domenica 22 marzo 2020

"Poesie vecchie e nuove" di Diego Valeri





Poesie vecchie e nuove è il titolo di un libro di poesie di Diego Valeri, che fu pubblicato per la prima volta nel 1930 presso la Mondadori di Milano. Il poeta veneto raccolse in questo volume, come si evince dal titolo, sue liriche già presenti in vecchie raccolte insieme ad altre più recenti, magari pubblicate già su riviste ma mai in volume. Sempre Valeri, dopo l'uscita di quest'opera poetica, volle che fosse considerata la sua "prima", quasi a voler rinnegare le altre. Dopo alcune ristampe, nel 1952 vide la luce la quarta e definitiva edizione di questo libro in cui risultano escluse alcune liriche presenti nell'edizione del 1930, a conferma della costante tendenza di Valeri a sfrondare e scremare la sua produzione in versi, anche, secondo me, in maniera troppo severa. Da sottolineare poi il fatto che, molte delle poesie meno recenti "salvate" da Valeri, in questa ristampa non compaiono nella stesura originale, ma risultano tagliate più o meno drasticamente. L'edizione definitiva, appartenente alla collana mondadoriana dello Specchio, è composta di 128 pagine e di 64 poesie; quest'ultime sono divise nelle seguenti due sezioni: PRIMO TEMPO (... - 1919) e SECONDO TEMPO (1920-1930); esiste poi un'altra raccolta di Valeri: Terzo tempo, che uscì nel 1950 grazie alla Mondadori, e, secondo un progetto piuttosto evidente, avrebbe dovuto completare i tempi poetici dello scrittore italiano; sennonché Valeri continuò ancora per molti anni a comporre dei versi, per questo motivo pubblicò altri volumi riepilogativi della sua opera poetica (l'ultimo dei quali è Poesie, la cui definitiva edizione uscì nel 1964). Di liriche belle e interessanti questo libro ne contiene un cospicuo numero, tra le altre citerei per quel che riguarda la prima sezione: Foglie, giù foglie; Solo; Alba; Rondini; Serenata per la bambola; Il piccolo pastore. Per la seconda sezione: Sereno; Ottobre a Venezia e Riva di pena, canale d'oblio. Di quelle che ho appena citato ne riporto di seguito tre.




FOGLIE, GIÙ FOGLIE...

Foglie, giù foglie nella lenta pioggia
di questa dolce disperata sera!
Foglie, giù foglie: grandi pese fracide
foglie d'ippocastano, e verdi e lievi
e trepide fogliette di robinia;
giù, per l'albore freddo dei lampioni,
giù, sul lucido asfalto della via...

E noi due si cammina si cammina,
senza parlare, l'uno accanto all'altra,
portando in cuore faticosamente
la stessa soma di malinconia.

Foglie, giù foglie. E c'è forse qualcosa
che muore intanto nella nostra vita,
che così muore, e non vuole morire.




SOLO

Io non ho fiori da versar sul folto
tappeto di trifoglio e di gramigna
che veste la tua fossa; io non ho quasi
neppur lagrime più da lagrimare
sul tuo povero cuore seppellito
qui, sotto questa terra. Solamente,
io mi guardo, io mi cerco in fondo all'anima,
per veder te, per ritrovare il tuo
viso sfiorito di malata, e il riso
pallido dei tuoi dolci occhi di pianto,
e i tuoi capelli bianchi ancòra sparsi
di qualche ciocca bionda, e le tue mani
di mamma bruciacchiate al focolare.
Invano, mamma. Non ti trovo più
nel mio profondo; e sono tutto solo,
pur così presso a te, con te, nel calmo
cimitero, tra i marmi ed i rosai;
solo nella dolcezza stupefatta
di questo pomeriggio azzurro e bianco;
solo nel gran silenzio, in cui non odo
che un fruscio di lucertola tra l'erba
e il soffio d'una rosa che si sfa.




RIVA DI PENA, CANALE D'OBLIO...

Ora è la grande ombra d'autunno:
la fredda sera improvvisa calata
da tutto il cielo fumido oscuro
sull'acqua spenta, la pietra malata.

Ora è l'angoscia dei lumi radi,
gialli, sperduti per il nebbione,
l'uno dall'altro staccati, lontani,
chiuso ciascuno nel proprio alone.

Riva di pena, canale d'oblio...
Non una voce dentro il cuor morto.
Solo quegli urli straziati d'addio
dei bastimenti che lasciano il porto.


domenica 15 marzo 2020

I mondi nella poesia italiana decadente e simbolista


Possono essere mondi reali o irreali, terreni o ultraterreni, vicini o lontani, tristi o felici, inquietanti o tranquillizzanti; possono essere nati dai sogni, dalle fantasie personali, dalle fiabe, dalle leggende o da una realtà volontariamente modificata dal poeta. I protagonisti che vi si incontrano, maschili o femminili che siano, si dimostrano altamente affascinanti, profondamente misteriosi, immensamente enigmatici. Certamente questi mondi racchiudono simboli a volte occulti: sta al lettore quindi, la capacità di individuarli (in qualche caso l'impresa è ardua) e di analizzarli. Gli autori di queste poesie appartengono alle più varie correnti, scuole o tendenze nate tra la fine dell'Ottocento e il primo ventennio del Novecento. Il tema è più che mai ampio e coinvolgente, a confermare la mia tesi sarà sufficiente leggere alcune della serie di poesie che di seguito elenco.



Poesie dell'argomento

Mario Adobati: "I desolati" e "L'offerta" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Mai!" e "Leggendo Maeterlinck" in "Leggenda eterna" (1900).
Diego Angeli: "La madonna della neve" in «Il Marzocco», ottobre 1897.
Avancinio Avancini: "Pastello" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).
Alfredo Baccelli: "Della morte all'ampie foci" in "Poesie" (1929).
Sandro Baganzani: "Buoni morti" in "Senzanome" (1924).
Pier Luigi Baratono: "I santi di ghiaccio" in "Sparvieri" (1900).
Ugo Betti: "I palazzi di smeraldo" in "Il Re pensieroso" (1922).
Gustavo Botta: "Vignetta" in "Alcuni scritti" (1952).
Paolo Buzzi: "Arcobaleni" in "Aeroplani" (1909).
Paolo Buzzi: "Mallarmé" in "Poema dei quarant'anni" (1922).
Giovanni Camerana: "Tempeste" e "Sotto i placidi monti che tu sai" in "Poesie" (1968).
Dino Campana: "La speranza" in "Canti Orfici" (1914).
Giovanni Cavicchioli: "Le trombe de la notte ingemmano" e "Arabeschi" in "Palazzi incantati" (1916).
Girolamo Comi: "Dagli orizzonti ignoti" in "Lampadario" (1912).
Italo Dalmatico: "A i mali de la mia vita passata" e "La coscienza" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "Vas spirituale" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Adolfo De Bosis: "Anima errante" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "Gl'Invisibili" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "Magia" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Arturo Foa: "Inverni di provincia" in "Le vie dell'anima" (1912).
Luisa Giaconi: "Nei muti campi del sogno" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il tennis" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri Contri: "Libertà" in «Nuova Antologia», settembre 1907.
Corrado Govoni: "Delizie sconosciute" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Io penso ai numerosi beghinaggi" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni "Ver" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "La colonia del pianto" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Superi" e "Inferi" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "La caccia disperata" in "Le Danaidi" (1905).
Tito Marrone: "Corinna" in "Liriche" (1904).
Tito Marrone: "Dove andrò" in «La Vita Letteraria», dicembre 1905.
Marino Moretti: "Ascensore" in "Poesie di tutti i giorni" (1911).
Arturo Onofri: "La fola" in "Poemi tragici" (1908).
Angiolo Orvieto: "Invito" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli: "Il miracolo" in "Myricae" (1900).
Luca Pignato: "Laus Mortis" in "Persèfone" (1913).
Francesco Scaglione: "Le città sommerse" in "Litanie" (1911).
Emanuele Sella: "Un'Altra Vita" in "Rudimentum" (1911).
Agostino John Sinadinò: "Ôpora" in "Melodie" (1900).
Domenico Tumiati: "La Grande Acqua" e "Signora de le Nevi" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Domenico Tumiati: "L'infinito" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "Dittico" in "Viburna" (1905).
Remigio Zena: "Quosque?" in "Le Pellegrine" (1894).
Remigio Zena: "Domino azzurro" in "Olympia" (1905).



Testi


LE TROMBE DELLA NOTTE INGEMMANO
di Giovanni Cavicchioli

   Le trombe de la notte ingemmano
i romantici fuochi del crepuscolo
alluminati sui velari degli orizzonti sconfinati.
Le arpe gemono e le colombe
su le tombe
calaron stanche.
Oltre il bosco su la riva del mare
melanconici cavalieri vestiti a lutto
attorneati a una tavola di pietra come a un'agape fraterna,
quali dormono
e quali, mordendo voraci pesche e poma,
scrutano lentamente
antichissime pergamene;...
e l'infaticabile mare sussurra
e ansa come sospeso
che in lui sta sommerso
il cuor de la notte.
E pallide e smagrite fanciulle
con il volto macero di pianto
e i lugubri occhi sbarrati
là verso, ove il sole moriva
e tuttora del suo sangue
rosseggiano l'acque,
si cullano in una tarlata canoa
e abbrividiscono al freddo serotino
nei loro veli gialli...

   Una verde mestizia è soffusa
su l'invisibile volto romantico,
e le trombe crepuscolari
oh come malinconiche e fioche!

   Solo in un lontano giardino
un fanciullo malato,
seduto a l'orlo d'una fontana,
si lagna sul flauto
ma le taciturne acque sorgive
già occhiute di stelle
tosto assiderano
l'esili note piangenti...

   E le trombe notturne
si tacciono;
e i trombettieri
discendono in fondo al mare ...

     Azzurro.

(da "Palazzi incantati")




LE CITTÀ SOMMERSE
di Francesco Scaglione

Affondano nei mari alti azzurri tranquilli
come grandi meduse le città rovesciate,
e seguono, calando, il filo degli abissi
quasi sotto gli abissi respirate
dal respiro del mondo;
le acque, muraglie di vetro,
rotolano - specchiandolo -
il quieto naufragio luminoso.

Città trasognate come belve affacciate
a deserti colmi di luce e di silenzio,
città inginocchiate su le vette,
candidi anacoreti del mondo,
città aggrappate disperatamente agli abissi;
languide tuniche obliate
negli atri verdissimi de la terra
da leggendarie gigantesse,
città scagliate come rupi,
o emerse come una paziente
vegetazione di muraglie,
città, fiori di pietra curvati nei cieli,
il mondo che muore, gravato di voi, vi sommerge
oggi nei mari alti ed azzurri.

Oh rossi tramonti, incendio di tramonti
raffica di tramonti
su le morte città, su le città bianche silenziose
grandi petriere incantate!
o crosci di fiamme su le vetrate,
enormi polipi di sangue
aggrappati a le mura
come in una carneficina,
o flagellanti pei rossi tentacoli
le piazze, i minareti deserti
erti come scogliere
su la bianca spuma de le città morte!...
perché, tramonto, ridi il tuo riso di sangue
su le morte città
e le illudi di efimera vita?
poi quando cadi, anche tu
stanco naufrago del cielo
tra i lividi rottami de le nubi,
con te trascini negli abissi dei cieli
le morte città,
e le città ti seguono come creature
afferrate ne le capigliature
rosse da le tue rosse mani,
poi fumano ne la notte
come roghi spenti!

No, no, città senza tramonti,
città senza soli, città senza stelle...
voi siete cieche,
o vuote città sognanti
un lungo sogno di pietra, di sabbie di deserti,
siete le carovane pietrificate
nei deserti de la terra,
le vagabonde de la terra
accovacciate su la vostra tomba
coi vostri bianchi cenci
a cogliere, saliente per le vene di granito,
il pianto del mondo!

(da "Le litanie")


Jheronimus Bosch, "Trittico del Giardino delle Delizie"
(da questa pagina Web)



domenica 8 marzo 2020

10 poesie di 10 poetesse italiane del XX secolo

Nella ricorrenza dell'otto marzo, ecco un post con 10 poesie scritte da 10 donne italiane. Tutti i testi fanno parte di raccolte pubblicate negli anni del XX secolo. Le poetesse sono, ahimè, ormai del tutto dimenticate; ingiustamente aggiungo, poiché, come il lettore potrà notare dai pochi versi riportati per ciascuna, esse meritavano e meritano un'attenzione maggiore rispetto a quella che hanno ricevuto. Purtroppo per alcune di esse non sono riuscito a trovare nessun dato anagrafico. Spero, in un futuro prossimo, di poter dedicare a ciascuna almeno un post all'interno del mio blog.




ALL'ALLEGREZZA
di Graziella Ajmone (1912-1993)

Non vieni dalle cose ma dal cuore
e il mondo trasfiguri
come il sole nascente.
Anche in mezzo alle spine e alle tempeste
io so che m'accompagni,
simile a un dolce lume
che splenda nel profondo.
Nei tuoi occhi rispecchi ogni bellezza
ma di nulla hai bisogno;
come un albero sei di primo marzo
cui può bastare il sogno
della sua fioritura.
Ti fa più bella il pianto
e amore ti dà l'ali per cantare.
Se il Signore t'ha messo a me daccanto,
non mi lasciare tu, non mi lasciare,
o celeste creatura!

(da "Mattutino", Vita e Pensiero, Milano 1942)




COME UN FILO D'ERBA
di Liliana Angeli (1923-1953)

Come un filo d'erba
nella sabbia
mi sento.

Mi avvolgo nel vuoto
spazio di cielo
e aspetto.

Ma sono sola.

Niente vale a levarmi
il male della sera.

Guardo dalla finestra
e ogni ombra
un fantasma mi pare.

Nulla mi crea
caldo di madre.

La natura mi sfugge e il silenzio
come un bisturi
mi enetra nella carne.

(da "I miei Anni", Il Raccoglitore, Parma 1956)




IL MONDO
di Pina Ballario (1899-1971)

Il mondo è il tuo giardino ove t'affacci
Una chiara giornata a primavera,
Ed a te, bimbo, sembra che t'abbracci
In una stretta, la natura intera.

Son grappoli di rose, sono tralci
Di glicini ondeggianti ai pergolati,
Son finestre d'azzurro, sono falci
Di luna, son respiri, sono fiati.

E tu ricami i sogni sulle trame
Del firmamento, ove l'ordito fanno
Le rondini, partendo dalle rame

Degli alberi superbi che non sanno
Altro cantar. E questo è il tuo reame
Dove cogli anni i sogni tuoi si sfanno.

(da "I canti della mia solitudine", La Vittoriosa, Milano 1923)




ANCORA LA PRIMAVERA
di Elda Bossi (1901-1996)

È dunque ancora la dolce stagione
quando con un sospiro la terra
si risveglia giovinetta
come al tempo della creazione?

È un'ora sola, benedetta,
quando l'erba s'azzarda fuori
e si schiudono fioretti
come inventati allora allora;

quando le gemme tentan la scorza
con feroce gioia esplosiva
e ogni pollone ha il languore e la forza
della cosa da poco viva;

e tu scopri segreti odori
se cammini solitario,
e segrete brame e tristezze
se un poco solo t'ascolti il cuore:

quell'eterna malinconia
come disciolta nell'aria,
ché dolce ancora è il paese
e domani andiamo via.

(da "Poesia nuda", Cappelli, Bologna 1956)




L'ANEMONE
di Perla Cacciaguerra (1926-2012)

Nasce ambiguo e splendido
e come un ragno gigante
tesse nell'aria candida
la sua tela di diamante.
Lo trovi sovente alle fatali
casate, nell'aperta scalinata
dei rododendri e sulla croda inrosata
al tramonto dalla gelida altezza.
Con la cenere dei suoi petali
reca una voce di tristezza
al grandioso coro dei fiori.
Figlio d'un antico demone
è lo splendido e ambiguo anemone.

(da "Con la bocca piena di fiori", Ubaldini, Roma 1951)




SOLITUDINE SACRA
di Marcella Caecilia (?-?)

Sacra è la solitudine che vapora nel mare dell'essere.
Cupo incenso, che nasconde le origini,
L'Anima avvolge;
E in quelle interiori lande sperduto, geme lo spirito.
Ma io l'amo:E il silenzio tuo tremendo abbraccio,
Con puro bacio suggendovi l'inane forma delle cose.
Caduti sono i velari dipinti della dipinta vita:
S'apre la buia notte,
La solitudine buia,
La solitudine sacra,
La desolata Amante!

(da "I salmi dell'anima", L'Eroica, Milano 1921)




VIA LATTEA
di Alda Cortella (1924-1954)

Oggi è ieri e domani.
Sterili giorni in cui soltanto
le nebbie donano senso,
pena sconosciuta
che il cuore nutre
per non morire.

Io non so quando
siete stati per me:
so che voi non siete nube
a nutrire la folgore,
o marosi a percuotere
i muschi sulla scogliera
o fiumane a scavare la vita nei sassi:
siete solco di semi infecondi
strada di nuvole spente,

via lattea senza principio né fine.

(da "Poesie edite e inedite", Rebellato, Padova 1983)




SPERDUTI
di Lina Galli (1899-1993)

Siamo deserti, Signore
disperati di vivere senza porto.

Morti s'accalcano nelle sere di nebbia
per le strade,
lasciano scie di sangue
ed erra ognuno in cerca
d'una foce.
Come semi li gettasti
su sterili zolle.

Gridano nella nebbia di dolore.

(da "Eppure ancora un mattino", Rebellato, Cittadella 1973)




MADRE
di Valentina Magnoni (?-?)

Come a una curva d'ombra
mi proteggono i rami
delle tue braccia.
E se la vita è simile a una via
che anche in febbre si corre,
nel saldo sangue di cui fa compatto
il palpito fedele,
Madre, al tuo seno,
ogni male s'acqueta e il mondo è solo
la parola che sgorga sul tuo labbro.

(da "Cuore nel tempo", Libreria Modernissima, Roma 1939)




MALINCONIA
di Giuseppina Sperandeo Cosco (1905-?)

Io sono come un campo d'alta montagna, un prato
non falciato, ricolmo
d'erbe e di fiori senza nome, al cui orlo
trema un cielo
terribilmente vicino e lontano, al cui bordo
gorgoglia un'acqua nata e perduta.
                                                   Il vento
a volte vi danza non visto e vi scende
coi nembi.
                Solitudine
regna poi sovrana ed ascolta
sparse voci che scendono ai piani.

(da "Meraviglia", Quaderni di «Persona», Roma 1969)




Albert Lynch, "Portrait of an elegant lady"
(da questa pagina Web)

mercoledì 4 marzo 2020

Nuove parole alla figlia Fiammetta


Perché, vedi, io non so
aprirti le vie serene
che portano a Dio.
E non potrò sorreggerti
con quelle mani solari
ch'ebbero rudi e persuasi
uomini, come mio padre.
Perché a volte mi prende una pietà
oscura di te che sei la figlia
di un uomo fragile e incerto
che troppo aspetta dalla morte,
e ha paura di spaventarti,
se un poco t'avvicini al suo silenzio.
E un giorno dovrà pure
domandarti perdono del tuo sangue.





Tanti anni fa, sfogliando una vecchia antologia scolastica, mi trovai a leggere una bellissima poesia di Renato Filippelli (Cascano 1936 - Formia 2010). Pur non conoscendolo ancora, rimasi immediatamente impressionato da pochi versi che questo grande poeta scrisse per confessare la propria inadeguatezza di genitore alla figlia da poco nata. L'aggettivo "nuove", che Filippelli fa precedere a "parole", sta ad indicare la presenza di un'altra poesia dedicata alla figlia Fiammetta, che è possibile leggere nel medesimo volume in cui si trovano questi versi, intitolato Ombre dal sud (Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1971); quindi, anche la congiunzione "perché" del primo verso, vuole significare una continuazione, ovvero una ripresa poetica di un discorso già iniziato, in cui un padre, dimostrando una rarissima sincerità, confessa tutte le sue paure ed i suoi tormenti rispetto al compito arduo che si trova a dover affrontare: essere un bravo genitore. Filippelli, inizialmente ammette di non assomigliare al proprio padre, che, pur nella sua rudezza, possedeva delle sicurezze ed una capacità di persuasione assai spiccata. Poi, con estrema umiltà dice di provare un senso di pietà nei confronti della sua bambina, perché conosce bene se stesso, e sa quanto sia debole e incerto, e che troppo spesso questo suo stato esistenziale, fonte di sofferenza morale, lo porta a desiderare la morte. Perfino la sua abitudine a parlare poco, pensa possa nuocere alla figlia, e magari anche spaventarla. Infine, l'uomo arriva a domandarsi se abbia fatto bene a mettere al mondo dei figli, percependo l'enorme responsabilità che comporta essere padre, e, forse, avendo la sensazione di non essere all'altezza del ruolo che si trova ora a dover ricoprire. Ebbene, nella mia vita ho visto troppe volte genitori sciagurati, insensibili ed egoisti, che, pur avendo più volte dato alla luce dei nuovi nati, non si sono mai resi conto di quanto sia importante e nello stesso tempo difficile essere padre o madre di un essere umano che ha il diritto di crescere nel miglior modo possibile; per questo, le parole di Filippelli mi hanno colpito, ma anche per la disarmante schiettezza e per l'originalità (quante poesie ho letto, in cui il genitore usava parole trite e inutili per declamare le virtù dei propri figli). Nuove parole alla figlia Fiammetta, che ho trascritto dal primo volume dell'antologia scolastica Quante strade¹ (Loffredo, Napoli 1976), ora è possibile leggerla nel libro che raccoglie l'intera opera in versi di Renato Filippelli: Tutte le poesie² (Gangemi, Roma 2015).


NOTE
1) Si trova a p. 282, nella sottosezione altri poeti contemporanei.
2) È presente alla p. 155, nella sezione Ombre dal sud, che comprende tutte poesie precedentemente uscite nella raccolta omonima.