domenica 1 marzo 2020

10 poesie di 10 filosofi italiani del XX secolo


Poesia e filosofia possono marciare insieme, soprattutto se la prima dottrina s'indirizza verso gli argomenti che piacciono maggiormente alla seconda, o se, interpretando il significato più generico della parola "filosofia", i versi provano a stabilire e a costruire una particolare concezione della vita. Fatto sta che, durante il XX secolo e non solo, alcuni filosofi si sono dedicati alla scrittura di versi. C'è chi lo ha fatto per tutta la vita, chi soltanto episodicamente; ci sono stati filosofi che non hanno mai pubblicato i versi che scrivevano a mo' di diario, chi, invece, ha ritenuto che la poesia (o la letteratura) fosse la sua attività più importante, e ha trascurato conseguentemente la filosofia. Ecco allora dieci poesie scritte da dieci filosofi italiani del Novecento più o meno famosi. Nel selezionarle ho cercato di privilegiare quelle più specificatamente vicine al pensiero filosofico, per quanto fosse possibile. Spero di esserci riuscito.


10 POESIE DI 10 FILOSOFI ITALIANI DEL XX SECOLO 


LA SERRA
di Adelchi Baratono (1875-1947)

Io giunsi. Era ombra. Sedevi
per terra tra i fiori, e premevi
colle dita anellate una mimosa
nella tua serra odorosa.
I vetri specchiavano un pallido sole
che tra violette aiuole
moriva. Nel mare un pescatore piangeva.
E quando protesi la faccia
sbiancata, in lucida traccia
la FELICITÀ passava! e scoteva
tutti i suoi sonagliuzzi festosi,
scoteva scoteva.
Passava e passò. Io doveva
rimanere per sempre proteso..!
E tu mi mordesti le labbra
con l'occhio tremulo acceso...
L'altra lontanava tinnando
quando
tu mi mordesti le labbra.
Non potevi sapere il mio pianto dirotto.

(da "Sparvieri", Stab. Montorfano, Genova 1900, p. 25)




Da "BALLI"
di Massimo Bontempelli (1878-1960)

Avanti i primi - uno - due
  a destra a sinistra per ordine
  voltare girare
  qui.

Otto pensieri di morte
  dieci doveri di vita
  sinistra poi destra per fila
  lì.

Un maschio e una femmina
  un nero e un azzurro
  otto paure
  dieci imposture
  un sussurro.

Avanti dal fondo a catene.
  Sette i giorni dodici i mesi
  a destra a sinistra per bene
  otto cuori dieci cervelli
  su giù non uno di più
  codice articolo regola
  - uno - due - così.

(da "Il Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987, p. 30)




CARO INFIRMA
di Giorgio Del Vecchio (1878-1970)

Nell'atra notte, mentre più dolora
L'infermità dell'esser mio mortale,
Sento come un lieve batter d'ale
E un'eterea carezza che mi sfiora.

Spirto celeste, donde vieni? E quale
Amor ti muove? Deh m'assisti ancora,
Ché tua dolcezza sola mi rincora
Ed è divino balsamo al mio male.

O misera materia, o nostra sorte
Che l'anima con quella ognora affianca,
E la stringe e comprime in ree ritorte!

Ma a tratti un santo anelito l'affranca,
Pregno di vera vita oltre la morte.
Lo spirito è pronto, se la carne è stanca.

(da "Poesie", Mediterranea, Roma 1953, p. 42)




IL DESIDERIO VINTO
di Lorenzo Giusso (1900-1957)

Ingannatrice apparenza, bellezza sublime del mondo
che mi costringi prigione tra labili giochi di forme,
quando ai miei occhi sparita sarai e svanita l'enorme
brama di vita e d'amore che brama il mio cuore profondo?

Melodrammatico cuore, tu sogni ruinose avventure
con principesse d'Oriente dai biondi imperiosi artifizi
dietro viali fragranti di tassi, magnolie e palmizi,
penduli in laghi smaltati d'opache, perenni verdure.

Vorresti giungere, stanco, in rosei tramonti d'anguria
a bianchi alberghi ricolmi di palme e di lucide coppie
fanatizzate ed estatiche. Vorresti veder sulle doppie
cristallerie incendiarsi sorrisi di cupa lussuria.

Tu credi ancora che ignote dolcezze si trovino al fondo
di balaustre appoggiate su gravidi mari turchini.
Veneri ancora, in segreto, la donna dai gesti felini
pallida ed irta Discordia emersa d'abisso profondo.

Tu sogni e vedi slargarsi tra tozze colonne un salone
di gioco. E credi, l'ingenuo, che pile di scudi lucenti
ti renderebber felice. E pensi, in tuoi sogni dementi,
che basti caracollare per essere un Napoleone.

Tu, ignaro, sempre vagheggi l'ebbrezza che fiacca e consuma.
Mediti d'inobliabili viluppi di corpi sovrani
votati a lente morti, a squisiti martirî oltre umani.
Soavi orchestre di baci vorresti su letti di piume.

Tu credi ancor che le alcove di lusso fra i loro tendaggi
chiudan eccelsi segreti. Tutt'ora ti turbi e t'accori
se nei viali dei tigli si stampano baci sonori
due sconosciuti felici. Il sesso i suoi pigri miraggi

proietta immoto su te. Tu tendi al servaggio dei sensi,
al muto abbagliamento dinanzi ad un corpo insaziato.
La Vita dello Spirito ti pare un fantasma malato,
un'insidia alla carne protesa ai suoi gaudi più intensi.

Esci da te! Disingannati! Evaditi dalla prigione
dell'io tiranno! Confondi cogli altri viventi la trama
della tua vita solinga! Deponi l'estuosa tua brama
che ti distrugge e ti perde! Dischiudi alla rassegnazione

l'animo e aspetta calmo la Morte che il tuo desiderio
scioglierà fra i ghiacciai del bianco e silente suo imperio.

(da "Elegie del torso della saggezza mutilata", Corbaccio, Milano 1941, pp. 149-152)




L'ALBERO LUMINOSO
di Gino Gori (1876-1952)

Cresce come l'alba
quest'albero di madreperla,
e porta impigliati fra i rami
figure d'uomini e colori.
Stormisce che non si sente
coi nostri orecchi mortali,
ma già nell'anima passa
una musica che pare
come un silenzio di amore.
Cresce la pianta mattutina
con una fretta dorata,
empie gli spazi della terra
e l'infinito del cielo.
Tutti la chiamano luce,
ch'è il vero nome di Dio,
ma ella non è che la favola della luce,
e dura un giorno soltanto,
come la fanciullezza,
come l'amore,
come la vita dell'uomo,
ch'è una piccola lacrima
caduta
dagli occhi invisibili dell'eternità.

(da "Il mulino della Luna", Alpes, Milano 1924, pp. 30-31)




CAMMINO NOTTURNO
di Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981)

Vado. L'ombra errante degli alberi mi serra
con grinze lunghe di lascivia, e reti torte
e viscide, e nodi vivi e corde troppo corte
che stiracchio e dirompo e lascio in terra
fra le pozze lunari come serpi morte.

Vado. Vedo la luna nella notte spoglia
cader di ramo in ramo come una magnolia
malata e la rivedo ancora in fondo al viale
cantare in un trionfo triste di fontana,
e un cedro tendere alte le spennacchiate ale.

Vado. Io amo solo le stelle e te lontana.

(da «L'Eroica», novembre-dicembre 1932)




CENERI
di Marco Lessona (1859-1921)

Sapete, o uomini, voi
Che cosa restò della pira,
Che delle più preziose
Spoglie dei boschi d'oriente
Sardanapalo nel giorno
Ultimo compose,
Perch'egli e le sue donne ed i suoi
Tesori v'ardessero
Sopra? Forse ciò che rimase
Di quella pira fu cosa
Diversa dall'esiguo
Mucchio di cenere,
Che lascia il focherello di sterpi
Acceso sull'alpe dai pastori
Nell'ora, che dalla valle
Sale l'ombra fredda della sera?

Uomini, quanto rimane
Della più nobil passione
È pari a quanto lascia
Dietro di sé
Il desiderio più insano.
Lascia ogni fuoco
Un poco
Di cenere: d'ogni sforzo umano
Non resta nel nostro cuore
Altro che un po' di dolore.

(da "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930, p. 184-185)




RISVEGLIO
di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

Giaccio fra l'erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti. -
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch'io chiamo «io», ma ch'io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d'incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole! 

Ma pel cielo
montan le nubi su dall'orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi levo, che ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la mia vita,
che la stessa ignoranza m'è sapere -
la natura inimica ora m'è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl'insetti. -

(da "Dialogo della salute. Poesie", Formiggini, Genova 1912, pp. 76-77)




QUANTA LUCE
di Mario Novaro (1868-1944)

Quanta luce!
ma l'occhio è opaco;
esili emergono le terre
dall'immenso
seno dei mari:
oh quale cieco
liquido abisso
sotto il turchino velo,
quanta compatta tenebra
sotto l'incanto
de la spirabile aria
e il verde manto!
E fra gli innumeri
astri del cielo
(vana mira vana inquietudine?)
quante terre
vedono sentono
o l'uomo è solo?
e l'anima
da quali luci
da quali tenebre
s'accende o spegne?
o questa incerta vita è tutto
l'essere
altro senso non ha?

(da "Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, pp. 27-28)




OMNIA VANITAS
di Giuseppe Rensi (1871-1941)

Quando il pensier, che a ogni alto Vero intende,
L'evolversi fatal cieco e possente
Della materia, onde le forme, lente,
Uscir de' mondi, investigando ascende,

Per quest'anima picciola e dolente
Che nelle lotte e ne' desir s'accende,
Ed ama e piange ed opra e si ripente,
Un grave riso di pietà mi prende.

Come sarà mio dì breve compito
E la coscienza mia franta e sperduta,
Niuna traccia di me per questo immenso

Spazio starà, dov'or palpito e penso:
E la mia vita, inutil cifra muta,
Scomparirà nel mar dell'infinito.

(da "Sic et non. Metafisica e poesia", Libreria Editrice Romana, Roma 1910, p. 253)



 
Anonimo, "Il filosofo"
(da questa pagina Web)


mercoledì 26 febbraio 2020

La vita mi demolisce

La vita mi demolisce pezzo a pezzo,
a colpi di piccone mi sgretola.
Intacca un blocco della facciata,
un muro maestro va giù nella polvere;
si spalancano cantine
piene di ragnatele.
Sento la mia decadenza,
vedo la prossima fine.





Questa breve poesia è di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983), e fa parte della raccolta Linea della vita (Mondadori, Milano 1949); la si può leggere alla pagina 124, all'interno della sezione intitolata Amico di Caronte. Sono otto versi in cui il poeta romano confessa la sua sofferenza causata da un'esistenza più che mai difficile, paragonata - con grande maestria e originalità - alle mura di un vecchio edificio che subiscono continuamente dei colpi da un piccone, e che quindi si sgretolano un po' alla volta. Proprio come i muri ormai logori di una casa antica, l'uomo si sente, col passare degli anni, intaccato e corroso; le difficoltà che si accumulano lungo il percorso dell'esistenza, non fanno altro che abbattere a poco a poco le fondamenta di quella casa che in realtà è il poeta stesso, invecchiato, disilluso e indebolito; esso si accorge della propria decadenza e intravede la prossima fine, ovvero la morte, con un realismo scabro, senza margini di speranza o d'illusione.

mercoledì 19 febbraio 2020

Festa grigia


a Marino Moretti

Iersera la festa dei vivi colori,
la danza di risa e di lazzi iersera!...
La festa del grigio è stamane,
del grigio di piombo.
S'è fatta la luce assai tardi;
la strada è ravvolta nel grigio silenzio,
non s'ode che l'eco di sonno,
di sonno di piombo.
La nebbia leggera purifica l'aria
siccome i vapori d'incenso,
ricuopre di grigio lo specchio macchiato
che ancora ne l'ombra riflette
gli sprazzi scarlatti di risa,
di risa e di lazzi.
Riposano ai piedi dei letti di sonno profondo
gualciti gli stracci dai vivi colori.
La festa del grigio è stamane!
Rasentan le mura
coperte di brune mantiglie,
beghine ricurve,
rasentan le mura silenti.
Insiste argentino l'invito a la Messa:
la Prima.
Leggere vi corron le piccole figlie.
La strada è ravvolta nel grigio silenzio.
L'invito argentino si tace.
Più nulla. La Messa incomincia.
Più ratte rasentan le mura
le brune mantiglie,
più rade si fanno ed il passo ne cessa.
Soltanto la nebbia leggera
tranquilla rimane al suo giorno di festa:
la festa del grigio è stamane!





Festa grigia è una poesia di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974). Comparve per la prima volta come settima lirica (pp. 33-34), all'interno del volumetto Lanterna, che lo scrittore toscano pubblicò a sue spese in Firenze nel 1907. La si ritrova poi costantemente, sebbene in parte modificata, nelle successive raccolte che riuniscono le poesie di Palazzeschi, a partire da Poesie (1904-1909), Vallecchi, Firenze 1925, fino alla complessiva Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002, dove viene riproposta anche la prima versione di questa lirica. Io l'ho riportata da un altro volume, intitolato I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi, pubblicato dalle Edizioni Empirìa di Roma nel 1996 (da cui la foto sopra); qui si possono rileggere nelle versioni originali, tutte e tre le prime raccolte poetiche di Palazzeschi, che grosso modo, rappresentano la fase più "crepuscolare" di questo poeta così sui generis nel panorama italiano del primo Novecento. Ma soltanto in Lanterna, Festa grigia porta la dedica al poeta ed amico Marino Moretti, probabilmente per quel colore grigio così amato dallo scrittore romagnolo, come si può evincere dai tanti suoi versi in cui viene evocato. Ma non è da dimenticare che il grigio è uno dei colori preferiti un po' da tutti i poeti crepuscolari, a cominciare da Corrado Govoni, che intitolò la sua seconda raccolta di poesie Armonia in grigio et in silenzio. Quanto all'argomento trattato da questi versi, si tratta di un mattino nebbioso che segue una notte di festa grande (forse carnevalesca). Come in molte altre poesie di Palazzeschi - e si fa riferimento soprattutto alle sue prime raccolte - il tutto è avvolto da un'atmosfera altamente misteriosa e da un'immobilità spaventosa, che fa apparire quel paesaggio, quasi ultraterreno: sia per la sola presenza vitale rappresentata dalle beghine che si recano quasi furtivamente alla prima messa; sia per l'unico rumore presente, che è quello delle campane che annunciano l'inizio del rito religioso. Inutile aggiungere che in questa poesia, il poeta toscano riesce, una volta di più, ad affascinare il lettore come pochissimi altri poeti hanno saputo fare.

domenica 16 febbraio 2020

Antologie: "Otto secoli di poesia italiana"


Statisticamente non sono poi moltissime le antologie poetiche che hanno voluto prendere in considerazione l'intera storia della lirica italiana, partendo dal Duecento e giungendo fino ai tempi attuali. Tra di esse merita senz'altro qualche considerazione Otto secoli di poesia italiana (sottotitolo: da S. Francesco d'Assisi a Pasolini), pubblicata dalla Newton Compton di Roma, all'interno della collezione I mammut, nel 1993. Il curatore è Giacinto Spagnoletti (1920-2003), ovvero un critico ed un poeta di fama, che aveva già curato diverse antologie prima di questa, quasi tutte dedicate alla poesia italiana del Novecento (qualcuna, di ottima qualità, l'ho già inserita in questo blog, qualche altra ne aggiungerò a breve). La capacità - per non dire la maestria - dello Spagnoletti, nell'organizzare opere antologiche, si è confermata anche in questo libro di 819 pagine, che parte dal XIII secolo, col Cantico delle Creature di San Francesco d'Assisi, e arriva fino a Pier Paolo Pasolini: ultimo poeta preso in considerazione tra quelli del XX secolo. Forse, l'unica pecca che si riscontra nella struttura di questa antologia, è la mancanza delle ultime generazioni poetiche novecentesche; ma, vista la data di uscita del libro, l'assenza di questi poeti è in parte comprensibile.
Chiudo riportando i nomi di tutti i poeti - compresi i dialettali - presenti in Otto secoli di poesia italiana.



OTTO SECOLI DI POESIA ITALIANA



IL DUECENTO E IL TRECENTO
S. Francesco d'Assisi, Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d'Aquino, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Giacomino Pugliese, Mazzeo di Riccio, Percivalle Doria, Compagnetto da Prato, Cielo d'Alcamo, Guittone d'Arezzo, Bonagiunta Orbicciani, Chiaro Davanzati, Rustico di Filippo, Compiuta Donzella, Monte andrea da Firenze, Dante da Maiano, Jacopone da Todi, Bonvesin de la Riva, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Cecco Angiolieri, Francesco da Barberino, Dante Alighieri, Cecco d'Ascoli, Cino da Pistoia, Sennuccio del Bene, Folgòre da San Gimignano, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Antonio Pucci, Franco Sacchetti.

LA CIVILTÁ RINASCIMENTALE
Leonardo Giustinian, Domenico di Giovanni (il Burchiello), Giovanni Pontano, Luigi Pulci, Antonio Cammelli (il Pistoia), Pietro Jacopo de Jennaro, Matteo Maria Boiardo, Matteo Franco, Lorenzo de' Medici, Niccolò da Correggio, Angelo Ambrogini (il Poliziano), Jacobo Sannazzaro, Gasparo Visconti, Pietro Bembo, Ludovico Ariosto, Michelangelo Buonarroti, Baldassarre Castiglione, Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Teofilo Folengo, Ruzante (Angelo Beolco), Francesco Berni, Giovanni Della Casa, Angelo Di Costanzo, Luigi Tansillo, Galeazzo di Tarsia, Isabella di Morra, Gaspara Stampa, Antonio Veneziano, Torquato Tasso, Veronica Franco, Maffeo Venier.

BAROCCO, ARCADIA E PREROMANTICISMO
Gabriello Chiabrera, Tommaso Campanella, Giambattista Marino, Tommaso Stigliani, Claudio Achillini, Giulio Cesare Cortese, Giambattista Basile, Filippo Sgruttendio de Scafato, Gian Giacomo Cavalli, Gian Francesco Busenello, Ciro di Pers, Pier Francesco Paoli, Leonardo Quirini, Girolamo Fontanella, Giuseppe Battista, Marco Boschini, Ermes di Colloredo, Francesco Redi, Carlo Maria Maggi, Francesco de Lemene.

LA RIVOLUZIONE LETTERARIA DEL SETTECENTO
Pier Jacopo Martello, Giovan Battista Felice Zappi, Eustachio Manfredi, Paolo Rolli, Carlo Innocenzo Frugoni, Giorgio Baffo, Pietro Metastasio, Tommaso Crudeli, Alfonso Varano, Carl'Antonio Tanzi, Domenico Balestrieri, Giacomo Casanova, Gavino Pes, Giuseppe Parini, Melchiorre Cesarotti, Lorenzo Pignotti, Giovanni Meli, Vittorio Alfieri, Jacopo Vittorelli, Lorenzo Mascheroni, Domenico Tempio, Aurelio de' Giorgi Bertola, Ippolito Pindemonte, Edmondo Ignazio Calvo.

L'OTTOCENTO
Vincenzo Monti, Anton Maria Lamberti, Carlo Porta, Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni, Marc'Antonio Parenti, Tommaso Grossi, Giuseppe Gioacchino Belli, Giacomo Leopardi, Luigi Carrer, Niccolò Tommaseo, Alessandro Poerio, Angelo Brofferio, Giovanni Rajberti, Giuseppe Giusti, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Vincenzo Padula, Giacomo Zanella, Luigi Mercantini, Giambattista Maccari, Giosuè Carducci, Emilio Praga, Giuseppe Maccari, Iginio Ugo Tarchetti, Emilio Consiglio, Antonio Fogazzaro, Arrigo Boito, Mario Rapisardi, Giovanni Camerana, Olindo Guerrini, Luigi Gualdo, Arturo Graf, Remigio Zena, Giovanni Pascoli, Vittoria Aganoor, Severino Ferrari, Cesare Pascarella, Luigi Zanazzo, Salvatore Di Giacomo.

IL PRIMO E IL SECONDO NOVECENTO
Gabriele D'Annunzio, Ferdinando Russo, Pietro Mastri, Ada Negri, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Trilussa, Francesco Guglielmino, Guelfo Civinini, Filippo Tommaso Marinetti, Ernesto Murolo, Francesco Gaeta, Ardengo Soffici, Guido Gozzano, Umberto Saba, Piero Jahier, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, Dino Campana, Arturo Onofri, Clemente Rebora, Virgilio Giotti, Modesto Della Porta, Sergio Corazzini, Delio Tessa, Nino Costa, Vincenzo Cardarelli, Camillo Sbarbaro, Giuseppe Ungaretti, Raffaele Viviani, Edoardo Firpo, Biagio Marin, Luigi Bartolini, Umberto Postiglione, Vittorio Clemente, Eugenio Montale, Giacomo Noventa, Giuseppe Pacotto, Carlo Betocchi, Salvatore Quasimodo, Lucio Piccolo, Libero De Libero, Sandro Penna, Antonio Delfini, Cesare Pavese, Tommaso Landolfi, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Lorenzo Calogero, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Emilio Villa, Anna Maria Ortese, Giorgio Bassani, Albino Pierro, Tonino Guerra, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini.   


domenica 9 febbraio 2020

La poesia di Adriano Guerrini

Adriano Guerrini (Alfonsine 1923 - Genova 1986) è l'ennesimo poeta italiano sottostimato - e di conseguenza trascurato - da una critica letteraria che troppo spesso, nel valutare le opere di uno scrittore, fa attenzione e dà importanza soltanto ad elementi che riguardano le correnti e le mode dei tempi in cui tale scrittore visse e operò. Guerrini è stato senza alcun dubbio un poeta dotato di un talento enorme, che però ha sempre rifiutato, se non avversato, certe tendenze poetiche basate su ricercatezze formali e su preziosismi linguistici, come pure quelle che prediligevano sterili e cervellotici sperimentalismi. Fin dalla sua prima gioventù, il poeta romagnolo ebbe precisi punti di riferimento: i versi che sempre amò e da cui s'ispirò sono soprattutto quelli di Giovanni Pascoli, Diego Valeri e Camillo Sbarbaro. Ciò è evidente già dalla prima raccolta di versi: Alti boschi, che comprende poesie scritte tra il 1943 e il 1947, e che fu pubblicata soltanto nel 1973. Qui emerge la natura in tutta la sua stupefacente bellezza; i luoghi alpini così pieni di fascino e di mistero sono descritti in modo eccellente, e mostrano tutta la passione del poeta romagnolo nei confronti della montagna, ma direi anche, più in generale, della natura incontaminata. Però a partire dalla sua seconda raccolta: L'età del ferro, ecco comparire il timore per il serio pericolo che tale, meravigliosa natura subisca delle interferenze da parte dell'uomo, comprese le conseguenti modifiche tali da renderla assai meno affascinante e da comprometterne definitivamente quella verginità fondamentale, senza la quale si avvia un percorso di deterioramento cronico, che si conclude con la fine della vita stessa, come viene paventato in un'altra, splendida raccolta di Guerrini: Jon il groenlandese¹.
Accanto al Guerrini naturalista ed ecologista ne esiste un altro, del tutto differente dal primo, che mette in mostra la sua tagliente vena polemica e la sua sincera passione politica. Quest'ultimo aspetto poetico lo si rintraccia facilmente in due raccolte dai titoli eloquenti: Polemica e Poesie politiche. In questi versi Guerrini prende spunto dalle mode poetiche dei suoi tempi e dai falsi o distorti ideali politici in voga nella seconda metà del Novecento, per esporre, con evidente indignazione, il suo disappunto e la sua ironia; anche quando tratta questi argomenti, si nota una non comune capacità di colpire nel segno, a conferma dell'enorme talento poetico di Guerrini. Le restanti raccolte, che vanno da Quindici poesie a qualcuno a Ultimi versi ², e che aggiungono ulteriori memorabili tasselli alla sua notevole produzione poetica, sono assolutamente "da leggere", e sarebbe anche il caso di riunire tutti i versi di questo poeta così tormentato e così misteriosamente trascurato in un unico volume, visto che a tutt'oggi esiste soltanto un libro: Poesie (1941-1986) che in parte ripercorre la sua carriera letteraria. In conclusione, riporto un elenco delle opere poetiche e tre bellissime poesie di Guerrini.

NOTE
1) Ora disponibile in nuova edizione dal 2016, grazie alla casa editrice San Marco dei Giustiniani di Genova.
2) Comprende otto liriche scritte tra il 1981 e il 1986, presenti nel volume Poesie (1941-1986).




Opere poetiche

"L'adolescente", Liguria, Genova 1957 (2° ed. accr. Sabatelli, Savona 1980).
"Età di ferro", Rebellato, Padova 1958.
"L'amore e il tempo", Amicucci, Padova 1960.
"Ritorno alla terra euganea", Ca' Diedo, Padova 1961.
"Polemica", Genova 1966.
"Cinquanta quartine", Genova 1971.
"Alti boschi (1943-1947)", Genova 1973.
"Jon il groenlandese", Scheiwiller, Milano 1974.
"Poesie politiche", Scheiwiller, Milano 1976.
"Età del ferro", Mondadori, Milano 1978.
"Quindici poesie a qualcuno", Sabatelli, Savona 1981.
"Ventotto poesie", San Marco dei Giustiniani, Genova 1981.
"L'invito", San Marco dei Giustiniani, Genova 1984.
"Tanka (1974-1979)", Res, Milano 1984.
"Poesie (1941-1986)", De Ferrari, Genova 1996.







L'OMBRA

Tra voci e fitti suoni,
tra ansiti di macchine
veloci, e luci, e scritte
senza tregua, al tramonto,
appare oscura un'ombra.

Dietro vortici d'occhi
febbrili e indifferenti,
mossi da un rosso lampo
o da un rifiuto inerme,
livida affiora un'ombra.

Lungo le vecchie strade,
a notte, se torniamo
silenziosi, pensando
a questi nostri anni,
cupa s'addensa un'ombra.

E nel tuo cielo, Europa,
su dal mare in cui splendide
galere più non vanno,
coi giorni malcerti,
come ingrandisce l'ombra!

[da "Poesie (1941-1986)", p. 57]




NULLA

Quando sarò scomparso anch'io, e di me
non resterà che un nome ed una data
sopra una pietra lungo un vecchio muro,
forse sarà scontata, solo allora,
la grande colpa d'essere esistito.
Tutto diventerà puro, lontano:
io non sarò che una leggenda antica
che nessuno conosce. Il nome mio
d'altro non parlerà se non del tempo
a qualcuno, per caso. Su di esso
passerà il lume dei giorni sereni,
la nebbia delle sere tristi, sempre,
sempre; fino a che anch'esso sparirà.
Così, nulla di me sarà mai stato.

(da "L'invito", p. 44)




NOI

Tu che torni ogni sera
e vai sicuro e lieto, discorrendo
senza guardarti intorno, conosciamo
il tuo segreto: mai col desiderio
sei andato al di là di quella donna
che hai, di quelle frasi
che pronunci ogni giorno,
di quel ritorno per la via che sai.

Noi con fastidio e con disperazione
verso di te guardiamo:
noi che dovunque siamo non è mai
casa nostra, che in fondo
al cuore udiamo sempre un'altra voce,
cui gli occhi sempre fuggono
oltre i muri e cui sempre l'inquietudine
ha vuotato le mani.

Uomini soli, noi, che quando anch'esse
le parole ci avranno ormai delusi,
solo squallore attenderà, domani.

(da "L'invito", p. 71)

domenica 2 febbraio 2020

Poeti dimenticati: Donata Doni


Donata Doni (nome d'arte di Santina Maccarone) nacque a Lagonegro nel 1913 e morì a Roma nel 1972. Laureatasi in lettere a Padova, professò l'insegnamento in varie scuole italiane. Si trasferì poi a Roma dove lavorò presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Coltivò l'amore per la poesia fin dalla primissima gioventù ma il suo primo volume pubblicato è del 1940. Si spense in seguito ad una grave e lunga malattia. La poesia di Donata Doni si fa notare per la sincera autobiografia che contiene, e che riflette un'anima dolente, fortemente religiosa e meditativa; altro elemento che spicca è la limpidezza dei suoi versi: parole semplici e nello stesso tempo profonde, che hanno la capacità di trasmettere emozioni non comuni. Troppo spesso ignorata dagli antologisti, l'opera poetica della Doni non è stata ancora riunita in un unico volume, e non ne capisco il motivo, visto il grandissimo valore che possiede.




Opere poetiche

"Amore di poesia", Carabba, Lanciano 1940.
"Orme di nubi", Il sentiero dell'arte, Pesaro 1949.
"L'alba che ignoro", Gastaldi, Milano 1954.
"Neve e mare", Rebellato, Padova 1959.
"Il pianto dei ciliegi feriti", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963.
"La carta dispari", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1968.
"Il fiore della gaggìa", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1973. 
"Neve e mare" (2° edizione accresciuta), Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1973.





Presenze in antologie

"La poesia femminile del '900", a cura di Gaetano Salveti, Edizioni del Sestante, Padova 1964 (pp. 109-117).
"Brucia, invisibile fiamma", a cura di Enzo Bianchi e Riccardo Larini, Qiqaion, Magnano 1998 (pp. 23, 40, 42-43, 74, 96, 99-100, 118).
"L'altro Novecento, Volume IV", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1998 (pp. 46-47).
"L'altro Novecento, Volume V", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 179-181).
"Poesie di Dio", a cura di Enzo Bianchi, Einaudi, Torino 1999 (pp. 21, 46-47, 54, 64, 106, 114, 168).




Testi

SEGUIRÒ IL MIO ANGELO

Quando tutto sarà in ordine
io seguirò il mio Angelo
che mi porterà nel paese
dove il sole non tramonta,
dove tutti si vogliono bene
e le pupille degli uomini
sono chiare come quelle dei bimbi.
Nel paese donde attinsi le voci
della mia poesia, dove mi rifugiai
sempre, dove ritroverò quelli
che mi hanno preceduta.
È questione di attesa.
L'istante è nella mente di Dio.
Se la fiaccola arderà nella notte
seguirò il mio Angelo,
che mi porterà per mano, lieve.

(da "La carta dispari")




IL N. 5

Anch'io camminavo per le strade
con il viso nel sole.
Mi guardavate,
mi chiamavate fratello.
Avevo anch'io una casa,
chiara fra le colline.
Sapevo le vostre parole:
amore, ricchezza, fortuna.
Ora non ho che una cella,
e il cielo non è più mio.
Per altri rinverdiscono prati,
per altri sfavillano fiori,
per altri canta la luce,
trascorrono musiche d'acque.
Un pazzo non ha casa,
né donna, né voci di bimbi,
né sguardi d'amore.

Un numero recide
la mia squallida vita
dalla linfa del mondo:
un numero sopra la cella
conchiude il segreto
che mi dissolve.

(da "Neve e mare")