sabato 22 febbraio 2025

Cane randagio

 

Chinar la testa che vale?

e che val nova fermezza?

Io sento in me la tristezza

del giorno domenicale,

 

lentamente camminando

per la città sconosciuta

dove nessuno mi saluta

fuor che un cane a quando a quando.

 

nessuno pensa ch'io posso

essere il triste mendico

che chiede, invece che un tozzo

di pane, un palpito amico;

 

nessuno sa ch'io mi lagno

e vago senza perché,

nessuno fuorché

tu, mio raccolto compagno.

 

Tu che hai sul ciglio due buone

lacrime ancor da seccare,

tu che pur cerchi un padrone

come io cerco un focolare;

 

tu che mi segui sperando

ch'io possa darti l'avanzo

d'un malinconico pranzo

o una carezza o un comando;

 

tu che hai l'aspetto burlone

d'un tale che mi ammonì

e fosti tu il mite Leone

o fosti il molle Joli;

 

tu che avesti per amico

l'organo di Barberia

che dona al cuore mendico

un soldo di nostalgia;

 

tu che dimeni la coda

alle mie lorde calcagna

quasi ch'io fossi una cagna,

una cagnetta alla moda;

 

tu che cerchi d'annusare

le mie scarpe tratto tratto

perché vuoi lor dimandare

quanti chilometri han fatto.

 




COMMENTO

Ecco una "classica" poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979), ovvero del poeta crepuscolare per antonomasia. Comparve per la prima volta, col titolo La domenica dei cani randagi, nel volume di versi più famoso del poeta romagnolo: Poesie scritte col lapis (1910); qui si trovava all'interno della sezione Le domeniche, che conteneva una serie di poesie "domenicali", dove Moretti metteva in primo piano tutta una serie di atmosfere, pensieri, personaggi e situazioni che caratterizzavano la noiosa vita di provincia all'inizio del XX secolo. Col titolo e con il testo che ho riportato, la medesima poesia si trova in un altro volume intitolato Poesie scritte col lapis, pubblicato da Mondadori nel 1970; qui Cane randagio rientra nella sezione che porta lo stesso titolo del libro, il quale raccoglie i versi più significativi, rielaborati e modificati dall'autore, della prima parte dell'opera poetica di Moretti.

Per quanto riguarda il contenuto, si parla di una domenica trascorsa dal poeta annoiato e triste, vagabondando per la sua cittadina, in cerca di qualcosa e di qualcuno che non riesce a trovare; l'unico essere vivente che lo avvicina è un cane randagio, col quale l'uomo si ritrova a dialogare (un dialogo fatto di sguardi e, forse, di carezze); così, la solitudine del poeta si rispecchia con quella dello sventurato animale, e si crea una sorta di simbiosi tra i due, divenuti compagni di strada in quel giorno festivo. Difficile interpretare alcuni versi che parlano di un "mite leone", che potrebbe essere quello famigerato comparso a San Marco secondo una leggenda; oppure il "molle Joli" del verso successivo (joli, in francese significa carino, ma non mi risulta alcun personaggio storico o letterario con questo nome). In un altro verso si cita, infine, un oggetto che potremmo definire emblematico o simbolico dell'intero movimento crepuscolare: l'organo di Barberia, ovvero l'organetto a manovella molto in voga nella seconda metà del XIX secolo, usato soprattutto dai suonatori ambulanti e reso celebre prima da alcuni poeti francesi (fra i quali Paul Verlaine), e poi dai nostri crepuscolari.

domenica 16 febbraio 2025

Riviste: "La Brigata"

 La Brigata è il titolo di una rivista letteraria che uscì a Bologna tra il giugno del 1916 e lo stesso mese del 1919. La sua nascita si deve a Bino Binazzi (1878-1930) e a Francesco Meriano (1896-1934): due scrittori che già si erano fatti notare con qualche opera in versi e con pubblicazioni su altre riviste prestigiose dello stesso periodo, come Lacerba e La Diana. La Brigata si distinse per delle posizioni ben precise, riguardo avanguardie letterarie altamente sperimentali come il Futurismo; gli intellettuali della rivista bolognese vollero, in tal senso, fare un passo indietro, avendo ancora come punto di riferimento principale i grandi poeti italiani della tradizione più recente: Carducci, Pascoli e D'Annunzio; tuttavia non abbandonarono del tutto uno sperimentalismo che si limitò all'adozione del verso libero e del frammento in prosa o in versi, caro all'ambiente dei "vociani". Ecco infine tre poesie che furono pubblicate nelle pagine de La Brigata. 


Prima pagina del numero 1 della rivista "La Brigata"
(da questa pagina web)



VELENO

di Francesco Meriano (1896-1934)


  O mia giornata sorta tra il fumo delle locomotive e gli urli vinosi dei soldati, fiore velenoso dal putrido terreno d'un cimitero abbandonato. Guanciali flosci di albergo dove tante teste si posarono e tanti tormentosi pensieri non ebbero pace. L'ireos volgarissimo dell'attrice nella stanza attigua è l'odore della prima donna che mi ebbe. Il tanfo dei ricordi mi assale. Momenti vissuti aggrovigliati, canapo scorsoio che mozza il respiro. Partiremo tra breve, mattino annoiato che lentissimamente si svolge, accanto al fiume sanioso che stagna in pallidi laghi la sua stanca mestizia. Ciuffi malvagi di verde, strade inutili e solitarie. La terra è malata. 

  Non c'è che questo treno che rotola, nel mondo, e un uomo che mi guarda stupito.

  Ma se nell'aria inerte freschissimo vola il pensiero di te, come un'onda di profumi deliranti, ecco, so ancor sopportare, nella contemplazione della tua pura bellezza, la mia vagabonda empietà.


(da «La Brigata», agosto/settembre 1916)





MATTINO

di Diego Valeri (1887-1976)


                                                                         a Elena Fambri

Batte il mattino al ferrigno bastione

dei nuvoloni notturni: repente

s'apre una lunga fessura lucente,

scoppia uno squarcio di fiamma più su.


Un razzo d'oro: e un sussulto, un tremore

d'oro per l'ombre: oro a rivoli, a onde...

Più in alto: spiaggie di nuvole bionde,

calme e profonde lagune di blu.


(in treno - Milano-Bologna - 1917).


(da «La Brigata», ottobre/novembre 1917)





MA SÌ, SEMPRE

di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960)


Sento che sorrido,

intenerita,

vi è grazia vi è quasi pudore

in questo che m'investe,

sola,

puerile tremore,

oh luce tra le rame fiorate,

sera che avvicini la primavera,

sento che sorrido,

intenerita,

così tersa così lieve e presente

la vita,

con un suo senso anch'essa di casto bene

ridente,

di un'ora che torna, torna, ma sì, sempre,

di un'ora sospesa…


(da «La Brigata», marzo/aprile 1918)

domenica 9 febbraio 2025

Le risa nella poesia italiana decadente e simbolista

 In questo post ho voluto riunire le poesie - non molte in verità - in cui i poeti italiani decadenti e simbolisti mettono al centro delle loro dissertazioni poetiche la risata, lo sghignazzo, ma anche il semplice sorriso o la malevola derisione. L'argomento, quindi, presenta diversi aspetti ed evidenzia nette contrapposizioni. Il riso ed il sorriso femminile, qui rappresentato dalle poesie di Orvieto, Mastri e Chiaves, vuole simboleggiare qualcosa di estremamente positivo: un invito alla vita, una dimostrazione di simpatia o d'amore. C'è poi il riso "forzato", ovvero quello che si fa per nascondere tutt'altro stato d'animo, e diventa, quindi, una maschera più o meno volontaria (ne fanno testo la seconda poesia di Mastri e quelle di Adobati e Tecchio). Quindi c'è il riso inconscio, della propria anima, che si manifesta anche quando quest'ultima ha vissuto situazioni sfavorevoli e deprimenti (si legga, a tal proposito, la poesia di Oxilia). La derisione è qui rappresentata dalla lirica di Govoni intitolata Ai vili: il poeta si rivolge a chi lo beffa, mostrando tutto il suo rancore, perché costoro sono inconsapevoli della sofferenza interiore provata da chi, ingiustamente, viene giudicato soltanto per degli aspetti superficiali. Infine non si può tralasciare, nei versi di Sinadinò, quel riso frenetico che fa da tramite all’assunzione al “furore della Festa”, leggibile in una delle prime pagine del volume poetico altamente rivoluzionario ed ermetico del poeta forse più rappresentativo del simbolismo nostrano.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Insegnamento del riso" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Giuseppe Casalinuovo: "Corro nelle campagne moribonde" in "Dall'ombra" (1907).

Francesco Cazzamini Mussi: "Ozio" in "Le amare voluttà" (1910).

Carlo Chiaves: "Invocazione" in "Sogno e ironia" (1910).

Guelfo Civinini: "Un riso nell'alba" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Sergio Corazzini: "Il dubbio" in «Marforio», gennaio 1903.

Corrado Govoni: "Ai vili" in "Le Fiale" (1903).

Corrado Govoni: "Il riso" e "Il tuo sorriso" in "Gli aborti" (1907).

Arturo Graf: "Il riso" in "Le Rime della Selva" (1906).

Pietro Mastri: "Sorriso" in "L'arcobaleno" (1900).

Pietro Mastri: "L'uomo che ride sempre" in "La fronda oscillante" (1923).

Angiolo Orvieto: "Il sorriso" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Perchè?" in "Gli orti" (1918).

Agostino John Sinadinò: "- Ora sono assunto al furore della Festa -" in "La Festa" (1900).

Giovanni Tecchio: "A un sognatore" in "Canti" (1931).

Giuseppe Villaroel: "Vibrazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 

 

Testi

 

 

IL DUBBIO

di Sergio Corazzini (1886-1907)

 

Ieri lo vidi: è bello, è bello ancora

come tanti anni or sono! m’ha guardato,

e ha sorriso di sprezzo, io l’ho chiamato...

 

Forse non mi sentì...forse dell’ora

tremenda ei già se n’è dimenticato

e mi schiva, mi odia, o egli ignora

che v’è un’anima al mondo che l’adora

 

e che lo sogna come un dí lo ha amato!

Ma no, ma no non esser tanto umile

anima mia che mendichi un amico,

 

che atroce sprezzo ti gettò sul viso!

Va', sorridi anche tu, anima vile

di sprezzo verso lui! Sorrido e dico:

almen come il suo riso è il mio sorriso!

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1992, p. 232)

 

 

 

 

ORA, SONO ASSUNTO AL FURORE DELLA FESTA

di Agostino John Sinadinò (1876-1956)

 

- Ora, sono assunto al furore della Festa -

 

      Per questo riso, per questo riso frene-

tico che m'assale e che mi scuote come

un turbine l'albero sacro, perché doni

alla terra i suoi frutti,

                         sono assunto al furore della Festa.

 

 

- Una torrida luce m'invade -

 

      Chi mi ascolta, di tra la febbre e i clamori,

chi mi ascolta, - me, centrale -, nel raggio

di questo mondo maraviglioso mio, di

questo universo ammansato soggetto obbediente?

Ma chi m'ascolta, in terra?

 

      - Susciterò una orchestra di bronzi

limpida e d'ori;

                clamerà verticale alle stelle:

     

      Sono assunto al furore della FESTA.

 

Ma chi m'ascolta in terra?

 

    Ora sono assunto al furore della Festa.

 

 

                         (...profferisce l'Orchestra)

 

(da "Solennità: La Festa", Tessin-Touriste, Lugano 1901, p. 11)

 


Pierre-Auguste Renoir, "Lady Smiling, Portrait of Alphonsine Fournaise"




domenica 2 febbraio 2025

Antologie: "Quarta generazione"

 Quarta generazione è il titolo di un'antologia poetica realizzata dal Piero Chiara (1913-1986) e Luciano Erba (1922-2010), e pubblicata dall'editore Magenta di Varese nel 1954. Più precisamente, si tratta di un'antologia settoriale, che vuole prendere in considerazione - come precisa il sottotitolo - la giovane poesia italiana che si sviluppò nel decennio successivo alla fine della 2° Guerra Mondiale. Questa è una delle tante opere antologiche del primo decennio del secondo Novecento, dedicate alle nuove generazioni di poeti italiani; tra le altre si ricordano Poeti nuovi (1950 e 1958) a cura di Ugo Fasolo, Linea lombarda (1952) a cura di Luciano Anceschi e La giovane poesia (1956 e 1957) a cura di Enrico Falqui. Prendendo spunto da un saggio di Lucio Vetri, che è l'appendice della ristampa di un famosissimo volume di Luciano Anceschi: Le poetiche del Novecento in Italia (Marsilio, Venezia 1990), risulta evidente che la poesia italiana del secondo dopoguerra si sviluppò in tre ben delineate tendenze: quella "neorealista", quella "lombarda" e quella "sperimentalista". Leggendo i versi presenti in quest'antologia, risulta chiaro che i curatori hanno privilegiato la seconda tendenza, già paventata da Anceschi nella citata opera del 1952. Ciò è chiaro non solo per il fatto che, dei 33 poeti qui selezionati, ben 13 sono nati in Lombardia, ma anche perché sono ampiamente trascurate (se non ignorate) le altre due tendenze di cui ho parlato. Sempre rifacendomi al saggio di Vetri, si deduce che i due curatori abbiano voluto porre l'attenzione su un tipo di scrittura in versi avente come punto di riferimento un poeta che allora si poteva definire ancora giovane: Vittorio Sereni, e, per suo tramite, il già consacrato Eugenio Montale; inoltre, si notano dei collegamenti più o meno palesi con i temi cari alla tradizione poetica lombarda dell'illuminismo (Parini e Manzoni); infine, si possono identificare delle tracce che riconducono a certa poesia anglosassone (Pound e Eliot in particolare). C'è poi una non celata intenzione di superare la fase ermetica che aveva caratterizzato la poesia italiana negli anni prima della guerra (all'incirca dal 1930 al 1940). Per quanto riguarda le due tendenze poco rappresentate, si può notare che siano stati salvati soltanto pochi poeti; tra di essi Vittorio Bodini, David Maria Turoldo, Bartolo Cattafi, Pier Paolo Pasolini, Elio Filippo Accrocca, Rocco Scotellaro e Paolo Volponi. Con la definizione di "quarta generazione", Chiara ed Erba probabilmente intendevano raggruppare quei poeti ancora giovani, che nell'anno di uscita dell'antologia avessero al massimo trent'anni; fa eccezione il solo Michele Pierri, nato nel 1899; è pur vero che tale poeta si rivelò al pubblico nei primi anni '50 del XX secolo con alcune raccolte memorabili, ben degne di figurare nell'opera antologica in questione. Ecco, infine, i nomi dei poeti presenti in Quarta generazione.




QUARTA GENERAZIONE


Umberto Bellintani, Vittorio Bodini, Margherita Guidacci, Pier Paolo Pasolini, Bartolo Cattafi, David Maria Turoldo, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Paolo Volponi, Giorgio Orelli, Luciano Budigna, Rocco Scotellaro, Alda Merini, Nelo Risi, Luigi Capelli, Federico Almansi, Elio Filippo Accrocca, Michele Pierri, Giorgio Soavi, Biagia Marniti, Renzo Modesti, Gian Carlo Artoni, Gian Piero Bona, Romeo Lucchese, Gaio Fratini, Luciano Erba, Marco Visconti, Luciana Guatelli, Giuliano Gramigna, Giorgio Simonotti Manacorda, Giacomo Campiotti, Alberico Sala, Bruno Conti.

domenica 26 gennaio 2025

Poeti dimenticati: Guglielmo Felice Damiani

 Nacque a Morbegno, in provincia di Sondrio, nel 1875; morì a Napoli nel 1904, a causa di una grave malattia infettiva. Dopo aver frequentato il liceo a Como, si laureò a Pavia nel 1898. Iniziò quindi ad insegnare letteratura in varie località, tra cui Napoli; qui si dedicò anche al giornalismo e alla critica letteraria. Nella sua breve vita riuscì a pubblicare solamente due libri di versi; la sua opera poetica completa uscì postuma in due volumi, grazie all'interessamento del corregionale e poeta Giovanni Bertacchi. Influenzata dai poeti italiani del secondo Ottocento, la migliore lirica di Damiani è quella in cui si avverte una sincera nostalgia - velata anche di malinconia - nei confronti della vita trascorsa in età infantile e giovanile, nel suo paese montano.


Guglielmo Felice Damiani



Opere poetiche


"Le due fontane", Sandron, Milano-Palermo 1899.

"La casa paterna", Sandron, Milano 1903.

"Lira spezzata" (2 volumi), Zanichelli, Bologna 1912.



Presenze in antologie


"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1292).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 280-281).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 194-200).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 287-295).



Testi


TRAMONTO D'OTTOBRE


Amica, non vedi che porpora

divampa su l'erte montane

e accende le nubi che sfumano

ardendo pel cielo lontane?


È un vespro d'ottobre su l'intimo

silenzio del borgo natio:

ché tace a quest'ora la garrula

contrada e discende l'oblio;


discende con l'ombre che smorzano

l'usato romor delle genti,

ma sogni infiniti risvegliano

nel cuore dei cuori dolenti...


Amica! Io so che s'approssima

il giorno del mesto saluto,

Io sento il rimpianto nostalgico

per ogni fuggente minuto;


si velano gli occhi, ché l'anima

mi trema nel seno commossa,

nel cuore l'angoscia mi penetra

un fuoco mi corre per l'ossa...


Son l'ultime sere! dileguano

le nubi col passo dei venti,

e intanto nel cuore mi straziano

i colpi dell'ore fuggenti;


gli sprazzi di sole mi sembrano

fantastici roghi lontani,

e i tristi nel cuor mi consumano

presagi d'un triste domani!


(da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912, primo volume, pp. 163-164)





LO SPECCHIO


Era di luna quel pallor giallastro

che tra le nubi m'apparia di fronte

quando levai gli sguardi all'orizzonte

cercando invano il palpitar d'un astro;


ed a' miei piedi nell'orror verdastro

d'un'acqua silenziosa orba di fonte,

me stesso io vidi e con il tetro monte

la luna dietro nubi d'alabastro.


Tu pur nel fiume pigro della vita

ognor ti specchi, o passegger che vai

dietro un tuo sogno e non ti fermi mai;


ed esso altro non dà che la smarrita

ombra del vagar tuo, con le pietose

forme riflesse delle tristi cose.


(da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912, secondo volume, p. 68)

domenica 19 gennaio 2025

Le voci in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Voci di persone care, che già da tanti anni non ci sono più. Voci che, quando eri un bambino, ti chiamavano dolcemente per nome (ti sembra ancora di udirle). Voci di amici, compagni di scuola o di lavoro, più o meno piacevoli da ricordare. E poi voci femminili, bellissime, associate a volti altrettanto belli: erano talmente suadenti che ti sono rimaste impresse nella mente come nel cuore, e non te le dimentichi dopo anni ed anni (le senti ancora, mentre ti dicono parole che nella realtà non pronunciarono mai). Voci di personaggi popolari: attori, attrici, doppiatori, cantanti, presentatori della tv e speaker radiofonici. Voci misteriose, non identificabili e forse soltanto immaginarie, che solamente certi poeti riescono a captare. E poi tante altre voci che, nel bene e nel male, fanno parte dei ricordi, della tua (nostra) vita passata e presente…  



LE VOCI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



LA SUA VOCE

di Angelo Barile (1888-1967)


Restar solo con te, col vivo azzurro

del cielo dove l'anima si avventa

come fuggente rondine in tempesta;


e sentir mentre palpita il sussurro

dei nostri morti un alito una lenta

voce - o padre! - passar su la mia testa.


(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, p. 141)





LE VOCI ODO DEI MORTI

di Arnaldo Beccaria (1904-1972)


Le voci odo dei morti,

le voci loro, mute, che mi chiamano.

«Prossimo ormai tu sei

alla fine del ponte» mi bisbigliano;

«e che dunque ci porti?». «Di quel poco

che i miei occhi han potuto

e saputo raccogliere» rispondo

«tutto sfuggiva alla mia ragione,

e nulla n'è rimasto.

Poco ho veduto; ancor meno ho compreso.

Molto, molto ho sofferto».

«Pur se molto hai sofferto» mi rispondono,

«qui il dolore, come la gioia, più

non hanno peso.

La pagina qui torna bianca. Morte

è indifferenza».

Questo dicono i morti, e hanno un sorriso:

il sorriso enigmatico dei morti.


(da "Sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966, p. 223)





VOCE

di Libero Bigiaretti (1905-1993)


Da questa stanza raggia

ancora la tua voce;

alza il cielo, incoraggia

a insistere la luce


che già appassisce. I moti

del tuo canto richiamano

i ricordi remoti

che dal tuo volto sciamano


verso il mio cuore. Sperde

l'inutile ronzio

delle strade il tuo verde

canto. Si desta il brio


domestico dei lumi

e respinge ai balconi

l'ombra mentre tra i fumi

di prima sera i suoni


operosi inabissa

(e s'inquieta la vela

d'una tenda prolissa

che inutilmente cela


la caduta del giorno).

Già penso alla mia foce,

al passato non torno:

resisto alla tua voce.


(da «Maestrale», gennaio 1942)





LA TUA VOCE

di Raffaele Carrieri (1905-1984)


Ovunque mi conduce la tua voce 

Pascoli trovo e fuochi per l'inverno.

Ritorna abete la porta chiusa

Passano fiumi sopra le ore

Cadono muri senza rumore

Quando vado con la tua voce.


(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 85)





LE CARE VOCI

di Gian Carlo Conti (1928-1983)


È il più quieto pomeriggio; tutti

sono andati lontano.

La nostra casa rosa e celeste

appena vediamo tra la siepe

eppur così vicina la presenza.

Chi apre le finestre, chi chiama

e chi si muove dal passo conosciamo

e stesi sotto l'albero in un intimo

colloquio le care voci

in noi risuonano ancora.


(da "Non si ricordano più. Le poesie", Guanda, Parma 1991, p. 33)





UNA VOCE AL TELEFONO

di Donata Doni (Santina Maccarrone, 1913-1972)


Una voce amica al telefono.

L'intervallo di tanti chilometri

riporta un moto dell'anima,

un accento gentile.

Lunghe strade dividono

i nostri cammini.

Prati, colli, monti

si frappongono inesorabili.

Eppure la voce giunge

dalla città del mio cuore,

nitida, inalterata.

È come una carezza

tepida sopra il volto,

è come una rugiada

sopra un fiore stanco.

È un richiamo ai giorni

della mia giovinezza,

è un ritrovarsi dell'anima.

Voce amica parlami ancora,

oltre lo spazio, oltre il tempo.

Sarò ancora la dolce compagna

degli anni degli incantesimi.


                                                           Roma 21 gennaio 1972


(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, p. 152-153)





LA VOCE

di Ada Negri (1870-1945)


Ero sul punto in cui son chiusi ancora

gli occhi, ma la memoria a noi ritorna,

quando una voce mi chiamò nel sonno.

Voce di spazio; e pur parea venire

da una bocca vicina alla mia bocca,

e mover l'aria presso il mio respiro.

Diceva: «Ada», «Ada», soltanto, in due

note d'irresistibile dolcezza.

Oh, non del mondo. Oh, non v'è piú nessuno

che mi chiami, nel mondo. Una celeste

serenità rideva in quella voce

così mutata di quand'era in terra

a parlarmi d'amore. E nel mio sonno

io non la riconobbi; e non risposi.


Ma tornerà. Venuta era per dirmi

(più vi ripenso e più lo credo, in cuore)

che l'ora viene: ch'io sia pronta; e nulla

porti con me, fuor che l'ardore antico.

Io sono pronta. E sol per la certezza

di risentir da quella voce il mio

nome, or vivo; e seguirla. Il corpo resti,

che tanto pianse; e lo raccolga l'alba.


(da "Vespertina. Il dono", Mondadori, Milano 1943, pp. 86-87)





LA VOCE DELL'ORO

di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)


Sono alti i cipressi che formano il cerchio,

nel basso le siepi di spine  's'intrecciano terribilmente.

Al centro del cerchio è il pozzo profondo

ch'ha in fondo, 

lo dice la gente, 

il tesoro.

Sono alte le siepi di spine,

raggiungon la chioma degli alti cipressi,

terribili intreccian le braccia fra loro.

Da secoli e secoli tanti

nessuno tagliò quella macchia paurosa,

la gente, da secoli tanti,

non passa vicino a quel cerchio.

Soltanto la sera al calare del sole

ognuno sta attento in orecchi,

dal centro del cerchio, 

dal fondo del pozzo profondo, 

vien fuori un lamento: «la voce dell'oro».


(da "Poesie", Preda, Milano 1930. pp. 66-67)





VOCE UMILE E PERENNE

di Lucio Piccolo (1901-1969)


Voce umile e perenne

sommesso cantico

del dolore nei tempi,

che ovunque ci giungi

e ovunque ci tocchi,

la nostra musica è vana

troppo grave, la spezzi;

per te solo vorremmo

il balsamo ignoto, le bende…

ma sono inchiodate

dinnanzi al tuo pianto le braccia

non possiamo che darti

la preghiera e l’angoscia.


(da "Plumelia, La seta Il raggio verde", Scheiwiller, Milano 2001, p. 76)





TUTTE LE COSE SONO QUIETE

di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)


In attesa della Tua voce

Che tiene gli astri sono io.

La Tua voce nasce nel vento

E l’alba preme sul petto.

Si rovescia al colore

La foglia, Ti annunzia

E passa a farmi rumore.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2020, p. 29)



Gerald Moira, "The Silent Voice"
(da questa pagina web)


domenica 12 gennaio 2025

"Dal fondo delle campagne" di Mario Luzi

 Dal fondo delle campagne è il titolo di una raccolta poetica di Mario Luzi (Sesto Fiorentino 1914 - Firenze 2005). Fu pubblicata dalla casa editrice Einaudi di Torino nel 1965. Il poeta toscano, fin dalla prima edizione, in un breve frammento che si può leggere sul retro del libro, precisò che le poesie di qui presenti, cronologicamente precedono Nel magma - raccolta di Luzi uscita nel 1963 -, essendo state scritte tra il 1956 ed il 1960. Personalmente ritengo che Dal fondo delle campagne, insieme a Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957), rappresenti la fase più significativa della carriera poetica di Luzi. A supporto di questa tesi, riporto un frammento del critico Pier Vincenzo Mengaldo, estratto dall’antologia Poeti italiani del Novecento:

 

[…] Nel secondo e centrale momento della sua carriera, che comprende grosso modo le tre raccolte Primizie del deserto, Onore del vero e Dal fondo delle campagne, Luzi tocca certamente i suoi risultati più alti. Ciò che prima era soprattutto atteggiamento letterario, qui diventa davvero esperienza esistenziale, e l’autore (già con Quaderno gotico) inizia a farsi storico di se stesso. Attraverso il Montale delle Occasioni Luzi passa sotto il patronato, ideologicamente più congruo, di Eliot, in parallelo al quale egli approfondisce la metafisica, tra cristiana e platonica, della identità e reciproca reversibilità, o meglio perpetua oscillazione, di divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità e così via (…). È una poesia che, dalla vacillazione fra presenza e assenza che la caratterizza, si sviluppa a referto, per usare termini luziani, del «transito» e della «vicissitudine sospesa», spiati dalla «feritoia dei sensi» […].¹

 

Dal fondo delle champagne si compone di 25 poesie, suddivise nelle seguenti sezioni: Altre voci; Questione di vita o di morte; Morte Cristiana; Tre note; Dal fondo delle champagne; Quanta vita. Per finire, trascrivo da questa "plaquette" (così la definì lo stesso Luzi), una delle migliori poesie.

 

 

 


 

 

AUGURIO

 

Camera dopo camera la donna

inseguita dalla mattina canta,

quanto dura le lena

strofina i pavimenti,

spande cera. Si leva, canto tumido

di nuova maritata

che genera e governa,

e interrotto da colpi

di spazzole, di panni

penetra tutto l’alveare, introna

l’aria già di primavera.

 

Ora che tutt’intorno, a ogni balcone,

la donna compie riti

di fecondità e di morte,

versa acqua nei vasi, immerge fiori,

ravvia le lunghe foglie, schianta

i seccumi, libera i buttoni

per il meglio della pioggia,

per il più caldo del sole,

o miei giovani e forti,

miei vecchi un po’ svaniti,

dico, prego: sia grazia essere qui,

grazia anche l’implorare a mani giunte,

stare a labbra serrate, ad occhi bassi

come chi aspetta la sentenza.

Sia grazia essere qui,

nel giusto della vita,

nell’opera del mondo. Sia così.

 

(da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965, p. 28)

 

 

NOTE

1)     Da Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1991, pp. 650-651