Nel 1907 fu
pubblicata dall'editore Treves di Milano, Lo
specchio e la falce: terza opera in versi di Pietro Mastri (pseudonimo di
Pirro Masetti, nato, vissuto e morto a Firenze tra il 1868 ed il 1932).
Rispetto alle precedenti, si distingue per un incupimento tangibile delle
atmosfere che vi vengono descritte, pur rimanendo immutate certe tematiche,
molto legate alla poetica pascoliana delle "piccole cose". Questo
libro segna il confine della prima fase poetica dello scrittore fiorentino;
dopo di esso, infatti, Mastri non pubblicò più nulla per ben tredici anni,
attraversando un periodo particolarmente complicato della sua vita, che
comunque riuscì lentamente a superare, aiutato dalla fede religiosa, che gli
diede la possibilità di osservare sé stesso e il mondo con maggiore ottimismo.
Ma in queste pagine non è difficile notare il disagio esistenziale che allora
lo attanagliava, e che era meno evidente nelle altre raccolte; questo disagio
si manifesta già dal prologo: una prosa senza titolo in cui il poeta medita
amaramente sulla vita che, nel suo caso, aveva già superato la metà (eloquente
a tal proposito è la citazione dantesca posta all'inizio); una cupa malinconia
attraversa diversi componimenti poetici, come Boboli, in cui i famosi giardini fiorentini servono da spunto per
dimostrare l'indifferenza e la spietatezza della natura (derivazione
leopardiana), soprattutto quando ripensa ai periodi felici della sua infanzia e
della sua gioventù - ormai lontani - che gli consentono di dedurre l'assoluta
immutabilità del luogo e, nello stesso tempo, il totale ribaltamento della
situazione e dell'umore personale. In altre poesie come Lo specchio e Viale dei colli,
Mastri appare ormai distaccato dalla realtà e disinteressato alle vicende
umane, e sembra osservare sé stesso come tutto il resto, da un luogo lontano e
fuori del mondo. Come in L'arcobaleno
- raccolta pubblicata sette anni prima - vi sono dei versi in cui domina il
mistero assoluto; in Grido nella notte,
per esempio, l'angoscia si manifesta improvvisamente, durante una notte serena
e tranquilla, a causa della netta percezione di un urlo lungo e disperato di
cui il poeta non capisce la provenienza né il motivo. Questo senso di panico
misto a mistero ritorna in Terrore
notturno, anche se qui si palesa la presenza della "morte": tema
che si ripete simbolicamente anche nelle due ultime poesie intitolate
complessivamente La falce. Vi sono
poi alcuni versi - e con questa constatazione del tutto personale concludo - in
cui Mastri sembra anticipare i temi cari a Camillo Sbarbaro: Il giumento bendato è una poesia in cui
si paragona l'umanità ad un animale da soma, costretto a svolgere determinati
compiti e incapace di opporsi agli ordini, come fosse, anziché un essere
vivente, un automa. Ecco infine due delle trentuno poesie che fanno parte della
raccolta Lo specchio e la falce di
Pietro Mastri.  
BOBOLI
   O gran giardino regale,
   oggi regale invano,
   dal nome labiale
   di suono sì intimo e arcano,
   che le labbra, raccolte
   nel proferirlo, due volte
   si bacian con lieve carezza,
quasi ad
assaporarne la dolcezza;
   Boboli, qual nostalgia
   a te mi riconduce
   or che Marzo s'avvia
   fra palpiti d'ombre e di luce?...
   Boboli, in questo giorno
di festa, a
te da lungo oblio ritorno.
   Oh! son pur questi i recessi
   dove fanciullo venni.
   Fra siepi di mirti e cipressi
   ancora i viali solenni,
   sì fondi che sfuggono all'occhio,
   sembrano attendere un cocchio
   dorato, cui seguan cortei
di musiche,
d'insegne e di trofei:
   ancora, per erte e per chine,
   ombrosi sentieri
   corrono senza fine
   sotto gli archi leggeri
   dei rami contesti dall'arte,
memori che
l'amore ama in disparte:
   ancora lucertole al sole
   guizzan sui gradi vuoti
   dell'anfiteatro; e le sole
   statue nei gesti immoti
   ripetono i giochi antichi,
   bianche fra verdi intrichi;
   e nelle vasche, enorme
blocco di
amalachita, l'acqua dorme.
   Tanto mi appari immutato,
   ch'io cerco sulla ghiaia
   fina, o su qualche prato,
   se un segno anche m'appaia,
   un segno, di quelle orme stesse,
che il mio
piede infantile un dì v'impresse.
   Ohimè! Altri fanciulli
   sfarfallano là pei viali,
   con risa, urli e trastulli,
   con un balenar come d'ali ;
   e colgono pur oggi
   le mammole su' tuoi poggi,
   e sbriciolano il pane
ai pesci
rossi delle tue fontane.
   E tu gli accogli, oramai,
   come accogliesti me,
   come ne accoglierai
   i figli oh! non figli di re.
   Aperti son ora i cancelli:
e tu gli
accogli, ormai, come gli uccelli; 
   gli uccelli a te migranti
   in questi primi tepori,
   ch'empiono già di canti
   i tuoi boschetti d'allori,
   mentre le piante spoglie
   han verdi presagi di foglie,
   e al piè delle cortici annose
rampano
tralci che saran di rose...
   Non senti tu? No. Il vecchio
   tuo spirito si mira,
   immobile, nello specchio
   d'un'altra età; né l'attira
   vicenda di stagioni,
né trapassar
di generazioni.
   Tu, gran giardino regale,
   oggi regale invano,
   vegeti forse quale
   il fachiro indiano,
   che, assorto nel veggente
   letargo, sogna e non sente;
   non sente il pulsar della vita,
ch'entro di
sé, fuori di sé l'incita;
   non sente il ronzìo delle mosche
   sul volto, né crescer prolissa
   la barba; con le fosche
   pupille, inerte, s'affissa,
   e avvolto nelle sue bende
segue il suo
sogno fuor del tempo e attende.
(da "Lo
specchio e la falce", Treves, Milano 1907, pp. 29-34)
COSÌ LE
STELLE...
Vuoi che
alcunché - spirito, idea, sembianza -
serbi intatta
bellezza agli occhi tuoi?
Fa di
restarne lungi più che puoi,
e da lungi
sii pago d'ammirare.
Così le
stelle, per la gran distanza,
mostran di sé
la pura luce: presso
vedresti il
fango, forse, il fango stesso,
onde la terra
sordida ti appare.
(da "Lo specchio e la falce", Treves, Milano 1907, p. 67)
