domenica 2 agosto 2020

La poesia di Rocco Scotellaro


Ricordo ancora la prima poesia che lessi di Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 - Portici 1953): faceva parte di una vecchissima antologia scolastica ed era assai breve. Da quei pochissimi versi sarcastici, duri, epigrafici, fui immediatamente attratto, intuendo di già il grande talento del poeta lucano. Ritrovai altre sue liriche in varie antologie poetiche, ma ci volle un bel po' di tempo affinché riuscissi ad acquistare il suo volume di versi più famoso: È fatto giorno. Ora, e sono passati già diversi anni dalla sua uscita, è possibile leggere un libro che raccoglie l'intero corpus poetico di Rocco Scotellaro. Questo poeta e questo politico (fu sindaco di Tricarico a soli ventitre anni) è stato ed è un personaggio atipico, di quelli che certamente lasciano il segno. Dopo la sua precoce dipartita, nelle terre dove nacque e visse divenne un mito. Il motivo di tale mitizzazione risiede nella sua breve, coraggiosa e intensa vita, che lo vide a fianco dei contadini del sud Italia - siamo nel secondo dopoguerra - che lottavano per sopravvivere e per avere un pezzo di terra da coltivare; allo stesso modo, Scotellaro sosteneva e incoraggiava i braccianti, i pastori e tutti coloro che vivevano in condizioni miserevoli soltanto perché nati nel meridione italiano. E il poeta lucano dovette subire anche un periodo di carcere, pur essendo innocente, perché accusato di peculato. Uscito di galera, Scotellaro, probabilmente perché amareggiato dalle ingiustizie subite, lasciò definitivamente la politica, ma non la scrittura, e in particolare la poesia (gli ultimi suoi versi risalgono a poche ore prima della morte). Ma accanto all'impegno politico, Scotellaro riuscì a stupire i lettori per la palpabile passione con cui riusciva a descrivere le bellezze naturali delle terre dove visse, così come l'altrettanta bellezza delle anime che ivi incontrava: povera gente, semplice, troppo spesso votata al sacrificio. Rileggere oggi i suoi versi significa rituffarsi in una realtà ormai lontana, è vero, ma che possiede un fascino arcano, forse dovuto ad una genuinità in gran parte perduta, o forse all'ingenuità di certe figure definitivamente scomparse. Non a caso, il primo che scoprì e che commentò con toni entusiastici i suoi versi (che uscirono postumi) fu Arrigo Levi, ovvero l'autore del romanzo Cristo si è fermato a Eboli, che trasporta nella prosa quel mondo poeticamente descritto da Scotellaro, fatto per la maggior parte di contadini, braccianti e pastori distanti anni luce da altre e ben diverse realtà italiche, come se per loro (e soltanto per loro) il tempo si fosse fermato per sempre, e il progresso - con il conseguente benessere - non fosse mai giunto da quelle parti. Non vi sono dubbi infine, sul fatto che Scotellaro poeta deve qualcosa ad alcuni suoi contemporanei e non; prima di tutto si ritrovano tracce che fanno risalire ai versi degli ermetici meridionali (Quasimodo, Gatto, De Libero e il corregionale Sinisgalli); poi, seppure in minor misura e con caratteristiche differenti, è possibile identificare particolari tematiche già trattate, in altri tempi e in altre realtà ovviamente, da alcuni poeti del secondo Ottocento e del primo Novecento (Rapisardi, Guerrini, Satta e Cena).
Ecco, per chiudere, l'elenco delle opere poetiche di Rocco Scotellaro, seguito da quattro poesie indimenticabili.



Opere poetiche 

"È fatto giorno", Mondadori, Milano 1954 (1982²).
"Margherite e rosolacci", Mondadori, Milano 1978.
"Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004.





Testi


IL GIARDINO DEI POVERI

È cresciuto il basilico
nel giardino dei poveri:
hanno rubata l’aria alle finestre
su due tavole hanno seminato.

Verranno i passeri,
verranno le mosche,
nel giardino dei poveri.

Ora quando non sai che fare
prendi la brocca in mano,
io ti vedrò cresciuta tra le rose
del giardino dei poveri.

(Potenza, 21 ottobre 1948)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", pp. 10-11)




CASA

Come hai potuto, mia madre, durare
gli anni alla cenere del focolare,
alla finestra non ti affacci più, mai.

E perdi le foglie, il marito, e i figli lontani,
e la fede in dio t’è caduta dalle mani,
la casa è tua ora che te ne vai.

(1951)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 109)




TU SOLA SEI VERA

Colei che non mi vuol più bene è morta.
È venuta anche lei
a macchiarmi di pause dentro.
Chi non mi vuol più bene è morta.
Mamma, tu sola sei vera.
E non muori perché sei sicura.

(13 dicembre 1953)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 150)




LETARGO

Nero e lucente
serpente che narri
le tue solitudini al sole
e i ricordi del tuo lungo letargo
tra un rombo ventilante di mosche,
anch’io i miei poveri giorni di calde speranze
ricordo e i luoghi del mio ozio
ove mi sentivo grande e solo al mondo
e solo per un passo molesto
m’imbuca sottoterra,
cadendo dall’orlo della luce.

[1942]

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 165)




domenica 26 luglio 2020

La natura nella poesia italiana decadente e simbolista


Nel descrivere paesaggi, fenomeni e trasformazioni naturali, i poeti decadenti e simbolisti rimangono spesso estasiati; così, gli spettacoli offerti dalla natura divengono qualcosa di arcano e nello stesso tempo incomparabilmente bello. Sia in chi ha una fede religiosa, sia in chi non ce l'ha, nascono emozioni e sentimenti che vanno oltre la sfera del razionale, e la natura diviene così ella stessa divinità (o manifestazione del divino). Però ci sono anche i poeti che, rifacendosi al Leopardi, vedono nella natura una sorta di entità lontana e del tutto indifferente sia alle sorti dell'umanità, sia a quelle di qualunque altro essere vivente; tra questi c'è sicuramente Carlo Vallini, che, come spiega bene il titolo di una sua poesia, in modo assai amaro fa dell'ironia sull'esistenza dell'uomo e sul mondo in cui vive; più subdolo e sarcastico si dimostra Antonio Rubino, che giunge a dire: «...e il mondo è come un cuore, / come un immenso cuore che deliri». Ma più vicino al Leopardi è sicuramente Arturo Graf, che chiaramente accusa la natura di essere ambigua e incomprensibile, e di porre insidie e trappole nei luoghi che appaiono tra i più rassicuranti. Provocatoria è la lirica di Enrico Cavacchioli che, in perfetta sintonia con i proclami del futurismo, incita la natura affinché distrugga il vecchio armamentario del mondo, in modo da poterlo sostituire con una "nuova civiltà". Non mancano coloro che provano a personificare la natura: Giovanni Alfredo Cesareo, per esempio, la vede come un "Avola cieca" che vive in completa solitudine, sedendo "fuori del tempo e fuori dello spazio".



Poesie sull'argomento

Enrico Cavacchioli: "Sermone alla natura" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "Le forme" in "Homo" (1907).
Giovanni Alfredo Cesareo: "L'Avola" in "Le consolatrici" (1905).
Girolamo Comi: "Cantico dell'Argilla" in "Cantico dell'Argilla e del Sangue" (1933).
Ugo Codogni: "Alla Terra" in "Poesia", gennaio 1906.
Italo Dalmatico: "Io, solo, in vetta, a la montagna..." in "Juvenilia" (1903).
Luigi Donati. "Sinfonia" in "Poesia di passione" (1928).
Giulio Gianelli: "Le guide" in "Mentre l'esilio dura" (1904).
Corrado Govoni: "Amo" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "O natura!" in "Medusa" (1990).
Giuseppe Lipparini: "Circe" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Marino Marin: "Provvida è la natura..." in "Sonetti secolari" (1896).
Nino Oxilia: "Sotto i ciuffi dell'erba umida..." in "Canti brevi" (1909).
Guido Ruberti: "All'amica lontana" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "La bellezza del mondo" in «Poesia», ottobre 1908.
Emanuele Sella: "Il Nascimento d'una Pianta Nuova" in "Rudimentum" (1911).
Emanuele Sella: "Infantia mundi" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Giovanni Tecchio: "In alto" in "Canti" (1931).
Federigo Tozzi: "In Maremma" in "La zampogna verde" (1911).
Carlo Vallini: "L'ironia" in "Un giorno" (1907).



Testi

IO, SOLO, IN VETTA ALLA MONTAGNA...
di Italo Dalmatico

Io, solo, in vetta a la montagna. Passa
il corpo di una nuvola fra il monte
e il sole: e l'ombra passa su la fronte
de le rocce. Laggiù, fuma la grassa

terra che l'uomo avidamente squassa,
preme, frange, apre, semina con pronte
mani, levando gli occhi a l'orizzonte
torbido. (Morte generosa ingrassa

le terre onde verrà pane per noi).
Liberi, in alto, i falchi. E laggiù, cupi
servi, pia madre terra, i figli tuoi,

ne l'ombra fredda, dentro il solco breve,
bestie al pascolo, cani a l'acqua, lupi
ringhiosi su gran campi di neve.

(da "Juvenilia", p. 42)




INFANTIA MUNDI
di Emanuele Sella

Madre Natura tiene l'occhio fisso
sopra un bimbo piangente: e questo bimbo
è il Mondo: sulle teste alita un nimbo
di stelle e sotto i piedi ella ha l'abisso.

E come ella si libri sullo spazio
è un cieco enigma, e come ella lo guidi
e lo governi e pe' cammini infidi
ne blandisca col cantico lo strazio.

Ma d'un tratto si sente venir meno
per la fatica; ...odesi in lontananza
un armento che lento lento avanza
nell'aspra notte sotto il ciel sereno.

(da "L'ospite della sera", p. 32)





Alfons Maria Mucha, "Nature"
(da questa pagina web)



domenica 19 luglio 2020

La "dolce morte" in 5 poesie italiane


Sono in tanti a pensare che il passaggio dalla vita alla morte non sia così drammatico come invece accade troppo spesso di immaginare. Per esempio, alcuni tra coloro che si sono trovati in punto di morte per vari motivi e sono riusciti a scamparla, durante l'agonia affermano di aver visto un tunnel con in fondo una luce; ci sono altri che, sempre in quei difficili momenti, hanno provato una estrema leggerezza o cose del genere.
Le cinque poesie che riporto di seguito trattano l'argomento della "dolce morte" ovvero del trapasso senza sofferenza alcuna.
La prima lirica è di un poeta assolutamente sconosciuto; infatti, oltre alla lettera iniziale del nome ed al cognome, ricavati entrambi dalla pagina della rivista dove furono pubblicati questi suoi versi, non sono riuscito a trovare nulla. A proposito del cognome, forse potrebbe essere legato in qualche modo a quell'Antonello Caprino che fu amico di Sergio Corazzini, e che scrisse anch'egli poche poesie pubblicate su alcune riviste del primissimo Novecento. Il tema di Sera, è decisamente pre-crepuscolare, essendo presenti alcuni elementi cari alla corrente poetica di Corazzini e sodali. In un'atmosfera serale, assai sfumata e colma di malinconia, il poeta immagina la sua dolce morte, assistito e confortato nelle sue ultime ore di vita da una fanciulla pia, la quale, una volta sepolto, si recherà presso la sua tomba e col suo inconsolabile pianto dimostrerà un sincero e inalterato amore verso di lui.
La seconda poesia è di Umberto Castelli: anch'egli un poeta del tutto sconosciuto (per lo meno a me). Il tema della lirica ricalca quello della precedente, poiché il poeta, con toni estremamente languidi, invoca una morte dolce, che si sostanzia in una visione dove predomina una luce velata, e dove si respirano a pieni polmoni atmosfere rarefatte e paradisiache; tutto ciò avviene tramite un sogno ad occhi aperti, ovvero una pura illusione in cui l'uomo immagina che il passaggio all'altro mondo avvenga con incredibile facilità e con il massimo piacere.
La terza poesia, di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967), più che di "dolce morte", tratta del desiderio personale di conoscere in anticipo il momento del proprio decesso: ciò permetterebbe al poeta di compiere una serie di atti già premeditati per rendere il tragico evento meno doloroso, anzi, quasi dolce; eloquenti a tal proposito gli ultimi versi in cui Sbarbaro parla del suo congedarsi dalla "dolce" terra carezzando semplicemente un ciuffo d'erba: ultimo gesto prima di porre il "sigillo finale" alla vita.
La quarta poesia è di Attilio Bertolucci (Parma 1911 - Roma 2000) e centra in pieno l'argomento, visto che il protagonista è un moribondo che, prima di lasciare la vita ha una serie di visioni paradisiache unite al riaffiorare dei ricordi più belli dell'infanzia; l'Hora mortis è vissuta come qualcosa di normale, che avviene nella "serena luce", come ad evidenziare il fatto che non comporti alcun tipo di strazi o di paure.
La quinta, di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957), fu scritta poco tempo prima della sua dipartita a causa di una grave malattia. Qui, più che di "dolce morte", si tratta di una sensazione spiacevole provocata dal "ritorno alla vita" dopo una crisi che presagiva la morte: il poeta afferma che la terribilità non sta nel decesso, ma nel sopravvivere quando ormai il corpo si era assuefatto al passaggio nell'al di là. Da tenere presente, in questo caso, la fervida religiosità di Rebora che spera di superare l'abisso di dolore grazie all'abisso di misericordia concesso dal Signore.
Il pensiero della dolce morte, a mio parere, è sempre appartenuto alle anime che hanno più sofferto per svariati motivi; ricordo, a tal proposito, che tanti anni fa, nella frazione dove io risiedo viveva un giovane che ben presto perse le sue facoltà mentali, e, per tale motivo, fu più volte ricoverato e quindi curato con dei sedativi e altre medicine similari. Un giorno, io e i miei genitori lo incontrammo in una piazza: era divenuto un'altra persona rispetto a quella che conoscevamo e pareva vivesse in una sorta di sonnambulismo perpetuo; scambiammo qualche parola con lui, ma i suoi discorsi spesso risultavano sconnessi, senza un filo logico; non so come né perché, ma ad un certo punto disse: «Io non ho fatto una bella vita, questo è sicuro, ma è altrettanto vero che la mia morte sarà bellissima!». Alcuni anni fa morì, e non so se il suo trapasso sia stato piacevole o meno; ma per lui, così come per tutti coloro che troppo hanno sofferto in questa vita, spero che l'ultimo viaggio si sia rivelato meraviglioso.



LA "DOLCE MORTE" IN CINQUE POESIE ITALIANE



SERA
di G. Caprino

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

Mentre il giorno sen muore, e lento lento
un velo cupo fascia la natura,
                  nascer nel cuore sento
come un vago desio di sepoltura.

In tanta morte, solo ad occidente
roseo sorride ancor di cielo un lembo,
                  e par che arcanamente
l'ultime spemi culli nel suo grembo.

E, mentre l'ombra incalza d'ogni lato,
da quel nido d'amor che va mancando,
                  da quel nido incantato
Venere guarda in estasi, sognando...

... Ed io sogno un crepuscolo lontano,
una fanciulla china su i ginocchi,
                  che con la bianca mano
amorosa e gentil mi chiuda gli occhi.

... Ed io sogno una bruna e mite sera,
sogno una croce e una fanciulla pia,
                  che, in una pace austera,
sieda piangendo su la tomba mia...

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

(da «Gazzetta Letteraria», febbraio 1890)




IL TOMBOLO
di Umberto Castelli

Guardavo, con gli occhi velati
di sonno, le dita sottili
fiorir (vaghi steli adorati!)
un candido intrico di fili...

Sul tavolo, ingombro di mille
leggiadre minuscole cose,
tra un pallido serto di rose
pioveva un fulgore di stille...

- Poeta?... che cosa sognate?...
- chiedeste, con scherno gentile...;
e vidi le labbra perlate
da un tenue sorriso infantile...

- Sognavo?... Non so...: mi sembrava
di andare lontano lontano,
tenuto a una piccola mano
che tutta di gigli odorava...

O languide aurore!... silenti
tramonti d'ignote contrade...
carezze di tiepidi venti...
dolcezze di molli rugiade...

Sognavo?... O manine di fata,
sol questa è la gioja che agogno:
velare la vita di un sogno,
d'un sogno di mente malata...

Un sogno di fiori, di luce,
che avvolge di languide spire,
che lento ne l'anima induce
un vano desio di morire...

"Morire!"... La strana parola
suonò come un triste presagio...
Provai di ripeterla adagio:
... un nodo mi strinse la gola...

Guardavo, tra i cigli socchiusi,
le piccole mani di neve...
"Morire!"... Dei piccoli fusi
si tacque la musica lieve...

Non più rivedere le stelle...
non più rivedere la luna...
Nessuna nessuna nessuna
di tutte le favole belle...

(da «Il Secolo XX», febbraio 1912)




A VOLTE QUANDO GUARDO LA MIA VITA
di Camillo Sbarbaro

A volte quando guardo la mia vita
e, tizzo che di cenere si copre,
ciò che feci ai miei occhi si scolora,
con un brivido freddo mi percorre
l’improvvisa paura di morire.

Se domani morissi, se sapessi
di morire, la casa lascerei
ed uscirei a zonzo per le vie
per rimanere solo con me stesso
con sopra il capo il cielo vasto e vuoto
sotto i piedi la terra fredda e dura,
come solo sarei in faccia al nulla.

Tra gli umidi guanciali non mi spenga
senza rumore qualche malattia,
come debole fiamma poco vento!

Pellegrinando andare per quei luoghi
dove passai da piccolo col padre;
dare
il primo bacio e l’ultimo agli amici;
toccare l’erba
come si tocca un capo di bambino
e saper che quell’è l’ultima volta;
prender congedo dalla dolce terra:
dolce così non mi sarà mai parsa...

Poi mettere alla vita il mio sigillo.

(da "Pianissimo", Marsilio, Venezia 2001, p. 75)




POI NELLA SERENA LUCE
di Attilio Bertolucci

Come venne l'estate, grosse farfalle bianche
entravano nella stanza senza rumore;
le sue mani, sul lenzuolo, erano due grandi farfalle
morte, bianche, colorite leggermente di sangue.
Quando scendeva la sera
piena di stanchi gridi e di voli,
gli entrava nel cuore come una frescura,
gli si chiudevano gli occhi, lo coprivano sogni e nostalgie.
Oh, le gaggìe dalle foglie strette e lunghe
di cui si riempirono le mani,
l'acqua gelida e scura, il canto delle trebbiatrici
nella polvere di luglio, e la sera come una melanconica fanciulla
coronata di vivide stelle,
la rugiada e le favole e il canto dei grilli:
tutta la sua infanzia.
Gli occhi avevano perduta ogni ombra,
il cuore era rifiorito.
Si ricordava di tante cose variopinte,
dei natali di un tempo.
Era come un sasso su cui passa un'azzurra riviera.
Poi nella serena luce
venne la morte.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1990, p. 69)




TERRIBILE RITORNARE A QUESTO MONDO
di Clemente Rebora

Terribile ritornare a questo mondo
quando già tutte le fibre
erano tese
a transitare!
E il corpo mi rifiuta ogni servizio,
e l’anima non trova più suo inizio.
Ogni voler divino è sforzo nero.
Tutto va senza pensiero:
l’abisso invoca l’abisso.

19 aprile 1956

(da "Le poesie", Garzanti, Milano 1993, p. 293)




Émile Jean-Horace Vernet, "The Angel of Death"
(da questa pagina web)