domenica 25 novembre 2018

10 poesie italiane degli anni '70 del XX secolo


Adoro gli anni '70 del XX secolo, e probabilmente mi appaiono come in realtà non erano, ovvero come un decennio eccezionale e irripetibile; il motivo principale sta nel fatto che in quei precisi anni io attraversi la fase più bella della vita umana: l'infanzia (e la mia fu particolarmente felice). Ma, volendoli guardare in modo più distaccato - pur se la cosa non mi riesce molto facile -, devo ammettere che hanno rappresentato un periodo complicato della nostra storia, a causa del terrorismo dilagante, della guerra fredda, di continui e violenti scontri sociali e altro ancora; però, si può anche dire che in questo decennio esistesse ancora la voglia e la forza di cambiare il mondo, di migliorare le condizioni di vita dei più svantaggiati: nella maggioranza della popolazione, c'era la speranza di vedere, in un futuro non lontano, una nuova e migliore società. Purtroppo, a cominciare dagli anni '80, questi entusiasmi si andarono spegnendo, fino a scomparire del tutto.
Poeticamente parlando, mi pare che, durante gli anni '70 (e qui mi riferisco in particolar modo alle giovani generazioni di allora, troppo impegnate a sperimentare strade incomprensibili e impercorribili), non furono creati versi eccezionali; per questo ho preferito inserire poesie che furono pubblicate, per lo più, da poeti che già avevano varcato la soglia della vecchiaia (e alcuni di loro vennero a mancare proprio in quegli anni), ma continuavano comunque a scrivere versi stupendi. Si comincia dal 1970 (per ogni anno vi è un'opera poetica da cui ho estratto dei versi), con una composizione che parla della Strage di Piazza Fontana: tragico evento che, accaduto nel novembre del 1969, praticamente inaugurò la stagione del terrorismo. Si prosegue con poesie che trattano svariati argomenti tra cui il sesso, la storia, il tempo che passa e la morte. Chiude la selezione una poesia del compianto poeta Bartolo Cattafi: venuto a mancare precocemente, proprio nell'ultimo anno del decennio preso in considerazione.





DOMENICA DOPO
di Alberico Sala (1923-1991)

Domenica dopo la strage, la nebbia mi frena
sulle strade campestri, mi rifiuta la città
spenta per i poveri morti dai nomi lombardi
nel cratere di polvere e cristalli. Contadini
come quelli che i fari frugano nel nulla:
vanno con il mantello nero dalle cascine
al paese per la partita, fanno meno rumore
i passi sull'erba di brina che sui detriti
dello scoppio.
                     Sul ponte di Lodi uno era passato,
come me, con i conti in ordine, l'odore del fieno
nelle tasche. Trenta chilometri, un'ora
a passo d'uomo tra i fossi di latte,
con la spina in fronte delle ingiustizie,
di quel che non si fa o si fa male,
chiamando poi i morti a sdebitarci.

15 novembre 1969, tornando a Milano in automobile dopo la strage di Piazza Fontana

(da "Il giusto verso", Rusconi, Milano 1970)




PORTAMI CON TE
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Portami con te nel mattino vivace
le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato
al tuo fianco di donna che cammina
come fa l’amore,

sono gli ultimi giorni dell’inverno
a bagnarci le mani e i camini
fumano più del necessario in una
stagione così tiepida,

ma lascia che vadano in malora
economia e sobrietà,
si consumino le scorte
della città e della nazione

se il cielo offuscandosi, e poi
schiarendo per un sole più forte,
ci saremo trovati
là dove vita e morte hanno una sosta,

sfavilla il mezzogiorno, lamiera
che è azzurra ormai
senza residui e sopra
calmi uccelli camminano non volano.

(da "Viaggio d’inverno," Garzanti, Milano 1971)




LA MORALE SESSUALE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Non si arriva a comprendere
come mai
un popolo di antica civiltà,
e bizantino per antonomasia
si fosse potuto dare
quale base di costume
la morale sessuale,
la più balorda di tutte le teorie.
Fenomeno giustificabile soltanto
in un popolo cieco,
che non sa quello che deve fare
assoluto e irrazionale
tirannico e crudele
ignorante e primordiale
contro natura direttamente.
Ma non fu un cattivo vento
spirato da un balordo paese
e per non aver saputo chiudere
la porta in tempo
penetrato furtivamente?

(da "Via delle cento stelle", Mondadori, Milano 1972)




NON FOSSE ALTRO SON BELLI
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Non fosse altro son belli
i ragazzi che fanno campagna
ai gradini di Piazza di Spagna.
Belli per nostalgia
belli senza riguardo
millenni dentro lo sguardo
per qualche giorno di scena.
Adamo seduto sull'erba
spacca la mela acerba,
si dice solo che campa
salendo e scendendo la rampa
di Piazza di Spagna.
Alla barcaccia si bagna
le mani rosse e vi beve
il riso delle gengive.
Se dice campa non vive,
aspetta la neve.

(da "Poesie d'amore", Mondadori, Milano 1973)




ULTIMA BRINA
di Raffaele Carrieri (1905-1984)
                                                    a Marilù
Quando l'ultima brina
Diventava neve
In piazza Beccaria
Tornava donna Maria
Con la bisaccia greve
Dei terroni di Milano.
Alla vigilia di natale
Tornava a zampettare,
A zampettare:
Provole affumicate
Capitone di Barletta
Salami col diavolo
Cicoria del Gargano
Anicini di Molfetta.

Quando l'ultima brina
Diventa neve
Al Verziere
Non torna donna Maria.

(da "Le ombre dispettose", Mondadori, Milano 1974)




GIRO DEL SOLE NELLE NOSTRE STANZE
di Diego Valeri (1887-1976)

 Giro del sole nelle nostre stanze,
da finestra a finestra, da mattino
a sera. Quanti giorni, quante
stagioni, e poi anni...
Le nostre figlie bambine, poi donne.
Tu sempre più stanca e lontana,
poi finita, una mattina all'alba.
Io qui ancora, a guardare stupito
il tempo che gira
col vecchio sole da finestra a finestra.

(da "Calle del vento", Mondadori, Milano 1975)




ANCHE IL FILO ROSSO
di Adriano Guerrini (1923-1986)

No, amici. Non ho più vent'anni,
allora studiavo metafisica,
in cento pagine volevo risolti
tutti i segreti della vita.
No. Ora so che una cosa sola
non basta a spiegare tutte le cose.
Anche il filo rosso è uno solo
tra i tanti che formano la trama
del mondo; e forse la trama
è assente. Invece, in tutti i libri
leggete sempre lo stesso libro,
falsi sapienti, voi, della razza
di chi bruciò la Biblioteca.
Eppure qualcuno lo aveva detto
che da ogni finestra sempre si vede
l'infinito, e che un bel naso
di donna talvolta ha segnato
le sorti d'un regno, e una pioggia
bastò ad impantanare il cavallo
del grande Spirito del Mondo:
come sempre è accaduto e accadrà.

(da "Poesie politiche", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1976)




SULLA NUVOLA DEGLI ANNI
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

  Restano sulla nuvola degli anni
amati volti sopra il tempo illesi,
restano sopra la tempesta accesi
sull'albero maestro i fuochi santi.

  Fra vita e morte io già li vidi infante
vegliare sulla mia febbre sospesi
con ansie luci: e del fanciullo antico
pare che ancora fremano gli affanni,

  come in turbato sonno una ferita
duole ormai chiusa e i suoi rami recisi
gemere sente l'albero nel vento.

  Così dei mali nostri, anche divisi
da tanta nube, durano al tormento
e a patire con noi restano in vita.

(da "I fantasmi di pietra", Mondadori, Milano 1977)




I TUOI SEGNI
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Riguardo quando non ci sei
gli scartafacci toccati dalle tue dita,
i fogli con le impronte dei giorni
bui, delle ferite dolenti.
Guardo le carte miracolosamente
riavute (gli editori sono a caccia
di farfalle sul lungotevere),
draghi gioiosi, tronchi
capelluti, meteore fiammanti, e
mi esalto e mi dispero
perché è morta la tua mano.

(da "Dimenticatoio", Mondadori, Milano 1978)




L'ULTIMA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Scene che si montano da sole
si smontano rimontano
che si susseguono snodate
oleate scorrevoli poi traballano
rallentano
s'inceppano sulla guida
a scossoni riprendono
finché una non ti si ferma davanti
quella ti resta da rimirare
da ricamarci sopra.

(da "L'allodola ottobrina", Mondadori, Milano 1979)


domenica 18 novembre 2018

Poeti dimenticati: Renato Rinaldi


Nacque a Portole (Istria) nel 1889 e ivi morì prematuramente, di tisi, nel 1914. Frequentò il Ginnasio di Capodistria e si diplomò; poi interruppe gli studi per dedicarsi al giornalismo. Fu redattore de Il Giornaletto e del Piccolo di Trieste; diresse anche il giornale La Fiamma. Scrisse versi che ricordano molto quelli di Giovanni Pascoli (in special modo delle Myricae), ma sicuramente vi si possono trovare elementi non distanti da altri poeti intimisti della seconda metà dell'Ottocento e dai crepuscolari.



 Opere poetiche

"Piccole voci", Officine Industrie Grafiche A. Perpich & C., Trieste 1908.
"Canti", F.lli Nicolini Editori, Pola 1910.
"Vecchie arie", Tipografia Moderna S. Volpi, Pola 1912.



 Presenze in antologie

"Poeti italiani d'oltre i confini", a cura di Giuseppe Picciòla, Sansoni, Firenze 1914, (pp. 329-333).



Testi

BONACCIA

Il mare stendesi tranquillo e piano
senza una ruga, senza un movimento:
stan de le vele pallide lontano
ad aspettare un alito di vento.

E sono l'acque d'un effetto strano
così tacenti e senza ondeggiamento,
pare che fece tutto un'alma mano
tranquillo come per incantamento.

Or dormono i nocchier per forza ignavi,
sognando bionde teste e trecce care,
sognando lunghi viaggi e porti e navi:

solo scruta qualcun le soglie chiare;
ma nubi non vi son di vento gravi,
e terso come specchio stagna il mare...

(da "Piccole voci")




CHIESA SOLITARIA

Più che d'incenso, sa di salvie e mente
la chiesetta. Scurisce già. Lontana
canta una squilla a onde lente lente.

Qui già dorme la piccola campana,
entra fra le finestre a pena un raggio
e illumina l'altar di luce strana.

C'è tra quei santi ruvidi, di faggio,
un sogno eterno, intenso, or come un dì:
come una calma pia di romitaggio,
come un pregar che mai nessuno udì.

(da "Canti")




LA CITTÀ FIAMMINGA

Una città fiamminga
molto vecchia ed oscura,
come una sepoltura
equorea solinga;

con molt'acqua, molt'ombra,
molta decrepitezza,
d'una vecchia tristezza
immobile ingombra;

e molto musco a' canti
de' canali sepolti,
pochi bisbigli, molti
grandi organi urlanti...

Cara città di Fiandra
tutta calma e languore,
popolarti d'amore,
mia città di Fiandra.

D'amor che a te, corrosa
e morta troppo, manca;
e serbarti la stanca
veste maliosa.

Cara città di Fiandra
bella, cui sempre agogno,
popolarti d'un sogno,
mio, città di Fiandra.

Ne le tue case ombrose,
molte donne olivastre,
come l'acque verdastre
tue silenziose;

con ne gli occhi abbarbagli,
molto lo sguardo crudo,
le coscie strette a nudo
d'aurei fermagli

e lunghe sopracciglie
da mano abile tocche,
brevi parole, bocche
fresche assai vermiglie...

(da "Vecchie arie")


domenica 11 novembre 2018

"Il convegno dei cipressi" di Cosimo Giorgieri Contri


È un'opera poetica che mi sta particolarmente a cuore, e che ho cercato fin dai primi tempi in cui m'interessai di poesia italiana. Dell'autore, ovvero di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943), sapevo qualche informazione perché lo trovavo spesso citato in saggi riguardanti la poesia crepuscolare, soprattutto quando si nominavano i precursori di questa tendenza poetica; consultando le enciclopedie ed i dizionari, notai che il suo nome, quando era presente, era sempre seguito da poche righe con scarse e fugaci notizie; tra queste, difficilmente non veniva menzionata la sua opera poetica più importante. Faticai non poco a trovare i suoi versi riportati in antologie vecchie e nuove; la prima che reperii fu Dal simbolismo al déco (Einaudi, Torino 1981). Due delle tre poesie riportate in tale opera mi piacquero molto; venni quindi a conoscenza dei titoli (tutti affascinanti) delle altre raccolte poetiche di Giorgieri Contri. Infine, riuscii a consultare un libro che conteneva Il convegno dei cipressi ed altre poesie dello scrittore toscano, anche se in edizione leggermente modificata rispetto all'originale. Soltanto qualche anno fa ho avuto l'opportunità di leggere, finalmente, la prima edizione pubblicata a Milano, dall'editore Galli di C. Chiesa e F. Guindani nel 1894. Tale volume si compone di 189 pagine; le 89 poesie qui presenti, a parte il poemetto che dà il titolo al libro e lo apre, sono suddivise in tre sezioni: I. IL LIBRO DEGLI ANTICHI AUTUNNI; II. INTERMEZZO; III. IL LIBRO DEGLI ANTICHI AMORI. Le forme metriche preferite dal Giorgieri Contri sono la quartina e il sonetto; gli argomenti trattati nei versi sono abbastanza esplicitati dai titoli delle sezioni: immagini autunnali che trasmettono nostalgia del passato e malinconia; ricordi di amori con donne particolarmente sofisticate, tratteggiati con palpabile rimpianto; descrizioni di ville, edifici religiosi e luoghi cittadini circoscrivibili nel Piemonte e nella Toscana (le regioni in cui Giorgieri Contri visse di più ed amò), visitati in un passato più o meno recente, spesso in compagnia di donne. Più di un critico, parlando della poesia del Giorgieri Contri, ha fatto chiaro riferimento all'elegia; Giuseppe Antonio Borgese la definisce sospirosa e delicata; secondo Glauco Viazzi è amorosa, altolocata e raffinata. Tutti concordano poi sul fatto che il poeta insista sulle immagini autunnali, simbolicamente pertinenti ad un'idea di perdita, di caduta e di sconfitta. Impossibile non riconoscere dei debiti che ha la poesia del Giorgieri Contri, in particolare nei confronti di certo D'Annunzio e di Maurice Maeterlinck. Le opere poetiche posteriori al Convegno dei cipressi non mostrano particolari svolte, confermando che Giorgieri Contri predilesse sempre una lirica intimista, romantica, malinconica e, in parte, simbolista. Questo però rimarrà il suo migliore libro di versi, che andrebbe ricordato e valutato maggiormente. Ecco due poesie presenti nell'edizione originale; Il carillon è tratta dalla prima sezione, e fa capire che un grandissimo poeta come Guido Gozzano tenne ben presente i versi del nostro; Vecchio giardino, invece, fa parte della terza sezione, e per certi aspetti ricorda la celebre lirica di Lorenzo de' Medici Canzona di Bacco, contaminata però da elementi cari al decadentismo più sensuale (e più dannunziano); con un finale che, invece, si avvicina in modo netto al Giovanni Pascoli delle Myricae.

Cosimo Giorgieri Contri


IL CARILLON

Vi ricordate il vespro settembrino?
Con la sua grazia languida e sfinita
il carillon suonò nel salottino
un duettino della Favorita.

La padrona di casa, una signora
vecchia e triste, oramai senza conforti,
— due suoi bimbi, altri tempi, eranle morti
ed ella ancora li piangeva, ancora —

credea di avere in quel ninnolo stinto
di un vecchio legno, a forma ovoidale,
un portento dell'arte musicale
che niun'altra scoperta avesse vinto.

Lentamente finì la Favorita
e i Puritani vennero di poi:
noi non li udimmo, non li udimmo noi,
ch'io vi stringevo il sommo della vita:

ma, dopo i Puritani il Trovatore
languido risuonò nel salottino:
moriva intanto il vespro settembrino
e una gran pace ci venìa di fuore.

Dodici pezzi suona. E in fretta e in fretta
che bella cosa, non è vero? — Oh certo —
Ma lo stromento rimaneva aperto
con una grazia un po' vergognosetta:

e dopo, quando fu rimesso a posto
tra due piccole statue di gesso,
si tenne, o parve a me, molto nascosto,
quasi che avesse indovinato anch'esso

che davanti a un amor giovine e forte
sì come il nostro si sentiva allora,
tristi eran troppo, non è ver signora?
le sue canzoni che sapean di morte.

Ma dopo, dopo, quando io vi lasciai
da voi tradito, mi rivenne in mente
l'autunnale vespero silente
e il povero strumento io ricordai;

e il salottino un po' vergognosetto
nella eleganza di un tempo passato,
e la vecchia signora in lutto stretto,
sul canapè di pallido broccato.

E voi, voi pure, mi tornaste in cuore,
mescentivi alle mie, piccole dita:
e udii piangere ancora il Trovatore
e il duettino della Favorita.

(da "Il convegno dei cipressi", pp. 30-31)




IL VECCHIO GIARDINO
               (Borgofranco settembre 91.)

Questo vecchio giardino
vorrei pei nostri amori;
v'intreccia i bianchi fiori
timido un gelsomino,

e alle notti d'aprile
certo vi è dolce assai,
assai dolce e sottile
l'olezzo dei rosai.

Pei defunti sentieri
noi si andrebbe allacciati:
quante volte ho baciati
i tuoi capelli neri?

Quante volte ha cantato
l'usignolo tra i rami?
giungon lenti i richiami
dal rivo abbandonato.

Poi su una vecchia panca
sederemmo: o dolcezza
come la luna bianca
le tue palme carezza.

Un raggio esile e fine
ti si indugia sul seno;
oh! ch'ei non vegga almeno
più sotto delle trine.

Poi la notte d'aprile
cresce tacitamente,
le stelle sonnolente
seguono la gentile:

L'usignolo ha cantato
nel silenzio: lontano
gli ha risposto più piano
il rivo abbandonato.

Da un vecchio campanile
il Tempo ha detto: Amate;
quando saran passate
queste notti d'aprile

chissà che voi non siate
a dormir sotto il suolo...
e il rivo e l'usignolo
hanno risposto : Amate.

O Dolcezza, la vita
umana è così corta,
questa notte fiorita
tra un' ora sarà morta;

noi tra breve, felici
se dormenti vicino,
cresceremo radici
al faggio o al gelsomino...

Ora dammi i tuoi baci,
stringiti a me, più forte:
queste strette tenaci
scoraggiano la morte,

o, s'ella viene, almeno
sarà dolce il viaggio:
ha voluto anche il raggio
morir sopra il tuo seno.

Oh! il tuo seno; ch'io sugga
del tuo seno l'aroma,
ch'io baci la tua chioma
pria che la notte fugga;

ch'io chiuda i tuoi bei cigli
con le labbra tremanti;
pria che l' alba si ammanti
de' suoi pepli vermigli.

Oh! senti, senti. L'ora
ha battuto i richiami:
baciami oh tu che m' ami
baciami in bocca ancora.

Io non so se son vivo
ma so che non son solo:
s'è addormentato il rivo
e tacque l'usignolo.

Presto dalle colline
grave, lenta, lontana
ridirà la campana:
È la fine, è la fine.

(da "Il convegno dei cipressi", pp. 129-131)