domenica 26 gennaio 2020

Riproposta e rivalutazione dell'opera poetica di Iginio Ugo Tarchetti


Un coro quasi unanime di critici letterari parla, a proposito dell'opera letteraria di Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969), della netta superiorità del prosatore rispetto al poeta. Certamente non posso affermare che siano in errore, ma posso però dire che i versi dello scrittore piemontese (naturalizzato lombardo) sono stati sbrigativamente fatti rientrare a pieno nell'ambito della corrente letteraria che fu definita Scapigliatura, escludendoli da qualsiasi altro contesto e classificandoli come esempio di "poesia minore dell'Ottocento". Certamente Tarchetti non scrisse molte poesie, e nemmeno pubblicò, durante la sua breve vita, alcun volume di versi; l'unico che esiste, venne alla luce col titolo Disjecta, ben dieci anni dopo la sua morte, preceduto da un commento di Domenico Milelli - anche lui autore di versi - che, forse, fu tra i primi ad usare parole di elogio per il poeta, già allora ingiustamente dimenticato. Personalmente ho sempre amato le poche poesie di Tarchetti, e lo considero tra i migliori - almeno in Italia - del secondo Ottocento. Mi sorpresi alquanto leggendo la famosa stroncatura che fece, a proposito del volume citato, un celebre poeta italiano: Giosuè Carducci; ecco cosa affermò:

[...] A proposito dei versi del Tarchetti, il buon Domenico Milelli, che ne fa di incomparabilmente migliori, uscì una volta a dire che all'anima di lui erano fuse due grandi anime, quella del Heine e quella del Leopardi. Non mai fu nominato invano il nome di Dio: ma tali bestemmie sono conseguenze di quel sentimentalismo estetico che al Lamartine faceva trovare più genio in una lacrima che in tutti i poemi del mondo. Il Tarchetti visse povero, e morì giovane. Me ne duole; e mi adiro con chi non gli diè lavoro o il lavoro non compensò; forse anche mi adiro con la società che lascia morire di fame uomini d'ingegno e d'animo quale il Tarchetti. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia? No: io dico che l'ammirazione pe 'l sonetto «Ell'era così gracile e piccina» è una miserabile prova di rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava «scrofola romantica» aveva condotto la gente.¹

Leggendo i giudizi di vari critici e antologisti italiani, quello di  Neuro Bonifazi, nell'introduzione all'antologia Poeti della Scapigliatura, mi è sembrato il più opportuno, e per questo motivo ne riporto dei frammenti:

[...] Abbiamo già detto che la poesia del Tarchetti (che forse a torto è sempre stata trascurata nei confronti della sua narrativa) è una poesia d'amore. Un'aria stilnovistica, di un dolce-amaro stil nuovo, un'atmosfera di intimità emblematica, di figurazioni e di incubi dolorosi e malati, di questi pochi versi di Disjecta, un canzoniere di stilnovismo rovesciato, maledetto. Il sogno si è rivelato definitivamente «orrenda visione». La donna è ambigua: cioè non è quello che sembra, viva, bella, giovane: si dichiara morta, si vede «scheletro», e si rivela «vecchia rugosa e sdentata»; eppure è «fragile e piccina», un «fior sì frale e delicato», è «la poveretta», è la «cara fanciulla». Nel gusto della Scapigliatura, lo abbiamo già visto, c'è questa violenza contro la bellezza apparente, ma qui c'è anche la pietà e l'amore.
[...] In Tarchetti la natura non parla, è «inaridita», e tace. «Tace la valle e tacciono gli steli» («Spunta il mattino»): dopo i fiori dell'adolescenza spezzati dalla delusione, dopo i «poveri fior recisi», si schiude ancora una viola, ma è «la viola bruna, il fior del sepolcreto», e il poeta vorrebbe essere solo un relitto della natura morta (petalo di rosa, fiore d'elianto, foglia di un cipresso), per poter «fuggire e gli uomini e me stesso, - Nuova terra cercando e nuovo mare» («Vorrei essere... ecc.»). Natura chiusa; quando non è già uno spunto di riflessione e di simbologia: ellera = virtù d'eterno amore; l'acqua che va = la felicità cosciente. A sostituire queste apparenze che non suggeriscono se non propositi di fuga e di liquidazione è appunto la donna, investita da un trasporto di sublimazione attraverso la morte e tutti i suoi aspetti, un trasporto d'amore. L'amore scapigliato del Tarchetti è amore-pietà, amore-orrore, amore-sogno ultraterreno. La fanciulla è trapassata dalla terra a un cielo fantomatico, o a un «sotto terra», a mostrare il miracolo di una esistenza di spiriti, a cui avvia il terrore mescolato di desiderio, in mezzo alle false «parvenze del vero». Per questo, tutto è al di là della terra, del tempo, del passare per le strade: un continuo «dì dei morti», un'eterna «mezzanotte» funebre, un accompagnamento di «demoni», un passare attraverso una «landa inospite»: «Io vado e ignoro il termine - Del mio cammin qual sia: - Vado solingo e lacrimo - Per la deserta via» («Amore ho in petto...»).
La lirica del Tarchetti, dunque (e qui non è il caso di collegarla ai suoi racconti in prosa), attinge uno sconsolato sentimento, un sentimento complicato, che ha trasformato le radici leopardiane della delusione e della rimembranza, e che interroga inutilmente e paurosamente l'essenza della morte, ricevendone una risposta di sola immaginazione, di soli fantasmi, di cadaveri muti. Ferma su di una innaturale pietà, riempie i versi di disperazione e di emblemi, di interrogazioni e di inutili violenze. Non esce tuttavia da un tono generico di tradizione romantica, anche se non ha timore di usare spesso un linguaggio di rottura sugli oggetti («lenzuol roso», «stinchi imbianchiti», «sozzi amplessi», «larva d'angelo», «zuccherini e carezze», «fetidi baci», ecc.). Si apre tuttavia con le poesie di Disjecta (composte tra il 1867 e il 1875) una visione caratteristica e nuova (e non ci ingannino certo linguaggio o cadenze della tradizione), un senso insano e morboso dell'amore e della donna, ma soprattutto della realtà. Sui suoi strani fiori d'oltretomba passano ombre sottili e di orfica rivelazione, e i suoi cadaveri feroci e deformanti creano atmosfere espressionistiche nuove e palesi. ²

La recente uscita di una nuova edizione di Disjecta, grazie all'editore Carabba³, oggi consente di rivalutare l'opera poetica di Tarchetti che, per quanto esigua, possiede delle qualità non indifferenti, e in parte anticipa futuri e importanti sviluppi della poesia italiana, compresa quella dei primi anni del XX secolo. Allo stesso modo dei versi, andrebbero rivalutate le prose poetiche dei Canti del cuore, che furono pubblicate insieme alle poesie nel 1879, ma che non sono presenti nella nuova edizione. Chiudo riportando tre poesie di Iginio Ugo Tarchetti presenti nella nuova edizione di Disjecta.


NOTE
1) Da Secondo Ottocento, Zanichelli, Bologna 1969, p. 833.
2) Da Poeti della Scapigliatura, Argalìa, Urbino 1962, pp. 21-23.
3) Sto parlando di Disjecta. Frammenti lirici, edizione critica, introduzione e commento a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017 (il piatto anteriore de libro si vede nella foto qui sotto). All'interno di questo libro è possibile leggere ulteriori sette poesie dello scrittore lombardo, rintracciate da poco tempo in riviste d'epoca.





SCENDON LE TENEBRE

Scendon le tenebre;
Soletti e muti
Miriam, sul margine
Del rio seduti
L’onda trascorrere
Che argin non ha:
- Guarda, essa dice,
Come è felice
L’acqua... lei va!

Poi tace e lacrima
La poveretta.
- Quale, io la interrogo,
Quale, o diletta,
Di noi l’incognito
Fato sarà? -
Piange essa, e dice:
- Come è felice
L’acqua... lei va!




M'AVEA DATO CONVEGNO AL CIMITERO

M'avea dato convegno al cimitero
A mezzanotte — ed io ci sono andato:
Urlava il vento ed il tempo era nero
Biancheggiavan le croci del sagrato;
E alla smorta fanciulla ho dimandato:
— Perchè darmi convegno al cimitero?

— Io son morta, rispose, e tu nol sai
Vuoi nella tomba mia giacermi allato?
Molti anni or sono che viva ti amai,
Che mi serra l'avello inesorato...
Fredda è la fossa o giovane adorato!
Io son morta, rispose, e tu nol sai.




DIMMI LA VIA CHE L'ASTRO IN CIEL PERCORRE

Dimmi la via che l'astro in ciel percorre,
Dimmi il corso dell'onda,
Dimmi l'obliquo scorrere del rio,
Dimmi il vol dell'augello e della fronda,
- Dimmi le fila del destino mio.

Non lascia solco in onda
Nave ch'ha il mar varcato,
Traccia l'augel non lascia
Nel cielo interminato,
Non orma nel tuo cuore
Ha l'amor mio lasciato!






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