domenica 19 luglio 2020

La "dolce morte" in 5 poesie italiane


Sono in tanti a pensare che il passaggio dalla vita alla morte non sia così drammatico come invece accade troppo spesso di immaginare. Per esempio, alcuni tra coloro che si sono trovati in punto di morte per vari motivi e sono riusciti a scamparla, durante l'agonia affermano di aver visto un tunnel con in fondo una luce; ci sono altri che, sempre in quei difficili momenti, hanno provato una estrema leggerezza o cose del genere.
Le cinque poesie che riporto di seguito trattano l'argomento della "dolce morte" ovvero del trapasso senza sofferenza alcuna.
La prima lirica è di un poeta assolutamente sconosciuto; infatti, oltre alla lettera iniziale del nome ed al cognome, ricavati entrambi dalla pagina della rivista dove furono pubblicati questi suoi versi, non sono riuscito a trovare nulla. A proposito del cognome, forse potrebbe essere legato in qualche modo a quell'Antonello Caprino che fu amico di Sergio Corazzini, e che scrisse anch'egli poche poesie pubblicate su alcune riviste del primissimo Novecento. Il tema di Sera, è decisamente pre-crepuscolare, essendo presenti alcuni elementi cari alla corrente poetica di Corazzini e sodali. In un'atmosfera serale, assai sfumata e colma di malinconia, il poeta immagina la sua dolce morte, assistito e confortato nelle sue ultime ore di vita da una fanciulla pia, la quale, una volta sepolto, si recherà presso la sua tomba e col suo inconsolabile pianto dimostrerà un sincero e inalterato amore verso di lui.
La seconda poesia è di Umberto Castelli: anch'egli un poeta del tutto sconosciuto (per lo meno a me). Il tema della lirica ricalca quello della precedente, poiché il poeta, con toni estremamente languidi, invoca una morte dolce, che si sostanzia in una visione dove predomina una luce velata, e dove si respirano a pieni polmoni atmosfere rarefatte e paradisiache; tutto ciò avviene tramite un sogno ad occhi aperti, ovvero una pura illusione in cui l'uomo immagina che il passaggio all'altro mondo avvenga con incredibile facilità e con il massimo piacere.
La terza poesia, di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967), più che di "dolce morte", tratta del desiderio personale di conoscere in anticipo il momento del proprio decesso: ciò permetterebbe al poeta di compiere una serie di atti già premeditati per rendere il tragico evento meno doloroso, anzi, quasi dolce; eloquenti a tal proposito gli ultimi versi in cui Sbarbaro parla del suo congedarsi dalla "dolce" terra carezzando semplicemente un ciuffo d'erba: ultimo gesto prima di porre il "sigillo finale" alla vita.
La quarta poesia è di Attilio Bertolucci (Parma 1911 - Roma 2000) e centra in pieno l'argomento, visto che il protagonista è un moribondo che, prima di lasciare la vita ha una serie di visioni paradisiache unite al riaffiorare dei ricordi più belli dell'infanzia; l'Hora mortis è vissuta come qualcosa di normale, che avviene nella "serena luce", come ad evidenziare il fatto che non comporti alcun tipo di strazi o di paure.
La quinta, di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957), fu scritta poco tempo prima della sua dipartita a causa di una grave malattia. Qui, più che di "dolce morte", si tratta di una sensazione spiacevole provocata dal "ritorno alla vita" dopo una crisi che presagiva la morte: il poeta afferma che la terribilità non sta nel decesso, ma nel sopravvivere quando ormai il corpo si era assuefatto al passaggio nell'al di là. Da tenere presente, in questo caso, la fervida religiosità di Rebora che spera di superare l'abisso di dolore grazie all'abisso di misericordia concesso dal Signore.
Il pensiero della dolce morte, a mio parere, è sempre appartenuto alle anime che hanno più sofferto per svariati motivi; ricordo, a tal proposito, che tanti anni fa, nella frazione dove io risiedo viveva un giovane che ben presto perse le sue facoltà mentali, e, per tale motivo, fu più volte ricoverato e quindi curato con dei sedativi e altre medicine similari. Un giorno, io e i miei genitori lo incontrammo in una piazza: era divenuto un'altra persona rispetto a quella che conoscevamo e pareva vivesse in una sorta di sonnambulismo perpetuo; scambiammo qualche parola con lui, ma i suoi discorsi spesso risultavano sconnessi, senza un filo logico; non so come né perché, ma ad un certo punto disse: «Io non ho fatto una bella vita, questo è sicuro, ma è altrettanto vero che la mia morte sarà bellissima!». Alcuni anni fa morì, e non so se il suo trapasso sia stato piacevole o meno; ma per lui, così come per tutti coloro che troppo hanno sofferto in questa vita, spero che l'ultimo viaggio si sia rivelato meraviglioso.



LA "DOLCE MORTE" IN CINQUE POESIE ITALIANE



SERA
di G. Caprino

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

Mentre il giorno sen muore, e lento lento
un velo cupo fascia la natura,
                  nascer nel cuore sento
come un vago desio di sepoltura.

In tanta morte, solo ad occidente
roseo sorride ancor di cielo un lembo,
                  e par che arcanamente
l'ultime spemi culli nel suo grembo.

E, mentre l'ombra incalza d'ogni lato,
da quel nido d'amor che va mancando,
                  da quel nido incantato
Venere guarda in estasi, sognando...

... Ed io sogno un crepuscolo lontano,
una fanciulla china su i ginocchi,
                  che con la bianca mano
amorosa e gentil mi chiuda gli occhi.

... Ed io sogno una bruna e mite sera,
sogno una croce e una fanciulla pia,
                  che, in una pace austera,
sieda piangendo su la tomba mia...

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

(da «Gazzetta Letteraria», febbraio 1890)




IL TOMBOLO
di Umberto Castelli

Guardavo, con gli occhi velati
di sonno, le dita sottili
fiorir (vaghi steli adorati!)
un candido intrico di fili...

Sul tavolo, ingombro di mille
leggiadre minuscole cose,
tra un pallido serto di rose
pioveva un fulgore di stille...

- Poeta?... che cosa sognate?...
- chiedeste, con scherno gentile...;
e vidi le labbra perlate
da un tenue sorriso infantile...

- Sognavo?... Non so...: mi sembrava
di andare lontano lontano,
tenuto a una piccola mano
che tutta di gigli odorava...

O languide aurore!... silenti
tramonti d'ignote contrade...
carezze di tiepidi venti...
dolcezze di molli rugiade...

Sognavo?... O manine di fata,
sol questa è la gioja che agogno:
velare la vita di un sogno,
d'un sogno di mente malata...

Un sogno di fiori, di luce,
che avvolge di languide spire,
che lento ne l'anima induce
un vano desio di morire...

"Morire!"... La strana parola
suonò come un triste presagio...
Provai di ripeterla adagio:
... un nodo mi strinse la gola...

Guardavo, tra i cigli socchiusi,
le piccole mani di neve...
"Morire!"... Dei piccoli fusi
si tacque la musica lieve...

Non più rivedere le stelle...
non più rivedere la luna...
Nessuna nessuna nessuna
di tutte le favole belle...

(da «Il Secolo XX», febbraio 1912)




A VOLTE QUANDO GUARDO LA MIA VITA
di Camillo Sbarbaro

A volte quando guardo la mia vita
e, tizzo che di cenere si copre,
ciò che feci ai miei occhi si scolora,
con un brivido freddo mi percorre
l’improvvisa paura di morire.

Se domani morissi, se sapessi
di morire, la casa lascerei
ed uscirei a zonzo per le vie
per rimanere solo con me stesso
con sopra il capo il cielo vasto e vuoto
sotto i piedi la terra fredda e dura,
come solo sarei in faccia al nulla.

Tra gli umidi guanciali non mi spenga
senza rumore qualche malattia,
come debole fiamma poco vento!

Pellegrinando andare per quei luoghi
dove passai da piccolo col padre;
dare
il primo bacio e l’ultimo agli amici;
toccare l’erba
come si tocca un capo di bambino
e saper che quell’è l’ultima volta;
prender congedo dalla dolce terra:
dolce così non mi sarà mai parsa...

Poi mettere alla vita il mio sigillo.

(da "Pianissimo", Marsilio, Venezia 2001, p. 75)




POI NELLA SERENA LUCE
di Attilio Bertolucci

Come venne l'estate, grosse farfalle bianche
entravano nella stanza senza rumore;
le sue mani, sul lenzuolo, erano due grandi farfalle
morte, bianche, colorite leggermente di sangue.
Quando scendeva la sera
piena di stanchi gridi e di voli,
gli entrava nel cuore come una frescura,
gli si chiudevano gli occhi, lo coprivano sogni e nostalgie.
Oh, le gaggìe dalle foglie strette e lunghe
di cui si riempirono le mani,
l'acqua gelida e scura, il canto delle trebbiatrici
nella polvere di luglio, e la sera come una melanconica fanciulla
coronata di vivide stelle,
la rugiada e le favole e il canto dei grilli:
tutta la sua infanzia.
Gli occhi avevano perduta ogni ombra,
il cuore era rifiorito.
Si ricordava di tante cose variopinte,
dei natali di un tempo.
Era come un sasso su cui passa un'azzurra riviera.
Poi nella serena luce
venne la morte.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1990, p. 69)




TERRIBILE RITORNARE A QUESTO MONDO
di Clemente Rebora

Terribile ritornare a questo mondo
quando già tutte le fibre
erano tese
a transitare!
E il corpo mi rifiuta ogni servizio,
e l’anima non trova più suo inizio.
Ogni voler divino è sforzo nero.
Tutto va senza pensiero:
l’abisso invoca l’abisso.

19 aprile 1956

(da "Le poesie", Garzanti, Milano 1993, p. 293)




Émile Jean-Horace Vernet, "The Angel of Death"
(da questa pagina web)

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