domenica 8 marzo 2020

10 poesie di 10 poetesse italiane del XX secolo

Nella ricorrenza dell'otto marzo, ecco un post con 10 poesie scritte da 10 donne italiane. Tutti i testi fanno parte di raccolte pubblicate negli anni del XX secolo. Le poetesse sono, ahimè, ormai del tutto dimenticate; ingiustamente aggiungo, poiché, come il lettore potrà notare dai pochi versi riportati per ciascuna, esse meritavano e meritano un'attenzione maggiore rispetto a quella che hanno ricevuto. Purtroppo per alcune di esse non sono riuscito a trovare nessun dato anagrafico. Spero, in un futuro prossimo, di poter dedicare a ciascuna almeno un post all'interno del mio blog.




ALL'ALLEGREZZA
di Graziella Ajmone (1912-1993)

Non vieni dalle cose ma dal cuore
e il mondo trasfiguri
come il sole nascente.
Anche in mezzo alle spine e alle tempeste
io so che m'accompagni,
simile a un dolce lume
che splenda nel profondo.
Nei tuoi occhi rispecchi ogni bellezza
ma di nulla hai bisogno;
come un albero sei di primo marzo
cui può bastare il sogno
della sua fioritura.
Ti fa più bella il pianto
e amore ti dà l'ali per cantare.
Se il Signore t'ha messo a me daccanto,
non mi lasciare tu, non mi lasciare,
o celeste creatura!

(da "Mattutino", Vita e Pensiero, Milano 1942)




COME UN FILO D'ERBA
di Liliana Angeli (1923-1953)

Come un filo d'erba
nella sabbia
mi sento.

Mi avvolgo nel vuoto
spazio di cielo
e aspetto.

Ma sono sola.

Niente vale a levarmi
il male della sera.

Guardo dalla finestra
e ogni ombra
un fantasma mi pare.

Nulla mi crea
caldo di madre.

La natura mi sfugge e il silenzio
come un bisturi
mi enetra nella carne.

(da "I miei Anni", Il Raccoglitore, Parma 1956)




IL MONDO
di Pina Ballario (1899-1971)

Il mondo è il tuo giardino ove t'affacci
Una chiara giornata a primavera,
Ed a te, bimbo, sembra che t'abbracci
In una stretta, la natura intera.

Son grappoli di rose, sono tralci
Di glicini ondeggianti ai pergolati,
Son finestre d'azzurro, sono falci
Di luna, son respiri, sono fiati.

E tu ricami i sogni sulle trame
Del firmamento, ove l'ordito fanno
Le rondini, partendo dalle rame

Degli alberi superbi che non sanno
Altro cantar. E questo è il tuo reame
Dove cogli anni i sogni tuoi si sfanno.

(da "I canti della mia solitudine", La Vittoriosa, Milano 1923)




ANCORA LA PRIMAVERA
di Elda Bossi (1901-1996)

È dunque ancora la dolce stagione
quando con un sospiro la terra
si risveglia giovinetta
come al tempo della creazione?

È un'ora sola, benedetta,
quando l'erba s'azzarda fuori
e si schiudono fioretti
come inventati allora allora;

quando le gemme tentan la scorza
con feroce gioia esplosiva
e ogni pollone ha il languore e la forza
della cosa da poco viva;

e tu scopri segreti odori
se cammini solitario,
e segrete brame e tristezze
se un poco solo t'ascolti il cuore:

quell'eterna malinconia
come disciolta nell'aria,
ché dolce ancora è il paese
e domani andiamo via.

(da "Poesia nuda", Cappelli, Bologna 1956)




L'ANEMONE
di Perla Cacciaguerra (1926-2012)

Nasce ambiguo e splendido
e come un ragno gigante
tesse nell'aria candida
la sua tela di diamante.
Lo trovi sovente alle fatali
casate, nell'aperta scalinata
dei rododendri e sulla croda inrosata
al tramonto dalla gelida altezza.
Con la cenere dei suoi petali
reca una voce di tristezza
al grandioso coro dei fiori.
Figlio d'un antico demone
è lo splendido e ambiguo anemone.

(da "Con la bocca piena di fiori", Ubaldini, Roma 1951)




SOLITUDINE SACRA
di Marcella Caecilia (?-?)

Sacra è la solitudine che vapora nel mare dell'essere.
Cupo incenso, che nasconde le origini,
L'Anima avvolge;
E in quelle interiori lande sperduto, geme lo spirito.
Ma io l'amo:E il silenzio tuo tremendo abbraccio,
Con puro bacio suggendovi l'inane forma delle cose.
Caduti sono i velari dipinti della dipinta vita:
S'apre la buia notte,
La solitudine buia,
La solitudine sacra,
La desolata Amante!

(da "I salmi dell'anima", L'Eroica, Milano 1921)




VIA LATTEA
di Alda Cortella (1924-1954)

Oggi è ieri e domani.
Sterili giorni in cui soltanto
le nebbie donano senso,
pena sconosciuta
che il cuore nutre
per non morire.

Io non so quando
siete stati per me:
so che voi non siete nube
a nutrire la folgore,
o marosi a percuotere
i muschi sulla scogliera
o fiumane a scavare la vita nei sassi:
siete solco di semi infecondi
strada di nuvole spente,

via lattea senza principio né fine.

(da "Poesie edite e inedite", Rebellato, Padova 1983)




SPERDUTI
di Lina Galli (1899-1993)

Siamo deserti, Signore
disperati di vivere senza porto.

Morti s'accalcano nelle sere di nebbia
per le strade,
lasciano scie di sangue
ed erra ognuno in cerca
d'una foce.
Come semi li gettasti
su sterili zolle.

Gridano nella nebbia di dolore.

(da "Eppure ancora un mattino", Rebellato, Cittadella 1973)




MADRE
di Valentina Magnoni (?-?)

Come a una curva d'ombra
mi proteggono i rami
delle tue braccia.
E se la vita è simile a una via
che anche in febbre si corre,
nel saldo sangue di cui fa compatto
il palpito fedele,
Madre, al tuo seno,
ogni male s'acqueta e il mondo è solo
la parola che sgorga sul tuo labbro.

(da "Cuore nel tempo", Libreria Modernissima, Roma 1939)




MALINCONIA
di Giuseppina Sperandeo Cosco (1905-?)

Io sono come un campo d'alta montagna, un prato
non falciato, ricolmo
d'erbe e di fiori senza nome, al cui orlo
trema un cielo
terribilmente vicino e lontano, al cui bordo
gorgoglia un'acqua nata e perduta.
                                                   Il vento
a volte vi danza non visto e vi scende
coi nembi.
                Solitudine
regna poi sovrana ed ascolta
sparse voci che scendono ai piani.

(da "Meraviglia", Quaderni di «Persona», Roma 1969)




Albert Lynch, "Portrait of an elegant lady"
(da questa pagina Web)

mercoledì 4 marzo 2020

Nuove parole alla figlia Fiammetta


Perché, vedi, io non so
aprirti le vie serene
che portano a Dio.
E non potrò sorreggerti
con quelle mani solari
ch'ebbero rudi e persuasi
uomini, come mio padre.
Perché a volte mi prende una pietà
oscura di te che sei la figlia
di un uomo fragile e incerto
che troppo aspetta dalla morte,
e ha paura di spaventarti,
se un poco t'avvicini al suo silenzio.
E un giorno dovrà pure
domandarti perdono del tuo sangue.





Tanti anni fa, sfogliando una vecchia antologia scolastica, mi trovai a leggere una bellissima poesia di Renato Filippelli (Cascano 1936 - Formia 2010). Pur non conoscendolo ancora, rimasi immediatamente impressionato da pochi versi che questo grande poeta scrisse per confessare la propria inadeguatezza di genitore alla figlia da poco nata. L'aggettivo "nuove", che Filippelli fa precedere a "parole", sta ad indicare la presenza di un'altra poesia dedicata alla figlia Fiammetta, che è possibile leggere nel medesimo volume in cui si trovano questi versi, intitolato Ombre dal sud (Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1971); quindi, anche la congiunzione "perché" del primo verso, vuole significare una continuazione, ovvero una ripresa poetica di un discorso già iniziato, in cui un padre, dimostrando una rarissima sincerità, confessa tutte le sue paure ed i suoi tormenti rispetto al compito arduo che si trova a dover affrontare: essere un bravo genitore. Filippelli, inizialmente ammette di non assomigliare al proprio padre, che, pur nella sua rudezza, possedeva delle sicurezze ed una capacità di persuasione assai spiccata. Poi, con estrema umiltà dice di provare un senso di pietà nei confronti della sua bambina, perché conosce bene se stesso, e sa quanto sia debole e incerto, e che troppo spesso questo suo stato esistenziale, fonte di sofferenza morale, lo porta a desiderare la morte. Perfino la sua abitudine a parlare poco, pensa possa nuocere alla figlia, e magari anche spaventarla. Infine, l'uomo arriva a domandarsi se abbia fatto bene a mettere al mondo dei figli, percependo l'enorme responsabilità che comporta essere padre, e, forse, avendo la sensazione di non essere all'altezza del ruolo che si trova ora a dover ricoprire. Ebbene, nella mia vita ho visto troppe volte genitori sciagurati, insensibili ed egoisti, che, pur avendo più volte dato alla luce dei nuovi nati, non si sono mai resi conto di quanto sia importante e nello stesso tempo difficile essere padre o madre di un essere umano che ha il diritto di crescere nel miglior modo possibile; per questo, le parole di Filippelli mi hanno colpito, ma anche per la disarmante schiettezza e per l'originalità (quante poesie ho letto, in cui il genitore usava parole trite e inutili per declamare le virtù dei propri figli). Nuove parole alla figlia Fiammetta, che ho trascritto dal primo volume dell'antologia scolastica Quante strade¹ (Loffredo, Napoli 1976), ora è possibile leggerla nel libro che raccoglie l'intera opera in versi di Renato Filippelli: Tutte le poesie² (Gangemi, Roma 2015).


NOTE
1) Si trova a p. 282, nella sottosezione altri poeti contemporanei.
2) È presente alla p. 155, nella sezione Ombre dal sud, che comprende tutte poesie precedentemente uscite nella raccolta omonima.

domenica 1 marzo 2020

10 poesie di 10 filosofi italiani del XX secolo


Poesia e filosofia possono marciare insieme, soprattutto se la prima dottrina s'indirizza verso gli argomenti che piacciono maggiormente alla seconda, o se, interpretando il significato più generico della parola "filosofia", i versi provano a stabilire e a costruire una particolare concezione della vita. Fatto sta che, durante il XX secolo e non solo, alcuni filosofi si sono dedicati alla scrittura di versi. C'è chi lo ha fatto per tutta la vita, chi soltanto episodicamente; ci sono stati filosofi che non hanno mai pubblicato i versi che scrivevano a mo' di diario, chi, invece, ha ritenuto che la poesia (o la letteratura) fosse la sua attività più importante, e ha trascurato conseguentemente la filosofia. Ecco allora dieci poesie scritte da dieci filosofi italiani del Novecento più o meno famosi. Nel selezionarle ho cercato di privilegiare quelle più specificatamente vicine al pensiero filosofico, per quanto fosse possibile. Spero di esserci riuscito.


10 POESIE DI 10 FILOSOFI ITALIANI DEL XX SECOLO 


LA SERRA
di Adelchi Baratono (1875-1947)

Io giunsi. Era ombra. Sedevi
per terra tra i fiori, e premevi
colle dita anellate una mimosa
nella tua serra odorosa.
I vetri specchiavano un pallido sole
che tra violette aiuole
moriva. Nel mare un pescatore piangeva.
E quando protesi la faccia
sbiancata, in lucida traccia
la FELICITÀ passava! e scoteva
tutti i suoi sonagliuzzi festosi,
scoteva scoteva.
Passava e passò. Io doveva
rimanere per sempre proteso..!
E tu mi mordesti le labbra
con l'occhio tremulo acceso...
L'altra lontanava tinnando
quando
tu mi mordesti le labbra.
Non potevi sapere il mio pianto dirotto.

(da "Sparvieri", Stab. Montorfano, Genova 1900, p. 25)




Da "BALLI"
di Massimo Bontempelli (1878-1960)

Avanti i primi - uno - due
  a destra a sinistra per ordine
  voltare girare
  qui.

Otto pensieri di morte
  dieci doveri di vita
  sinistra poi destra per fila
  lì.

Un maschio e una femmina
  un nero e un azzurro
  otto paure
  dieci imposture
  un sussurro.

Avanti dal fondo a catene.
  Sette i giorni dodici i mesi
  a destra a sinistra per bene
  otto cuori dieci cervelli
  su giù non uno di più
  codice articolo regola
  - uno - due - così.

(da "Il Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987, p. 30)




CARO INFIRMA
di Giorgio Del Vecchio (1878-1970)

Nell'atra notte, mentre più dolora
L'infermità dell'esser mio mortale,
Sento come un lieve batter d'ale
E un'eterea carezza che mi sfiora.

Spirto celeste, donde vieni? E quale
Amor ti muove? Deh m'assisti ancora,
Ché tua dolcezza sola mi rincora
Ed è divino balsamo al mio male.

O misera materia, o nostra sorte
Che l'anima con quella ognora affianca,
E la stringe e comprime in ree ritorte!

Ma a tratti un santo anelito l'affranca,
Pregno di vera vita oltre la morte.
Lo spirito è pronto, se la carne è stanca.

(da "Poesie", Mediterranea, Roma 1953, p. 42)




IL DESIDERIO VINTO
di Lorenzo Giusso (1900-1957)

Ingannatrice apparenza, bellezza sublime del mondo
che mi costringi prigione tra labili giochi di forme,
quando ai miei occhi sparita sarai e svanita l'enorme
brama di vita e d'amore che brama il mio cuore profondo?

Melodrammatico cuore, tu sogni ruinose avventure
con principesse d'Oriente dai biondi imperiosi artifizi
dietro viali fragranti di tassi, magnolie e palmizi,
penduli in laghi smaltati d'opache, perenni verdure.

Vorresti giungere, stanco, in rosei tramonti d'anguria
a bianchi alberghi ricolmi di palme e di lucide coppie
fanatizzate ed estatiche. Vorresti veder sulle doppie
cristallerie incendiarsi sorrisi di cupa lussuria.

Tu credi ancora che ignote dolcezze si trovino al fondo
di balaustre appoggiate su gravidi mari turchini.
Veneri ancora, in segreto, la donna dai gesti felini
pallida ed irta Discordia emersa d'abisso profondo.

Tu sogni e vedi slargarsi tra tozze colonne un salone
di gioco. E credi, l'ingenuo, che pile di scudi lucenti
ti renderebber felice. E pensi, in tuoi sogni dementi,
che basti caracollare per essere un Napoleone.

Tu, ignaro, sempre vagheggi l'ebbrezza che fiacca e consuma.
Mediti d'inobliabili viluppi di corpi sovrani
votati a lente morti, a squisiti martirî oltre umani.
Soavi orchestre di baci vorresti su letti di piume.

Tu credi ancor che le alcove di lusso fra i loro tendaggi
chiudan eccelsi segreti. Tutt'ora ti turbi e t'accori
se nei viali dei tigli si stampano baci sonori
due sconosciuti felici. Il sesso i suoi pigri miraggi

proietta immoto su te. Tu tendi al servaggio dei sensi,
al muto abbagliamento dinanzi ad un corpo insaziato.
La Vita dello Spirito ti pare un fantasma malato,
un'insidia alla carne protesa ai suoi gaudi più intensi.

Esci da te! Disingannati! Evaditi dalla prigione
dell'io tiranno! Confondi cogli altri viventi la trama
della tua vita solinga! Deponi l'estuosa tua brama
che ti distrugge e ti perde! Dischiudi alla rassegnazione

l'animo e aspetta calmo la Morte che il tuo desiderio
scioglierà fra i ghiacciai del bianco e silente suo imperio.

(da "Elegie del torso della saggezza mutilata", Corbaccio, Milano 1941, pp. 149-152)




L'ALBERO LUMINOSO
di Gino Gori (1876-1952)

Cresce come l'alba
quest'albero di madreperla,
e porta impigliati fra i rami
figure d'uomini e colori.
Stormisce che non si sente
coi nostri orecchi mortali,
ma già nell'anima passa
una musica che pare
come un silenzio di amore.
Cresce la pianta mattutina
con una fretta dorata,
empie gli spazi della terra
e l'infinito del cielo.
Tutti la chiamano luce,
ch'è il vero nome di Dio,
ma ella non è che la favola della luce,
e dura un giorno soltanto,
come la fanciullezza,
come l'amore,
come la vita dell'uomo,
ch'è una piccola lacrima
caduta
dagli occhi invisibili dell'eternità.

(da "Il mulino della Luna", Alpes, Milano 1924, pp. 30-31)




CAMMINO NOTTURNO
di Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981)

Vado. L'ombra errante degli alberi mi serra
con grinze lunghe di lascivia, e reti torte
e viscide, e nodi vivi e corde troppo corte
che stiracchio e dirompo e lascio in terra
fra le pozze lunari come serpi morte.

Vado. Vedo la luna nella notte spoglia
cader di ramo in ramo come una magnolia
malata e la rivedo ancora in fondo al viale
cantare in un trionfo triste di fontana,
e un cedro tendere alte le spennacchiate ale.

Vado. Io amo solo le stelle e te lontana.

(da «L'Eroica», novembre-dicembre 1932)




CENERI
di Marco Lessona (1859-1921)

Sapete, o uomini, voi
Che cosa restò della pira,
Che delle più preziose
Spoglie dei boschi d'oriente
Sardanapalo nel giorno
Ultimo compose,
Perch'egli e le sue donne ed i suoi
Tesori v'ardessero
Sopra? Forse ciò che rimase
Di quella pira fu cosa
Diversa dall'esiguo
Mucchio di cenere,
Che lascia il focherello di sterpi
Acceso sull'alpe dai pastori
Nell'ora, che dalla valle
Sale l'ombra fredda della sera?

Uomini, quanto rimane
Della più nobil passione
È pari a quanto lascia
Dietro di sé
Il desiderio più insano.
Lascia ogni fuoco
Un poco
Di cenere: d'ogni sforzo umano
Non resta nel nostro cuore
Altro che un po' di dolore.

(da "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930, p. 184-185)




RISVEGLIO
di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

Giaccio fra l'erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti. -
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch'io chiamo «io», ma ch'io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d'incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole! 

Ma pel cielo
montan le nubi su dall'orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi levo, che ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la mia vita,
che la stessa ignoranza m'è sapere -
la natura inimica ora m'è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl'insetti. -

(da "Dialogo della salute. Poesie", Formiggini, Genova 1912, pp. 76-77)




QUANTA LUCE
di Mario Novaro (1868-1944)

Quanta luce!
ma l'occhio è opaco;
esili emergono le terre
dall'immenso
seno dei mari:
oh quale cieco
liquido abisso
sotto il turchino velo,
quanta compatta tenebra
sotto l'incanto
de la spirabile aria
e il verde manto!
E fra gli innumeri
astri del cielo
(vana mira vana inquietudine?)
quante terre
vedono sentono
o l'uomo è solo?
e l'anima
da quali luci
da quali tenebre
s'accende o spegne?
o questa incerta vita è tutto
l'essere
altro senso non ha?

(da "Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, pp. 27-28)




OMNIA VANITAS
di Giuseppe Rensi (1871-1941)

Quando il pensier, che a ogni alto Vero intende,
L'evolversi fatal cieco e possente
Della materia, onde le forme, lente,
Uscir de' mondi, investigando ascende,

Per quest'anima picciola e dolente
Che nelle lotte e ne' desir s'accende,
Ed ama e piange ed opra e si ripente,
Un grave riso di pietà mi prende.

Come sarà mio dì breve compito
E la coscienza mia franta e sperduta,
Niuna traccia di me per questo immenso

Spazio starà, dov'or palpito e penso:
E la mia vita, inutil cifra muta,
Scomparirà nel mar dell'infinito.

(da "Sic et non. Metafisica e poesia", Libreria Editrice Romana, Roma 1910, p. 253)



 
Anonimo, "Il filosofo"
(da questa pagina Web)