda Bonacci Brunamonti*, Neera, Contessa Lara*, Emma Perodi, Vittoria Aganoor Pompilj*, Matilde Serao, Carolina Invernizio, Enrichetta Capecelatro*, Annie Vivanti, Luisa Giaconi*, Ada Negri*, Grazia Deledda, Sibilla Aleramo*, Amalia Guglielminetti*, Anna Banti, Gianna Manzini, Lina Galli*.

 

domenica 22 agosto 2021

La poesia di Trilussa

 

Pur non essendo un appassionato di poesia dialettale, da quando leggo libri di versi, a volte mi sono imbattuto in pagine di antologie che riportavano versi in dialetto. Essendo io romano, è naturale che andassi a cercare prevalentemente i poeti nati nella capitale; tra costoro, colui che mi ha attratto di più è senz'altro Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, Roma 1871 - ivi 1950). In verità, alcuni suoi versi, li avevo già letti fin da bambino, trovandosi essi nei testi scolastici per una evidente semplicità che ne consentiva la comprensione anche ad un pubblico infantile. Trilussa è stato, tra l'altro, uno dei primi poeti che ho letto, proprio perché il suo dialetto romanesco non era "puro", ma contaminato dalla lingua italiana, e quindi tutt'altro che complicato. Se è vero che - parlando di poeti dialettali romani - Giuseppe Gioacchino Belli rimane e forse rimarrà sempre il numero uno in assoluto, è altrettanto vero che Trilussa, in popolarità, superò e tutt'ora supera quest'ultimo. La sua poesia, come giustamente affermarono molti critici, ebbe larga fortuna grazie ad alcuni elementi base che la contraddistinguono: l'ironia, l'umorismo, la satira e il sentimentalismo. Altro elemento che ha permesso al Trilussa di affascinare una larga fascia di pubblico, è stato quello favolistico; la favola, con gli animali che parlano e che rispecchiano i pensieri e le azioni degli esseri umani, si ritrova molto spesso nei componimenti del poeta romano, il quale certamente ebbe ben presenti favolisti famosi come Esopo e La Fontaine. Ma le favole del Trilussa non hanno alcunché di moraleggiante; al contrario, tendono a far emergere tutti i lati peggiori dell'umanità; poiché, se determinati comportamenti animaleschi sono dettati soltanto dall'istinto, nei personaggi trilussiani vengono fuori parecchi difetti prettamente umani, che vanno dall'egoismo al menefreghismo, dall'avarizia all'invidia, dalla cattiveria alla spietatezza. Qualcuno, inoltre, ha notato in determinati versi, una certa amarezza mista a malinconia, elementi questi che possono perfino avvicinarlo ai crepuscolari; d'altronde, egli visse a Roma nei primissimi anni del XX secolo, proprio quando nacque il gruppo romano che aveva come punto di riferimento Sergio Corazzini; i poeti di questo cenacolo, sicuramente dovettero conoscerlo (se non di persona, almeno dalle tante sue poesie che in quel tempo venivano pubblicate sui giornali e sulle riviste più popolari), e forse più di qualcuno lo imitò¹. Chiudo riportando dapprima tutte le opere poetiche pubblicate dal Trilussa, quindi tre fra le sue poesie che più mi piacquero, leggendo l'unico libro di versi del poeta romano che acquistai quasi trent'anni or sono.

 

NOTE

1) Da ricordare che Sergio Corazzini, giovanissimo, pubblicò su alcune riviste romane, diverse poesie in romanesco che avevano alla base una buona dose di satira.

 

 

Opere poetiche

 

"Stelle de Roma", Cerroni & Solaro, 1889.

"Er mago de Borgo", Cicerone, 1890.

"Quaranta sonetti romaneschi", Voghera, 1895.

"Altri sonetti", Folchetto, 1898.

"Favole romanesche", Voghera, 1901.

"Caffè-concerto", Voghera, 1901.

"Er serajo", Voghera, 1903.

"Le favole", Voghera, 1908.

"I sonetti", Voghera, 1909.

"Nuove poesie", Voghera, 1910.

"Le storie", Voghera, 1912.

"Omini e bestie", Voghera, 1914.

"Le finzioni della vita", Cappelli, Rocca S. Casciano 1918.

"Lupi e agnelli", Voghera, 1919.

"Le favole", Modernissima, 1920.

"La gente", Mondadori, 1927.

"Libro n. 9", Mondadori, 1929.

"Giove e le bestie", Mondadori, 1932.

"Libro muto", Mondadori, 1935.

"Acqua e vino", Mondadori", 1945.

"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1951.

 

 


 

 

Testi

 

 

 

LA MASCHERA

 

Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!

E ancora tengo er grugno de cartone

che servì p'annisconne quello mio.

Sta da vent'anni sopra un credenzone

quella Maschera buffa, ch'è restata

sempre co' la medesima espressione,

sempre co' la medesima risata.

Una vorta je chiesi: - E come fai

a conservà lo stesso bon umore

puro ne li momenti der dolore,

puro quanno me trovo fra li guai?

Felice te, che nun te cambi mai!

Felice te, che vivi senza core! -

La Maschera rispose: - E tu che piagni

che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni

che la gente dirà: Povero diavolo,

te compatisco... me dispiace assai...

Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!

Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:

e se te pija la malinconia

coprete er viso co' la faccia mia

così la gente nun se scoccerà... -

D'allora in poi nascónno li dolori

de dietro a un'allegria de cartapista

e passo per un celebre egoista

che se ne frega de l'umanità!

 

 (da "Poesie scelte", volume primo, Mondadori, Milano 1993, p. 151)

 

 

 

 

AVARIZZIA

 

Ho conosciuto un vecchio

ricco, ma avaro: avaro a un punto tale

che guarda li quattrini ne lo specchio

pe' vede raddoppiato er capitale.

 

Allora dice: - Quelli li do via

perché ce faccio la beneficenza;

ma questi me li tengo pe' prudenza... -

E li ripone ne la scrivania.

 

(da "Poesie scelte", volume secondo, Mondadori, Milano 1993, p. 109)


 

 

  

FELICITÀ

 

C'è un'Ape che se posa

su un bottone de rosa:

lo succhia e se ne va...

Tutto sommato, la felicità

è una piccola cosa.

 

(da "Poesie scelte", volume secondo, Mondadori, Milano 1993, p. 278)

 

 

 

lunedì 16 agosto 2021

Domanda vana

 

Tu guardi taciturnamente il mare che dorme

che chiedi alla fuggente onda che mai non sta?

Ecco: e in alto, nel bacio lunare, a torme a torme,

valicano leggere nubi l'immensità.

 

Chiedi anche a loro, o donna, perché si viva: e quanto

resti eterno nel mondo, come chiedesti al mar...

Dorme alla notte immensa l'immenso camposanto:

chiedi qual legge ha il mondo. Ei ti risponde: Andar.

 

Dove? Non sa. Ma tutto tutto è moto. Che resta

delle cose che il flutto suo rispecchiava un dì?

Andare, andare, andare: è la legge funesta

e inutile del mondo. Dice il mare così.

 

Chiedi qual legge ha il mondo alle nuvole lente

che veleggiano il cielo ne l'insonnia lunar.

Noi pellegrine eterne passiamo eternamente:

legge triste ed inutile: ma legge unica, andar.

 

Tu dai pensosi e tristi occhi sognanti, o bianca

donna, chiedi al poeta perché si viva: ohimè,

l'anima del poeta non è che un'onda stanca,

che una passante nuvola l'anima sua non è.

 

 


 

Domanda vana è il titolo di una poesia di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca, 16 agosto 1870 - Viareggio, 14 febbraio 1943), presente nella raccolta La donna del velo, pubblicata in Torino da S. Lattes & C. Editori, nel 1905. Più esattamente si trova alle pagine 89 e 90 di detto volume (vedi foto in alto). L'autore è un poeta che fu tenuto in grande considerazione, almeno da alcuni poeti crepuscolari (mi riferisco in particolare al gruppo torinese); d'altronde le tematiche, le atmosfere e gli stati d'animo trasfusi in versi dallo scrittore toscano, già dalle primissime raccolte pubblicate nell'ultimo quindicennio del XIX secolo, avevano molti elementi che si avvicinavano a quelli di Gozzano, Corazzini e sodali. Qui si riporta una poesia emblematica, che tende a dimostrare l'inutilità della vita, paragonata alle onde del mare che s'infrangono di continuo sulla riva senza un motivo plausibile, o simile alle nuvole che attraversano di continuo il cielo, e passano e ripassano all'infinito, senza un perché, se non quello di un insensato andare perpetuo. Come è usuale nei versi del Giorgieri Contri, in questo contesto c'è una presenza femminile, che è poi colei che formula la fatidica domanda del titolo: "Perché si vive?". A questo dilemma il poeta sa rispondere semplicemente e con sicurezza: non esiste un perché alla vita, ma è anche inutile farsi queste domande: bisogna soltanto andare avanti, perché questa è l'unica "legge funesta del mondo", e anche l'anima del poeta è simile all'onda stanca che muore sulla riva, anch'essa somiglia ad una qualsiasi nuvola che attraversa il cielo sereno, per finalmente scomparire, consapevole della propria inutilità.