Sono in tanti a pensare
che il passaggio dalla vita alla morte non sia così drammatico come invece
accade troppo spesso di immaginare. Per esempio, alcuni tra coloro che si sono
trovati in punto di morte per vari motivi e sono riusciti a scamparla, durante
l'agonia affermano di aver visto un tunnel con in fondo una luce; ci sono altri
che, sempre in quei difficili momenti, hanno provato una estrema leggerezza o
cose del genere.
Le cinque poesie che
riporto di seguito trattano l'argomento della "dolce morte" ovvero del
trapasso senza sofferenza alcuna.
La prima lirica è di
un poeta assolutamente sconosciuto; infatti, oltre alla lettera iniziale del
nome ed al cognome, ricavati entrambi dalla pagina della rivista dove furono
pubblicati questi suoi versi, non sono riuscito a trovare nulla. A proposito
del cognome, forse potrebbe essere legato in qualche modo a quell'Antonello
Caprino che fu amico di Sergio Corazzini, e che scrisse anch'egli poche poesie
pubblicate su alcune riviste del primissimo Novecento. Il tema di Sera, è decisamente pre-crepuscolare,
essendo presenti alcuni elementi cari alla corrente poetica di Corazzini e
sodali. In un'atmosfera serale, assai sfumata e colma di malinconia, il poeta
immagina la sua dolce morte,
assistito e confortato nelle sue ultime ore di vita da una fanciulla pia, la quale, una volta sepolto, si recherà presso la
sua tomba e col suo inconsolabile pianto dimostrerà un sincero e inalterato
amore verso di lui.
La seconda poesia è
di Umberto Castelli: anch'egli un poeta del tutto sconosciuto (per lo meno a
me). Il tema della lirica ricalca quello della precedente, poiché il
poeta, con toni estremamente languidi, invoca una morte dolce, che si sostanzia
in una visione dove predomina una luce velata, e dove si respirano a pieni
polmoni atmosfere rarefatte e paradisiache; tutto ciò avviene tramite un sogno
ad occhi aperti, ovvero una pura illusione in cui l'uomo immagina che il
passaggio all'altro mondo avvenga con incredibile facilità e con il massimo
piacere.
La terza poesia, di
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967), più che di "dolce morte", tratta del desiderio
personale di conoscere in anticipo il momento del proprio decesso: ciò
permetterebbe al poeta di compiere una serie di atti già premeditati per
rendere il tragico evento meno doloroso, anzi, quasi dolce; eloquenti a tal
proposito gli ultimi versi in cui Sbarbaro parla del suo congedarsi dalla "dolce" terra carezzando
semplicemente un ciuffo d'erba: ultimo gesto prima di porre il "sigillo
finale" alla vita.
La quarta poesia è di
Attilio Bertolucci (Parma 1911 - Roma 2000) e centra in pieno l'argomento,
visto che il protagonista è un moribondo che, prima di lasciare la vita ha una
serie di visioni paradisiache unite al riaffiorare dei ricordi più belli
dell'infanzia; l'Hora mortis è
vissuta come qualcosa di normale, che avviene nella "serena luce",
come ad evidenziare il fatto che non comporti alcun tipo di strazi o di paure.
La quinta, di
Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957), fu scritta poco tempo prima della
sua dipartita a causa di una grave malattia. Qui, più che di "dolce morte",
si tratta di una sensazione spiacevole provocata dal "ritorno alla
vita" dopo una crisi che presagiva la morte: il poeta afferma che la
terribilità non sta nel decesso, ma nel sopravvivere quando ormai il corpo si
era assuefatto al passaggio nell'al di là. Da tenere presente, in questo caso,
la fervida religiosità di Rebora che spera di superare l'abisso di dolore
grazie all'abisso di misericordia concesso dal Signore.
Il pensiero della dolce morte, a mio parere, è sempre
appartenuto alle anime che hanno più sofferto per svariati motivi; ricordo, a
tal proposito, che tanti anni fa, nella frazione dove io risiedo viveva un
giovane che ben presto perse le sue facoltà mentali, e, per tale motivo, fu più
volte ricoverato e quindi curato con dei sedativi e altre medicine similari. Un
giorno, io e i miei genitori lo incontrammo in una piazza: era divenuto
un'altra persona rispetto a quella che conoscevamo e pareva vivesse in una
sorta di sonnambulismo perpetuo; scambiammo qualche parola con lui, ma i suoi discorsi
spesso risultavano sconnessi, senza un filo logico; non so come né perché, ma
ad un certo punto disse: «Io non ho fatto una bella vita, questo è sicuro, ma è
altrettanto vero che la mia morte sarà bellissima!». Alcuni anni fa morì, e non
so se il suo trapasso sia stato piacevole o meno; ma per lui, così come per
tutti coloro che troppo hanno sofferto in questa vita, spero che l'ultimo
viaggio si sia rivelato meraviglioso.
LA "DOLCE
MORTE" IN CINQUE POESIE ITALIANE
SERA
di G. Caprino
Pesan su i campi
sonnolenze blande,
su i campi silenziosi
intorno, intorno;
serenamente spande
dolce mestizia il
moriente giorno.
Mentre il giorno sen
muore, e lento lento
un velo cupo fascia
la natura,
nascer nel cuore sento
come un vago desio di
sepoltura.
In tanta morte, solo
ad occidente
roseo sorride ancor
di cielo un lembo,
e par che arcanamente
l'ultime spemi culli
nel suo grembo.
E, mentre l'ombra
incalza d'ogni lato,
da quel nido d'amor
che va mancando,
da quel nido incantato
Venere guarda in
estasi, sognando...
... Ed io sogno un
crepuscolo lontano,
una fanciulla china
su i ginocchi,
che con la bianca mano
amorosa e gentil mi
chiuda gli occhi.
... Ed io sogno una
bruna e mite sera,
sogno una croce e una
fanciulla pia,
che, in una pace austera,
sieda piangendo su la
tomba mia...
Pesan su i campi
sonnolenze blande,
su i campi silenziosi
intorno, intorno;
serenamente spande
dolce mestizia il
moriente giorno.
(da «Gazzetta
Letteraria», febbraio 1890)
IL TOMBOLO
di Umberto Castelli
Guardavo, con gli
occhi velati
di sonno, le dita
sottili
fiorir (vaghi steli
adorati!)
un candido intrico di
fili...
Sul tavolo, ingombro
di mille
leggiadre minuscole
cose,
tra un pallido serto
di rose
pioveva un fulgore di
stille...
- Poeta?... che cosa
sognate?...
- chiedeste, con
scherno gentile...;
e vidi le labbra
perlate
da un tenue sorriso
infantile...
- Sognavo?... Non
so...: mi sembrava
di andare lontano
lontano,
tenuto a una piccola
mano
che tutta di gigli
odorava...
O languide aurore!...
silenti
tramonti d'ignote
contrade...
carezze di tiepidi
venti...
dolcezze di molli
rugiade...
Sognavo?... O manine
di fata,
sol questa è la gioja
che agogno:
velare la vita di un
sogno,
d'un sogno di mente
malata...
Un sogno di fiori, di
luce,
che avvolge di
languide spire,
che lento ne l'anima
induce
un vano desio di
morire...
"Morire!"...
La strana parola
suonò come un triste
presagio...
Provai di ripeterla
adagio:
... un nodo mi
strinse la gola...
Guardavo, tra i cigli
socchiusi,
le piccole mani di
neve...
"Morire!"...
Dei piccoli fusi
si tacque la musica
lieve...
Non più rivedere le
stelle...
non più rivedere la
luna...
Nessuna nessuna
nessuna
di tutte le favole
belle...
(da «Il Secolo XX»,
febbraio 1912)
A VOLTE QUANDO GUARDO LA MIA VITA
di Camillo Sbarbaro
A volte quando guardo
la mia vita
e, tizzo che di
cenere si copre,
ciò che feci ai miei
occhi si scolora,
con un brivido freddo
mi percorre
l’improvvisa paura di
morire.
Se domani morissi, se
sapessi
di morire, la casa
lascerei
ed uscirei a zonzo
per le vie
per rimanere solo con
me stesso
con sopra il capo il
cielo vasto e vuoto
sotto i piedi la
terra fredda e dura,
come solo sarei in faccia
al nulla.
Tra gli umidi
guanciali non mi spenga
senza rumore qualche
malattia,
come debole fiamma
poco vento!
Pellegrinando andare
per quei luoghi
dove passai da
piccolo col padre;
dare
il primo bacio e
l’ultimo agli amici;
toccare l’erba
come si tocca un capo
di bambino
e saper che quell’è
l’ultima volta;
prender congedo dalla
dolce terra:
dolce così non mi
sarà mai parsa...
Poi mettere alla vita
il mio sigillo.
(da
"Pianissimo", Marsilio, Venezia 2001, p. 75)
POI NELLA SERENA LUCE
di Attilio Bertolucci
Come venne l'estate,
grosse farfalle bianche
entravano nella
stanza senza rumore;
le sue mani, sul
lenzuolo, erano due grandi farfalle
morte, bianche,
colorite leggermente di sangue.
Quando scendeva la
sera
piena di stanchi
gridi e di voli,
gli entrava nel cuore
come una frescura,
gli si chiudevano gli
occhi, lo coprivano sogni e nostalgie.
Oh, le gaggìe dalle
foglie strette e lunghe
di cui si riempirono
le mani,
l'acqua gelida e
scura, il canto delle trebbiatrici
nella polvere di
luglio, e la sera come una melanconica fanciulla
coronata di vivide
stelle,
la rugiada e le
favole e il canto dei grilli:
tutta la sua
infanzia.
Gli occhi avevano
perduta ogni ombra,
il cuore era
rifiorito.
Si ricordava di tante
cose variopinte,
dei natali di un
tempo.
Era come un sasso su
cui passa un'azzurra riviera.
Poi nella serena luce
venne la morte.
(da
"Poesie", Garzanti, Milano 1990, p. 69)
TERRIBILE RITORNARE A QUESTO MONDO
di Clemente Rebora
Terribile ritornare a
questo mondo
quando già tutte le
fibre
erano tese
a transitare!
E il corpo mi rifiuta
ogni servizio,
e l’anima non trova
più suo inizio.
Ogni voler divino è
sforzo nero.
Tutto va senza
pensiero:
l’abisso invoca
l’abisso.
19 aprile 1956
(da "Le poesie",
Garzanti, Milano 1993, p. 293)
Émile Jean-Horace Vernet, "The Angel of Death" (da questa pagina web) |
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