domenica 9 febbraio 2020

La poesia di Adriano Guerrini

Adriano Guerrini (Alfonsine 1923 - Genova 1986) è l'ennesimo poeta italiano sottostimato - e di conseguenza trascurato - da una critica letteraria che troppo spesso, nel valutare le opere di uno scrittore, fa attenzione e dà importanza soltanto ad elementi che riguardano le correnti e le mode dei tempi in cui tale scrittore visse e operò. Guerrini è stato senza alcun dubbio un poeta dotato di un talento enorme, che però ha sempre rifiutato, se non avversato, certe tendenze poetiche basate su ricercatezze formali e su preziosismi linguistici, come pure quelle che prediligevano sterili e cervellotici sperimentalismi. Fin dalla sua prima gioventù, il poeta romagnolo ebbe precisi punti di riferimento: i versi che sempre amò e da cui s'ispirò sono soprattutto quelli di Giovanni Pascoli, Diego Valeri e Camillo Sbarbaro. Ciò è evidente già dalla prima raccolta di versi: Alti boschi, che comprende poesie scritte tra il 1943 e il 1947, e che fu pubblicata soltanto nel 1973. Qui emerge la natura in tutta la sua stupefacente bellezza; i luoghi alpini così pieni di fascino e di mistero sono descritti in modo eccellente, e mostrano tutta la passione del poeta romagnolo nei confronti della montagna, ma direi anche, più in generale, della natura incontaminata. Però a partire dalla sua seconda raccolta: L'età del ferro, ecco comparire il timore per il serio pericolo che tale, meravigliosa natura subisca delle interferenze da parte dell'uomo, comprese le conseguenti modifiche tali da renderla assai meno affascinante e da comprometterne definitivamente quella verginità fondamentale, senza la quale si avvia un percorso di deterioramento cronico, che si conclude con la fine della vita stessa, come viene paventato in un'altra, splendida raccolta di Guerrini: Jon il groenlandese¹.
Accanto al Guerrini naturalista ed ecologista ne esiste un altro, del tutto differente dal primo, che mette in mostra la sua tagliente vena polemica e la sua sincera passione politica. Quest'ultimo aspetto poetico lo si rintraccia facilmente in due raccolte dai titoli eloquenti: Polemica e Poesie politiche. In questi versi Guerrini prende spunto dalle mode poetiche dei suoi tempi e dai falsi o distorti ideali politici in voga nella seconda metà del Novecento, per esporre, con evidente indignazione, il suo disappunto e la sua ironia; anche quando tratta questi argomenti, si nota una non comune capacità di colpire nel segno, a conferma dell'enorme talento poetico di Guerrini. Le restanti raccolte, che vanno da Quindici poesie a qualcuno a Ultimi versi ², e che aggiungono ulteriori memorabili tasselli alla sua notevole produzione poetica, sono assolutamente "da leggere", e sarebbe anche il caso di riunire tutti i versi di questo poeta così tormentato e così misteriosamente trascurato in un unico volume, visto che a tutt'oggi esiste soltanto un libro: Poesie (1941-1986) che in parte ripercorre la sua carriera letteraria. In conclusione, riporto un elenco delle opere poetiche e tre bellissime poesie di Guerrini.

NOTE
1) Ora disponibile in nuova edizione dal 2016, grazie alla casa editrice San Marco dei Giustiniani di Genova.
2) Comprende otto liriche scritte tra il 1981 e il 1986, presenti nel volume Poesie (1941-1986).




Opere poetiche

"L'adolescente", Liguria, Genova 1957 (2° ed. accr. Sabatelli, Savona 1980).
"Età di ferro", Rebellato, Padova 1958.
"L'amore e il tempo", Amicucci, Padova 1960.
"Ritorno alla terra euganea", Ca' Diedo, Padova 1961.
"Polemica", Genova 1966.
"Cinquanta quartine", Genova 1971.
"Alti boschi (1943-1947)", Genova 1973.
"Jon il groenlandese", Scheiwiller, Milano 1974.
"Poesie politiche", Scheiwiller, Milano 1976.
"Età del ferro", Mondadori, Milano 1978.
"Quindici poesie a qualcuno", Sabatelli, Savona 1981.
"Ventotto poesie", San Marco dei Giustiniani, Genova 1981.
"L'invito", San Marco dei Giustiniani, Genova 1984.
"Tanka (1974-1979)", Res, Milano 1984.
"Poesie (1941-1986)", De Ferrari, Genova 1996.







L'OMBRA

Tra voci e fitti suoni,
tra ansiti di macchine
veloci, e luci, e scritte
senza tregua, al tramonto,
appare oscura un'ombra.

Dietro vortici d'occhi
febbrili e indifferenti,
mossi da un rosso lampo
o da un rifiuto inerme,
livida affiora un'ombra.

Lungo le vecchie strade,
a notte, se torniamo
silenziosi, pensando
a questi nostri anni,
cupa s'addensa un'ombra.

E nel tuo cielo, Europa,
su dal mare in cui splendide
galere più non vanno,
coi giorni malcerti,
come ingrandisce l'ombra!

[da "Poesie (1941-1986)", p. 57]




NULLA

Quando sarò scomparso anch'io, e di me
non resterà che un nome ed una data
sopra una pietra lungo un vecchio muro,
forse sarà scontata, solo allora,
la grande colpa d'essere esistito.
Tutto diventerà puro, lontano:
io non sarò che una leggenda antica
che nessuno conosce. Il nome mio
d'altro non parlerà se non del tempo
a qualcuno, per caso. Su di esso
passerà il lume dei giorni sereni,
la nebbia delle sere tristi, sempre,
sempre; fino a che anch'esso sparirà.
Così, nulla di me sarà mai stato.

(da "L'invito", p. 44)




NOI

Tu che torni ogni sera
e vai sicuro e lieto, discorrendo
senza guardarti intorno, conosciamo
il tuo segreto: mai col desiderio
sei andato al di là di quella donna
che hai, di quelle frasi
che pronunci ogni giorno,
di quel ritorno per la via che sai.

Noi con fastidio e con disperazione
verso di te guardiamo:
noi che dovunque siamo non è mai
casa nostra, che in fondo
al cuore udiamo sempre un'altra voce,
cui gli occhi sempre fuggono
oltre i muri e cui sempre l'inquietudine
ha vuotato le mani.

Uomini soli, noi, che quando anch'esse
le parole ci avranno ormai delusi,
solo squallore attenderà, domani.

(da "L'invito", p. 71)

domenica 2 febbraio 2020

Poeti dimenticati: Donata Doni


Donata Doni (nome d'arte di Santina Maccarone) nacque a Lagonegro nel 1913 e morì a Roma nel 1972. Laureatasi in lettere a Padova, professò l'insegnamento in varie scuole italiane. Si trasferì poi a Roma dove lavorò presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Coltivò l'amore per la poesia fin dalla primissima gioventù ma il suo primo volume pubblicato è del 1940. Si spense in seguito ad una grave e lunga malattia. La poesia di Donata Doni si fa notare per la sincera autobiografia che contiene, e che riflette un'anima dolente, fortemente religiosa e meditativa; altro elemento che spicca è la limpidezza dei suoi versi: parole semplici e nello stesso tempo profonde, che hanno la capacità di trasmettere emozioni non comuni. Troppo spesso ignorata dagli antologisti, l'opera poetica della Doni non è stata ancora riunita in un unico volume, e non ne capisco il motivo, visto il grandissimo valore che possiede.




Opere poetiche

"Amore di poesia", Carabba, Lanciano 1940.
"Orme di nubi", Il sentiero dell'arte, Pesaro 1949.
"L'alba che ignoro", Gastaldi, Milano 1954.
"Neve e mare", Rebellato, Padova 1959.
"Il pianto dei ciliegi feriti", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963.
"La carta dispari", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1968.
"Il fiore della gaggìa", Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1973. 
"Neve e mare" (2° edizione accresciuta), Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1973.





Presenze in antologie

"La poesia femminile del '900", a cura di Gaetano Salveti, Edizioni del Sestante, Padova 1964 (pp. 109-117).
"Brucia, invisibile fiamma", a cura di Enzo Bianchi e Riccardo Larini, Qiqaion, Magnano 1998 (pp. 23, 40, 42-43, 74, 96, 99-100, 118).
"L'altro Novecento, Volume IV", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1998 (pp. 46-47).
"L'altro Novecento, Volume V", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 179-181).
"Poesie di Dio", a cura di Enzo Bianchi, Einaudi, Torino 1999 (pp. 21, 46-47, 54, 64, 106, 114, 168).




Testi

SEGUIRÒ IL MIO ANGELO

Quando tutto sarà in ordine
io seguirò il mio Angelo
che mi porterà nel paese
dove il sole non tramonta,
dove tutti si vogliono bene
e le pupille degli uomini
sono chiare come quelle dei bimbi.
Nel paese donde attinsi le voci
della mia poesia, dove mi rifugiai
sempre, dove ritroverò quelli
che mi hanno preceduta.
È questione di attesa.
L'istante è nella mente di Dio.
Se la fiaccola arderà nella notte
seguirò il mio Angelo,
che mi porterà per mano, lieve.

(da "La carta dispari")




IL N. 5

Anch'io camminavo per le strade
con il viso nel sole.
Mi guardavate,
mi chiamavate fratello.
Avevo anch'io una casa,
chiara fra le colline.
Sapevo le vostre parole:
amore, ricchezza, fortuna.
Ora non ho che una cella,
e il cielo non è più mio.
Per altri rinverdiscono prati,
per altri sfavillano fiori,
per altri canta la luce,
trascorrono musiche d'acque.
Un pazzo non ha casa,
né donna, né voci di bimbi,
né sguardi d'amore.

Un numero recide
la mia squallida vita
dalla linfa del mondo:
un numero sopra la cella
conchiude il segreto
che mi dissolve.

(da "Neve e mare")







domenica 26 gennaio 2020

Riproposta e rivalutazione dell'opera poetica di Iginio Ugo Tarchetti


Un coro quasi unanime di critici letterari parla, a proposito dell'opera letteraria di Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969), della netta superiorità del prosatore rispetto al poeta. Certamente non posso affermare che siano in errore, ma posso però dire che i versi dello scrittore piemontese (naturalizzato lombardo) sono stati sbrigativamente fatti rientrare a pieno nell'ambito della corrente letteraria che fu definita Scapigliatura, escludendoli da qualsiasi altro contesto e classificandoli come esempio di "poesia minore dell'Ottocento". Certamente Tarchetti non scrisse molte poesie, e nemmeno pubblicò, durante la sua breve vita, alcun volume di versi; l'unico che esiste, venne alla luce col titolo Disjecta, ben dieci anni dopo la sua morte, preceduto da un commento di Domenico Milelli - anche lui autore di versi - che, forse, fu tra i primi ad usare parole di elogio per il poeta, già allora ingiustamente dimenticato. Personalmente ho sempre amato le poche poesie di Tarchetti, e lo considero tra i migliori - almeno in Italia - del secondo Ottocento. Mi sorpresi alquanto leggendo la famosa stroncatura che fece, a proposito del volume citato, un celebre poeta italiano: Giosuè Carducci; ecco cosa affermò:

[...] A proposito dei versi del Tarchetti, il buon Domenico Milelli, che ne fa di incomparabilmente migliori, uscì una volta a dire che all'anima di lui erano fuse due grandi anime, quella del Heine e quella del Leopardi. Non mai fu nominato invano il nome di Dio: ma tali bestemmie sono conseguenze di quel sentimentalismo estetico che al Lamartine faceva trovare più genio in una lacrima che in tutti i poemi del mondo. Il Tarchetti visse povero, e morì giovane. Me ne duole; e mi adiro con chi non gli diè lavoro o il lavoro non compensò; forse anche mi adiro con la società che lascia morire di fame uomini d'ingegno e d'animo quale il Tarchetti. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia? No: io dico che l'ammirazione pe 'l sonetto «Ell'era così gracile e piccina» è una miserabile prova di rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava «scrofola romantica» aveva condotto la gente.¹

Leggendo i giudizi di vari critici e antologisti italiani, quello di  Neuro Bonifazi, nell'introduzione all'antologia Poeti della Scapigliatura, mi è sembrato il più opportuno, e per questo motivo ne riporto dei frammenti:

[...] Abbiamo già detto che la poesia del Tarchetti (che forse a torto è sempre stata trascurata nei confronti della sua narrativa) è una poesia d'amore. Un'aria stilnovistica, di un dolce-amaro stil nuovo, un'atmosfera di intimità emblematica, di figurazioni e di incubi dolorosi e malati, di questi pochi versi di Disjecta, un canzoniere di stilnovismo rovesciato, maledetto. Il sogno si è rivelato definitivamente «orrenda visione». La donna è ambigua: cioè non è quello che sembra, viva, bella, giovane: si dichiara morta, si vede «scheletro», e si rivela «vecchia rugosa e sdentata»; eppure è «fragile e piccina», un «fior sì frale e delicato», è «la poveretta», è la «cara fanciulla». Nel gusto della Scapigliatura, lo abbiamo già visto, c'è questa violenza contro la bellezza apparente, ma qui c'è anche la pietà e l'amore.
[...] In Tarchetti la natura non parla, è «inaridita», e tace. «Tace la valle e tacciono gli steli» («Spunta il mattino»): dopo i fiori dell'adolescenza spezzati dalla delusione, dopo i «poveri fior recisi», si schiude ancora una viola, ma è «la viola bruna, il fior del sepolcreto», e il poeta vorrebbe essere solo un relitto della natura morta (petalo di rosa, fiore d'elianto, foglia di un cipresso), per poter «fuggire e gli uomini e me stesso, - Nuova terra cercando e nuovo mare» («Vorrei essere... ecc.»). Natura chiusa; quando non è già uno spunto di riflessione e di simbologia: ellera = virtù d'eterno amore; l'acqua che va = la felicità cosciente. A sostituire queste apparenze che non suggeriscono se non propositi di fuga e di liquidazione è appunto la donna, investita da un trasporto di sublimazione attraverso la morte e tutti i suoi aspetti, un trasporto d'amore. L'amore scapigliato del Tarchetti è amore-pietà, amore-orrore, amore-sogno ultraterreno. La fanciulla è trapassata dalla terra a un cielo fantomatico, o a un «sotto terra», a mostrare il miracolo di una esistenza di spiriti, a cui avvia il terrore mescolato di desiderio, in mezzo alle false «parvenze del vero». Per questo, tutto è al di là della terra, del tempo, del passare per le strade: un continuo «dì dei morti», un'eterna «mezzanotte» funebre, un accompagnamento di «demoni», un passare attraverso una «landa inospite»: «Io vado e ignoro il termine - Del mio cammin qual sia: - Vado solingo e lacrimo - Per la deserta via» («Amore ho in petto...»).
La lirica del Tarchetti, dunque (e qui non è il caso di collegarla ai suoi racconti in prosa), attinge uno sconsolato sentimento, un sentimento complicato, che ha trasformato le radici leopardiane della delusione e della rimembranza, e che interroga inutilmente e paurosamente l'essenza della morte, ricevendone una risposta di sola immaginazione, di soli fantasmi, di cadaveri muti. Ferma su di una innaturale pietà, riempie i versi di disperazione e di emblemi, di interrogazioni e di inutili violenze. Non esce tuttavia da un tono generico di tradizione romantica, anche se non ha timore di usare spesso un linguaggio di rottura sugli oggetti («lenzuol roso», «stinchi imbianchiti», «sozzi amplessi», «larva d'angelo», «zuccherini e carezze», «fetidi baci», ecc.). Si apre tuttavia con le poesie di Disjecta (composte tra il 1867 e il 1875) una visione caratteristica e nuova (e non ci ingannino certo linguaggio o cadenze della tradizione), un senso insano e morboso dell'amore e della donna, ma soprattutto della realtà. Sui suoi strani fiori d'oltretomba passano ombre sottili e di orfica rivelazione, e i suoi cadaveri feroci e deformanti creano atmosfere espressionistiche nuove e palesi. ²

La recente uscita di una nuova edizione di Disjecta, grazie all'editore Carabba³, oggi consente di rivalutare l'opera poetica di Tarchetti che, per quanto esigua, possiede delle qualità non indifferenti, e in parte anticipa futuri e importanti sviluppi della poesia italiana, compresa quella dei primi anni del XX secolo. Allo stesso modo dei versi, andrebbero rivalutate le prose poetiche dei Canti del cuore, che furono pubblicate insieme alle poesie nel 1879, ma che non sono presenti nella nuova edizione. Chiudo riportando tre poesie di Iginio Ugo Tarchetti presenti nella nuova edizione di Disjecta.


NOTE
1) Da Secondo Ottocento, Zanichelli, Bologna 1969, p. 833.
2) Da Poeti della Scapigliatura, Argalìa, Urbino 1962, pp. 21-23.
3) Sto parlando di Disjecta. Frammenti lirici, edizione critica, introduzione e commento a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017 (il piatto anteriore de libro si vede nella foto qui sotto). All'interno di questo libro è possibile leggere ulteriori sette poesie dello scrittore lombardo, rintracciate da poco tempo in riviste d'epoca.





SCENDON LE TENEBRE

Scendon le tenebre;
Soletti e muti
Miriam, sul margine
Del rio seduti
L’onda trascorrere
Che argin non ha:
- Guarda, essa dice,
Come è felice
L’acqua... lei va!

Poi tace e lacrima
La poveretta.
- Quale, io la interrogo,
Quale, o diletta,
Di noi l’incognito
Fato sarà? -
Piange essa, e dice:
- Come è felice
L’acqua... lei va!




M'AVEA DATO CONVEGNO AL CIMITERO

M'avea dato convegno al cimitero
A mezzanotte — ed io ci sono andato:
Urlava il vento ed il tempo era nero
Biancheggiavan le croci del sagrato;
E alla smorta fanciulla ho dimandato:
— Perchè darmi convegno al cimitero?

— Io son morta, rispose, e tu nol sai
Vuoi nella tomba mia giacermi allato?
Molti anni or sono che viva ti amai,
Che mi serra l'avello inesorato...
Fredda è la fossa o giovane adorato!
Io son morta, rispose, e tu nol sai.




DIMMI LA VIA CHE L'ASTRO IN CIEL PERCORRE

Dimmi la via che l'astro in ciel percorre,
Dimmi il corso dell'onda,
Dimmi l'obliquo scorrere del rio,
Dimmi il vol dell'augello e della fronda,
- Dimmi le fila del destino mio.

Non lascia solco in onda
Nave ch'ha il mar varcato,
Traccia l'augel non lascia
Nel cielo interminato,
Non orma nel tuo cuore
Ha l'amor mio lasciato!






domenica 19 gennaio 2020

I momenti magici nella poesia italiana decadente e simbolista


Sotto la dicitura "momenti magici", ho qui riunito una serie di componimenti poetici risalenti all'ultima decade dell'Ottocento e al primo ventennio del Novecento, in cui emergono in modo preponderante atmosfere, situazioni ed eventi che posseggono dei requisiti ultraterreni; i poeti si trovano di fronte a spettacoli della natura o comunque a visioni di vario genere, dove è presente qualcosa che va al di fuori della comprensione umana; in alcuni casi, si fa riferimento al passato, anche quello più remoto, pur rimanendo nell'ambito di descrizioni di eventi al di fuori del normale. Questi poeti non danno una spiegazione ai fatti di cui parlano, ma si lasciano ipnotizzare ed estasiare da essi; dimostrando così la loro simpatia verso l'irrazionalità, la magia, il misticismo e l'esoterismo. Passando ad alcuni esempi, nei versi di Giovanni Camerana e Cosimo Giorgieri Contri è la stagione autunnale che, coi suoi infiniti fascini, fa nascere sensazioni inaudite, pensieri eterei e ricordi malinconici; alla stessa maniera, pur con caratteristiche differenti, può essere la stagione primaverile (Sul Pincio di Corrado Govoni; Attimi di Yosto Randaccio) o quella estiva (Meriggio Estivo di Virgilio La Scola; Vagando... di Aldo Fumagalli) a suscitare stupori e sensazioni trascendenti. Nelle poesie di Enrico Cavacchioli e Mario Venditti alcuni oggetti improvvisamente si animano, si muovono e compiono azioni impossibili, riconducibili ad un mondo favoloso o comunque alquanto fantasioso. Nei versi di Gabriele D'Annunzio, Gino Borzaghi e Angiolo Orvieto, protagonisti sono esseri umani misteriosi, maschili o femminili, non bene identificabili, che a volte posseggono poteri occulti, impensabili e divini. Nella poesia di Adolfo De Bosis si assiste al ribaltamento di una serie di situazioni sfavorevoli che fa pensare ad un intervento divino, o per lo meno a qualcosa di soprannaturale, in grado di intervenire quando tutto sembra ormai perduto. Ci sono poi altre poesie come Fuga di treno lontano di Guglielmo Felice Damiani e Riflesso di Diego Garoglio, dove la visione di un treno che passa o soltanto il ricordo di un viso fanno scaturire una serie d'immagini e di sentimenti vivi e forti, che per la loro imprevedibilità posseggono anch'essi un che di magico. Ed è la stessa magia de L'ora divina descritta in modo superlativo da Luisa Giaconi, pur nella consapevolezza che l'incantesimo duri poco e sia del tutto falso. Anche due persone, particolarmente legate tra loro, possono vivere dei "momenti magici" comuni - siano essi dovuti all'inconscia attrazione amorosa o alla malinconica percezione della separazione imminente: così accade nei versi di Domenico Gnoli, Vincenzo Fago e Amalia Guglielminetti. In altre contestualità, è una base musicale particolarmente fascinosa a creare un'atmosfera sognante che fa pensare ad un mondo "altro" (si leggano, a tal proposito, le poesie di Diego Angeli e Enrico Panzacchi); ciò può accadere pure ascoltando il canto di una sirena - e quindi di un essere fantasioso - capace di ammaliare chiunque lo percepisca (Rimpianto di Gustavo Botta) o quello melodioso degli uccelli (Già declinava il giorno di Tito Marrone).



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Mentre suonava un violino" e "Armonie di una notte d'agosto" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Peleo Bacci: "Sulla Tàzzera" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).
Gino Borzaghi: "Andante e recitativo" in "Sinfonie luminose" (1893).
Gustavo Botta: "Rimpianto" in "Alcuni scritti" (1952).
Giovanni Camerana: "Capovolti si specchiano" e "Note morenti" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Le scope" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Guglielmo Felice Damiani: "Fuga di treno lontano" in "Lira spezzata" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "L'esempio" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "La selva si sfronda..." in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1924).
Luigi Donati: "Poema Epico" e "Poema Lirico" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Vincenzo Fago: "Chiostro di S. Giovanni" in "Discordanze" (1905).
Aldo Fumagalli: "Vagando" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "Riflesso" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Ugo Ghiron: "Momento" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Luisa Giaconi: "L'ora divina" e "Parole della solitudine" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Settembre antico" in "Il convegno dei cipressi e altre poesie" (1922).
Cosimo Giorgieri Contri: "L'ultima gioia" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Domenico Gnoli: "Nel viale" in "Jacovella" (1905).
Corrado Govoni: "Sul Pincio" in "Le Fiale" (1903).
Amalia Guglielminetti: "Vortice" in "Le Seduzioni" (1909).
Virgilio La Scola: "Meriggio Estivo" in "La placida fonte" (1907).
Tito Marrone: "Già declinava il giorno" in "Le rime del commoato" (1901).
Arturo Onofri: "Leziosaggine" in "Poesie edite e inedite (1900-1914)" (1982).
Angiolo Orvieto: "L'abisso" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Nino Oxilia: "Nella foresta dove l'ombra appare" in "Canti brevi" (1909).
Nino Oxilia: "Io porto in me un'oasi di luce" in "Gli orti" (1918).
Enrico Panzacchi: "O prediletta!..." in "Poesie" (1908).
Giuseppe Piazza: "L'aurora" in "Le eumenidi" (1903).
Yosto Randaccio: "Attimi" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Antonio Rubino: "Aurora vedica" in "Versi e disegni" (1911).
Sebastiano Satta: "Meriggio" in "Canti barbaricini" (1910).
Diego Valeri: "Lenta pel cielo passa..." in "Umana" (1916).
Diego Valeri: "Risveglio" in "Crisalide" (1919).
Mario Venditti, "Gli infermieri dell'anima in esilio" in "Il cuore al trapezio" (1921).
Remigio Zena: "Rondò" in "Tutte le poesie" (1974).



Testi

L'ORA DIVINA
di Luisa Giaconi

Un'ora, fra le torbide e dolenti,
e quelle che l'amaro tedio annera,
e quelle che ti son gioghi possenti,

un'ora splende; ed è profonda e vera
tanto, che allora quando ella si schiude,
vivi tu, solo; - e tutto il resto è nera,

è sconfinata vanità che illude.

L'ora muta in cui tu lento cammini
lungo le solitudini pensose
de' sogni; e vedi lampeggiar destini

nuovi da lunge, e senti imperiose
gioie chiamarti; e senti che la vita
tu tieni e avvinci e da le luminose

labbra suggi la sua forza infinita...

Quest'ora è eterna. Lunghe, ebre, tenaci
(non forse il tuo fremito eterno, Amore?)
ti cerchian spire tepide di baci;

e, come canto in vastità sonore,
la giovinezza tua palpita e sale
a fiotti a fiotti dal tuo chiuso cuore,

con un ritmo che a te sembra immortale.

Bevi quest'ora. E non sii tu per nulla
credulo che al di là palpiti e viva
cosa alcuna; ma l'ombra, arida e nulla.

Che tu, quando su te scenda tal viva
Grazia, sei il mago eterno che profondi
l'ombra e la fiamma e al cui cenno s'avviva

tutta l'immensa voluttà dei mondi.

(da "Tebaide")




ATTIMI
di Yosto Randaccio

Che senso di cose lontane
nel cielo, stamane!

Il cielo è perlato;
il Tevere immoto,
senza ànsito di correntìa!
Che ascolto?
Non ò più coscienza
de l'anima mia: sono astratto.
Nel mondo non s'ode più nulla.
Silenzio profondo infinito:
ogni senso vivente è sopito:
è stupefatto.

È questo l'aprile ch'io sogno!
Lo presentivo nel male.
Questa infinita tristezza
che trema per ogni mia vena,
questa corrente d'oblio
che scende da vette lontane,
quest'ombre di fascinamento
che vengono forse da lei,
quest'ora fatale,
la vidi nel cuore!

Un'urna ne l'abbandono,
un rivo che scende senza suono,
un mare senza maretta,
una bocca senza parola,
possono esprimere, forse,
questa stupefazione,
questo solenne sopore,
quest'infinito ristagno, questo morire
d'ogni senso di vita
nel cuore del mondo!

(da "Poemetti della convalescenza")


Odilon Redon, "Evocation"
(da questa pagina Web)