domenica 15 novembre 2020

La poesia di Umberto Saba

 Pur pensando che è del tutto inutile riaffermarlo, comincio col dire che Umberto Saba (Trieste 1883 - Gorizia 1957) è sicuramente uno dei migliori poeti italiani del Novecento. La sua poesia è stata ed è per me fondamentale, e se dovessi utilizzare tre aggettivi per meglio evidenziarla, la definirei "onesta", "limpida" e "autentica". A proposito del primo aggettivo, chi ben conosce l'opera letteraria dello scrittore triestino, sa quanto egli stesso si preoccupasse dell'onestà del poeta: qualità fondamentale per scrivere versi che rispecchino la "vera" anima di un essere umano. Nell'arco di un quarantennio che si dipana tra la prima raccolta, uscita nel 1911, all'ultima, che risale al 1951, Saba non ha mai mutato più di tanto il suo assai coerente criterio nello scrivere versi; nel Canzoniere che cominciò a curare già nel 1921, inserì le poesie vecchie e nuove, che formano una sorta di vicenda biografica ed esistenziale. Parlando sempre del Canzoniere, penso che i migliori esiti della poesia sabiana si trovino nelle tre sezioni intitolate nell'ordine: Casa e campagna, Trieste e una donna e La serena disperazione, e che, cronologicamente, corrispondono ai versi scritti nel secondo decennio del XX secolo. Qui il poeta triestino mostra in modo ineccepibile uno stile e una padronanza di scrittura difficilmente ritrovabile in altri poeti del suo tempo, soprattutto quando parla con intenso e appassionato amore della sua città natale, o quando si lascia andare a confessioni in cui esterna un malessere che lo accompagnerà per tutta la vita, e che ben presto sarebbe sfociato in una non lieve nevrosi. Bellissime sono anche le sue ultime raccolte, in cui emerge una maggiore tendenza alla sintesi e una malinconia propria di chi sente ormai vicino il termine della sua esistenza. Molti critici tentarono più volte d'inserire Saba in correnti e scuole letterarie, sbagliando clamorosamente. La sua poesia fa storia a sé, sia prendendo come riferimento il solo panorama italiano, sia quello europeo del XX secolo. Si può però affermare con certezza che il nostro ebbe dei punti di riferimento precisi, che vanno dal Petrarca al Leopardi, non escludendo altri esempi poetici di estrema importanza, provenienti da diversi paesi europei; determinate, per la scrittura di alcuni suoi versi, fu anche la lettura di filosofi e psichiatri come Nietzsche e Freud.

Concludendo, dopo aver elencato le opere poetiche da lui pubblicate in vita, trascrivo dal volume Tutte le poesie, tre stupende liriche di Saba.

 

 

Umberto Saba in un ritratto di Vittorio Bolaffio

 

Opere poetiche

 

"Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911.

"Coi miei occhi (Il mio secondo libro di versi)", Libreria della Voce, Firenze 1912.

"Cose leggere e vaganti", La Libreria Antica e Moderna, Trieste 1920.

"Il Canzoniere 1900-1921", La Libreria Antica e Moderna, Trieste 1921.

"Preludio e canzonette", Edizioni di «Primo Tempo», Torino 1923.

"Figure e canti", Treves, Milano 1926.

"L'Uomo", Trieste 1926.

"Preludio e fughe", Edizioni di Solaria, Firenze 1928.

"Tre poesie alla mia balia", Trieste 1929.

"Ammonizione e altre poesie 1900-1910", Trieste 1930.

"Tre composizioni", Treves, Milano 1933.

"Parole", Carabba, Lanciano 1934.

"Ultime cose (1935-1938)", Collana di Lugano, Lugano 1944.

"Il Canzoniere (1900-1945)", Einaudi, Torino 1945.

"Mediterranee", Mondadori, Milano 1946.

"Uccelli", Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1950.

"Uccelli - Quasi un racconto (1948-1951)", Mondadori, Milano 1951.

"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994.

 

 

Piatto anteriore del volume: Umberto Saba, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1994

 

 

Testi

 

LA CAPRA

 

Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d'erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

 

Quell'uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

 

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 78)

 

 

 

 

CITTÀ VECCHIA

 

Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un'oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.

 

Qui tra la gente che viene che va

dall'osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l'infinito

nell'umiltà.

 

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d'amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s'agita in esse, come in me, il Signore.

 

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 91)

 

 

 

 

DE PROFUNDIS

 

Io vivo... eppure sono un morto, sono

dentro un abisso; ed odo, ivi sepolto,

la vita che tra voi s’agita, il suono

 

della vita, ormai vano; odo la voce

mia che m’è nuova; può affissarmi in volto

l’amico, il mal ridirmi che gli nuoce,

 

ma dinanzi ha un’immagine mentita;

sorride, leva i miei occhi al suo viso

uno spettro quassù della mia vita.

 

Io giaccio; ed ho solo un pensiero, godo

solo un pensiero: sono morto, ucciso

da me in sì strano, in sì felice modo

 

che serbo ai cari miei la mia giornata,

anzi più mossa, più fattiva ancora,

ad opere di buon fine ordinata;

 

ed a me la mia notte senz’aurora.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 166)





mercoledì 11 novembre 2020

La fornace

 

Bambina, nelle sere di novembre

poi che sui monti c'era

la guerra

e la legna costava

assai – come il latte, come il pane –

e la nebbia pesava

gelida sulla terra,

la mamma mi portava

– per scaldarci –

alla fornace.

 

Riflessi di brace

tingevano l'androne nero:

rossa nel fondo

divampava

la cupola del forno.

Dall'alto un vecchio scagliava

fascine e fascine.

Giù i tegoli in cerchio

sembravano una ruota

immota

a cui fosse mozzo la fiamma.

 

Si arrossava

la creta al centro:

verde era ancora al margine

dove più lento

arrivava il calore.

Si sgranavano in uno stupore

d'incanto – le pupille bambine.

Il vecchio dall'alto scagliava

fascine e fascine.

 

Si ritornava

per l'androne nero

con un bruciore di vampa negli occhi.

Fuori, un'immensa fontana

nella nebbia lanciava

il suo getto bianco e faceva

rabbrividire.

La casa pareva

lontana,

la strada sembrava non finire

più. Era notte, era novembre,

sui monti c'era

la guerra.

 

16 settembre 1933

 



 

La fornace è il titolo di una poesia scritta da Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938) e la si può rintracciare nel volume La giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere, pubblicato dall'editore Scheiwiller nel 1995. All'interno di questo libriccino vi sono quattro sezioni; nella prima, alle pagine 32 e 33 (foto sopra), si trova la poesia che ho trascritto. Gli stessi versi, che fino a quel momento erano del tutto inediti, furono quindi inseriti nel volume Parole (Garzanti, Milano 1998) con tutte le poesie della Pozzi, edite e inedite.

Come si può intuire facilmente, in questi versi la poetessa fa rivivere un ricordo infantile, che appartiene agli ultimi anni della Prima Guerra Mondiale (1917 o 1918); era certamente un periodo molto difficile, più che mai per coloro che, soldati, combattevano al fronte; ma anche le famiglie rimaste nelle case, composte quasi esclusivamente da donne, anziani e bambini, dovettero affrontare anni di stenti e privazioni, proprio a causa del conflitto che si stava svolgendo. Il ricordo della Pozzi riguarda l'inizio della stagione invernale, che dalle parti dove nacque, coincide con la seconda metà di novembre. Il freddo che cominciava a farsi sentire in quei giorni, come dice la poetessa, spingeva la madre a recarsi insieme a lei presso una fornace non lontana dalla loro abitazione. Si trattava del luogo più vicino in cui era possibile scaldarsi, facendo scomparire del tutto la sensazione di gelo che era facile provare in luoghi totalmente privi di fonti di calore. La Pozzi, benché ancora molto giovane (quando scrisse questi versi aveva appena ventun'anni), è riuscita a creare un'atmosfera cupa e nello stesso tempo affascinante, descrivendo una situazione realmente vissuta da lei, sebbene in età infantile, avendo la rara capacità di farla rivivere in modo del tutto particolare: mostrandola così come a lei appariva allora, con i suoi occhi e con la sua mente di bambina; ecco allora profilarsi una serie d'immagini avvolte nel mistero, che sembrano far parte di un romanzo gotico, o di una favola terribile. Insomma, ecco un altro capolavoro poetico di una ragazza che aveva un talento straordinario e che, purtroppo, assai presto decise di andarsene da questo mondo.  

domenica 8 novembre 2020

Poeti dimenticati: Domenico Milelli

 Nacque a Catanzaro nel 1841 e morì a Palermo nel 1905. Dopo aver studiato nella città natale e a Crotone, iniziò a girovagare per l'Italia stazionando in molte città italiane del nord, del centro e del sud. Visse sempre alla giornata, facendo i più disparati mestieri. L'ultima fase della sua esistenza risultò problematica, sia per i malanni che lo colpirono, sia per le disagiate condizioni economiche in cui si ritrovò. Fu poeta ribelle in tutti i sensi, pur mostrando alcuni accenti romantici. Va considerato tra i migliori autori di versi del secondo Ottocento italiano, malgrado risulti troppo spesso escluso dalle antologie che si occupano di questo specifico periodo storico. La sua opera poetica, difficilmente reperibile, si disperde in svariati volumi e volumetti, i cui editori furono spesso occasionali.

 

 

Opere poetiche

 

"Alcuni versi", Tip. del Pitagora, Catanzaro 1869.

"In giovinezza. Versi (1857-1873)", Tip. Asturi, Catanzaro 1873.

"Hjemalia", Milano 1877.

"Odi pagane", Galli, Milano 1879.

"Odi alla povertà", Bologna 1879.

"Canzoniere", Sommaruga, Roma 1883.

"Rime" (con lo pseud. di Conte di Lara), Sommaruga, Roma 1884.

"Nuovo canzoniere", Tip. F. Principe, Cosenza 1888.

"Rottami", L'Avvenire Letterario, Milano 1890.

"Risonanze", Pierro, Napoli 1891.

"Il libro del vespro", Tip. della Lotta, Cosenza 1894.

"Poemi antichi", Aprea, Cosenza 1894.

"Prometeo", Salvatore Marino, Cosenza 1899.

"Laocoonte", Aquila 1899.

"Poemi della notte", Tip. Piazza, Avola 1903.

"Kokodé. Rapsodia", Piccitto e Antoci, Ragusa 1903.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 265-267)

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1246-1247).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (p. 211).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. III, pp. 185-194).

"Poeti della Scapigliatura", a cura di Mario Petrucciani e Neuro Bonifazi, Argalìa, Urbino 1962 (pp. 227-232).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 563-566).

"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (pp. 1816-1822).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 129-138).

 

 

 

Testi

 

S'IO NON SOGNASSI MAI...

 

S'io non sognassi mai, se non potessi,

sull'ali azzurre de la fantasia,

volar, volare a' tuoi fervidi amplessi,

maliarda del core, o poesia;

 

se restare inchiodato io qui dovessi

a 'l nero scoglio de la vita mia,

a lottar sempre co' nemici istessi,

cui son parenti invidia e codardia;

 

se mi vietassi inebbriarmi a' tuoi

labbri stillanti, o Venere divina,

se Lieo mi negasse i doni suoi,

 

a' quattro venti anch'io ti griderei

cieca noverca e lurida sgualdrina;

anch'io, Natura, ti bestemmierei.

 

(da "Canzoniere", Sommaruga, Roma 1884, p. 25)

 

 

 

 

INCANTESIMO

 

Vorrei che il mondo tutto in un giardino

per opra di una maga si cangiasse,

e fosse sempre limpido mattino,

e fosse ovunque fiori ed olezzasse.

 

E, in mezzo a fior, vorrei di marmo fino

ch'alto un palagio e grande si levasse,

e te, del core mio sogno divino,

quivi la maga subito portasse.

 

Bianco e amante colombo io ne verrei

a insanguinar le penne e a franger l'ale

nel tuo verone e ti risveglierei.

 

Poi, nelle stanze tue cangiando aspetto,

te, core del mio cor, stringer vorrei,

trepidante d'amor, forte sul petto.

 

(da "Rime", Sommaruga, Roma 1884, p. 13)

 

 

 

 

DOLCE PASSATO

                        (da P. Bourget.)

 

  Dal tuo funebre talamo, rispondi,

qual magico potere or ti rileva

dolce passato, mentre incerta e scura

cala la notte? Sta pallor di morte

su la tua fredda bocca, e ne' tuoi grandi

occhi, che non àn guardo, io de le spente

speranze leggo la immutabil pace.

Pur te fantasma d'una vita umana,

te fantasma di un'anima radduce

a me Pietà. Tu dal profondo gorgo

de' dì, che furo tra le ceree dita

rechi la rosa de' ricordi colta

nel cimitero, dove dormon tutti

gli orgogli della forte giovinezza

e l'alte gioie e i ben diletti affanni.

Schiude la rosa i petali odorati

e vagamente le voci d'un tempo

tra i molli e malinconici profumi

ricantano le lor dolci canzoni.

 

(da "Risonanze", Pierro, Napoli 1891, p. 20)

 

mercoledì 4 novembre 2020

Principio di novembre


Oggi l'aria è chiara e fine

e i monti son cupi e tersi,

poveri anni persi

in fantasie senza confine.

 

Qui ogni pietra ha un contorno

ogni fibra un colore,

i rami tendono intorno

una rigidità senza languore.

 

Foglie gialle cadute

per troppa secchezza,

segnano l'asprezza

di grandi arie mute.

 

Il cielo è azzurro di profondità

le cose son ferme e recise.

Passò un respiro d'eternità

in queste solitudini derise.

 

Novembre 1915.



 


Queste quattro quartine furono scritte dal poeta Carlo Stuparich (Trieste 1894 - Monte Cengio 1916) mentre era al fronte nella cosiddetta "Grande Guerra", ovvero nella Prima Guerra Mondiale che, per quanto riguarda la nazione italiana, ebbe inizio nel 1915 e terminò nel 1918. Stuparich fu una delle vittime di questo sciagurato conflitto: vistosi caduto ormai in mano ai nemici austriaci, non volle divenirne prigioniero e si tolse la vita quando non aveva ancora compiuto ventidue anni. In vita non pubblicò nulla; tutti i suoi scritti furono raccolti e pubblicati dal fratello Giani - anch'esso scrittore - nel 1919 col titolo Cose e ombre di uno. La poesia che compare in questo post, l'ho trascritta dalla terza edizione del volume citato, pubblicato dall'editore Sciascia di Caltanissetta nel 1968; più precisamente, la si può leggere alla pagina 47. Nei versi qui presenti Stuparich immortala un momento autunnale, d'inizio novembre, vissuto da un soldato che, forse grazie ad un periodo di momentanea rilassatezza, ha l'opportunità di godersi il paesaggio che lo circonda; ne esce una poesia che descrive delle sensazioni e delle impressioni molto particolari; nell'ultima quartina è presente  una meditazione che vorrebbe dimostrare una sorta di immobilità permanente della natura (ma la parola "respiro" sta a dimostrare che si tratta soltanto di un illusione); più difficile invece è l'interpretazione dell'ultimo concetto espresso dallo scrittore triestino, poiché, se è facilmente comprensibile la sensazione di solitudine provata da una moltitudine di ragazzi completamente diversi fra loro, ritrovatisi improvvisamente arruolati e spediti in luoghi mai visti in precedenza per combattere una guerra assai dura e crudele, non si comprende l'atteggiamento derisorio relativo alla solitudine stessa. Carlo Stuparich, come già detto, morì giovanissimo; pure, leggendo i suoi scritti presenti nell'unico libro che li raccoglie, s'intuisce che avrebbe potuto fare molta strada, sia come poeta che come prosatore.

 

domenica 1 novembre 2020

La bellezza femminile in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Sebbene esistano delle caratteristiche "universali" per riconosce, amare, raffigurare ed esaltare la bellezza femminea, bisogna aggiungere che tale bellezza può essere interpretata, giudicata e osservata in modi diversissimi, divenendo quindi una realtà soggettiva. Quest'ultima asserzione la si può dimostrare andando ad analizzare le tante opere della storia dell'arte, in cui la fanno da protagoniste le bellezze femminili, che, fin dalla comparsa dell'uomo sulla terra, appaiono in grandissima quantità, pur evidenziando elementi disparati e a volte contraddittori, riguardanti i canoni classici di bellezza. Abbondanza di carni o magrezza; colore chiaro o scuro della carnagione, dei cappelli e degli occhi; seni piccoli o grandi; estrema giovinezza o elevata maturità... ragazze e donne che appaiono nelle pitture, nei disegni, nelle sculture e anche nelle fotografie degli artisti, sono diversissime tra loro, e ognuno di coloro che le osservano può, a seconda del suo gusto personale, giudicarle più o meno belle. Qui però si parla di poesia, e in particolare dei poeti italiani del Novecento; anche in queste dieci liriche la bellezza viene trattata in maniere differenti: c'è chi dialoga con una bella donna, affermando che la bellezza è una sorta di dono divino; chi, fortemente attratto dal corpo, si lascia trascinare dai sensi e prefigura il rapporto sessuale; chi rimane colpito particolarmente da una parte soltanto del corpo femminile, come il volto o i capelli; chi è attratto, più che dal corpo, dalla voce femminile; chi vede nella beltà di una donna qualcosa di ultraterreno; chi infine paragona la bellezza femminile a quella dei fiori, delle stelle o di altri entusiasmanti spettacoli naturali. Insomma, ognuno tratta il tema a modo suo.

 

 

 

LA BELLEZZA FEMMINILE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

BELLEZZA E BELLEZZA

di Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 - Monza 1985)

 

Improvvisa tu chiedi, argutamente

Fuggitiva, che merito sarebbe

Nascer bella. C'è bellezza e bellezza,

E s'è sortita ad avvivar la vita,

L'animo ad animare,

Non è question di merito: è dono!

La tua benemerenza è d'esser nata

A amare e farti amare, a dare vita

All'animo ed animo alla vita.

 

(da "Versi e rime, Primo Libro, La stella del mattino", Mondadori, Milano 1971, p. 82)

 

 

 

 

LA TUA BELLEZZA

di Marcello Camilucci (Padova 1910 - Roma 2000)

 

La tua bellezza si squaderna come la rosa.

Un petalo al giorno ne bruco e salgo

più su come ladro per più vedere

nel mondo e non colgo che la tua pace.

Falso ogni altro acquisto ma la cenere

del fondo ha ancora il sapore della speranza,

ma il buio che geme ha nostalgia del tuo raggio.

 

Gorgoglia il tuo nome d'aria,

col profumo risponde e col canto, il verde

dei prati è il tuo passo fermo e sereno.

Nel cuore dell'uomo appassisce la rosa,

chi sopra vi riposa ne soffre le spine

pur se alla felicità non sfugga l'aroma

e l'amore, alla sua estate, le accolga felice.

 

Dà ai cieli il colore della nostalgia e punge

come ortica i sonni del piacere e della fatica.

La tocchi con gli occhi e nel bruciore ritrovi

la notte stellata che fu il tuo grembo,

il sole squillante che fu la tua fanfara.

E dici grazie, nel silenzio effuso,

per le parole, che non muove la voce

ma il vento remoto della Tua presenza.

 

(da "Tra il fuoco e la luce", Quaderni di «Persona», Roma 1970, p. 16)

 

 

 

 

BELLA DAI BEI CAPELLI

di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984)

 

O bella dai bei capelli

quando il tamburo tace

dagli occhi ti diparti

e la stella fuggi che s'increspa

come l'ombra del chiodo sul muro.

Io sono l'ombra il chiodo il muro

e il mesto silenzio del tamburo.

O bella dai bei capelli

quando lo specchio si appanna

per nuove lune vai e nuove terre.

 

(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 93)

 

 

 

 

FEDONE A MÈLITTA

di Giuseppe Lipparini (Bologna 1877 - ivi 1951)

 

Mèlitta, tu lo sai: non cerco l'amor de le donne;

anzi nessuna, giammai, mi tenne sul ventre impudico.

 

Unica Filogìna entrò nel mio letto una notte;

ma Filogìna, si sa, è una donna e non è.

 

Pure tu sei così bella, ch'io piego in pensarti i ginocchi,

come davanti alla dea che Prassitèle scolpì.

 

No, non mi tentano i baci, le strette furenti, ed i molli

voluttuosi abbandoni, né le riposte beltà.

 

Pure verrò da l'etèra che splende fra tutte le donne

come la luce del sole sopra le stelle notturne.

 

Presso l'altar d'Afrodite attendimi, bianca ed ignuda:

fa che l'incenso bruci come nei templi sul mar.

 

Ardano mille faci; non arda, ti prego, il tuo cuore:

che se volessi baciarmi, Mèlitta!, io fuggirei.

 

Voglio restar su la soglia, mirarti così lungamente,

ridere e piangere insieme, senza sapere il perché.

 

(da "Le foglie dell'alloro", Zanichelli, Bologna 1916, p. 390)

 

 

 

 

CHI È QUESTA IMPROVVISA DEA CHE APPARE?

di Arturo Onofri (Roma 1885 - ivi 1928)

 

Chi è questa improvvisa dea che appare?

Occhi diafani stellano di luna

Sotto il manto ondeggiante delle chiome.

Da quella bocca, che sui denti abbonda

nelle labbra imbronciate, come un fiore,

la voce non la intende altri che il mare.

Perché venne fra noi come una donna?

Quel suo piccolo capo trasparisce

di mattinate, d’angioli e di giochi,

e nel girarsi addita in sua dolcezza

che le pietre traboccano di foglie,

le flore mettono ali, e mandre brute

s’appassionano d’ansie e di pensieri.

E noi, pregando che assuma una figura

di beltà, la parola in noi rinchiusa,

ne intravediamo, come un sogno, il volto

nel modello che in lei donna respira.

 

(da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927, p. 22)

 

 

 

 

BRUNA, SELVAGGIA...

di Nino Oxilia (Torino 1889 - Monte Tomba 1917)

 

Bruna, selvaggia - Le pupille vive

strisciate d'oro, ombrate da le ciglia

lussuriose e morbide. In vermiglia

bocca i dentini fior delle gengive.

 

Nuca perfetta. Collo ove s'ingiglia

la neve e l'ambra in ombre fuggitive

che dilagan pel seno ove lascive

s'ergon le punte in breve meraviglia.

 

Amo la sua magrezza adolescente

e la sua forte nudità pagana

così viva di fremito e languore,

 

quando la bocca arrotondata a cuore

versa nella mia bocca avida e umana

la sua lussuria disperatamente.

 

(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, p. 84)

 

 

 

 

BELLA DONNA

di Francesco Pastonchi (Riva Ligure 1874 - Torino 1953)

 

Bella donna soave che parlava

era come veder nascere il giorno

lungo il mare con voli di colombe

tra le palme e spiegate vele uscire.

Una gemma le sfavillò sul collo,

tremula ultima stella nell'aurora.

 

(da "Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949, p. 91) 

 

 

 

 

BELLEZZA MONTANARA

di Agostino Richelmy (Torino 1900 - Collegno 1991)

 

Vera divina tua bellezza, o bionda

come il letame su cui scalza stai,

riflessa è in un garzon che dalla sponda

del carro alza il tridente in via vai.

 

("Barbonse - Valle d'Aosta")

 

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1992, p. 183)

 

 

 

 

BELLA FIGLIUOLA

di Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 - Portici 1953)

 

Bella figliuola che non parli mai

e ti tieni nascosta nei capelli

vorrei indovinare gli anni che hai

dagli occhi che mi paiono di agnelli.

Ti vedo che contenta te ne vai

all'erba che si fa male

già non si torna mai.

 

(da "Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004, p. 265)

 

 

 

 

PELLEGRINA CELESTE

di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976)

 

Pellegrina celeste, placata

la rissa dei venti,

strana riappari agli occhi dei viventi

col tuo viso di vergine annunziata.

 

Porti attorno alla chiara testa

la festa delle cose leggiere vaganti:

le rondini turchine balenanti

nell'innumerevole giro,

le bianche nuvole che salgono lente

la china del cielo

e gocciano latte

su le pallide acque stupefatte,

la danza smarrita delle farfalle,

bianche con bianche gialle con gialle,

le aperture del grigio orizzonte

su le plaghe lontane cristalline

dove abitano ancora le memorie bambine.

 

Ma chi sa, bella, che cosa chiudi

tra l'esili braccia congiunte in croce,

chi sa quale dono ci porti

di dolce bene o di male atroce

serrato sui piccoli seni nudi...

 

(da "Poesie", Mondadori, Milano 1962, pp. 179-180)



Luis Ricardo Falero, "A classical beauty"
(da questa pagina web)