Il rifiuto, parlando del termine inteso come negazione in modo generico, può subentrare nella vita di un essere umano per diverse motivazioni che si ricollegano a particolari stati psichici e fisici; si può rifiutare qualcosa o qualcuno per timore, per sconforto, per stanchezza, per pigrizia o per principio. Ognuna di queste particolari cause che determinano dei rifiuti sono presenti nei versi di alcuni poeti italiani rientranti nella sfera dei decadenti e dei simbolisti. Tra quelle che di seguito ho elencato, Apologia di Sem Benelli (e in parte a questa poesia si potrebbero associare I cavalieri di Gloriana di Gian Pietro Lucini e Sonetto nero di Corrado Govoni) parla di un rifiuto intellettuale, se vogliamo superbo, di un uomo che decide di non offrire la sua mente al piacere offertogli da una donna particolarmente avvenente, ma priva di moralità. Ma si può rifiutare anche un amore puro e sincero, come avviene nei versi di Diego Angeli e di Enrico Panzacchi; nei primi, il poeta è costretto alla rinuncia per decisione di lei, mentre nella poesia di Panzacchi è il poeta stesso che, per ragioni d’incompatibilità e non solo, pone fine ad ogni possibilità di instaurare un rapporto con un ragazza. Corazzini, in Bando, svende le sue geniali idee, perché desidera solamente una vita oziosa e spensierata, simile a quella dei gatti. Nella lirica di Italo Dalmatico, si dichiara una rinuncia alla vita, perché la si vede quale è, in tutta la sua vacuità; per questo il protagonista aspira soltanto alla morte: unica consolatrice di coloro che non si fanno più illusioni. Ne Il cancello di Pietro Mastri, il poeta è costretto a rinunciare ad un aldilà magnificamente descritto e concretamente prefigurato, a causa di un simbolico cancello che impedisce l’uscita dalla vita. Nella poesia Il pappagallo di Palazzeschi è un animale il protagonista di un rifiuto testardo: per l’appunto un pappagallo, declina costantemente i continui incitamenti della “gente” affinché emetta un minimo suono; il suo unico comportamento è un mutismo ostinato, unito ad un “guardare” silenzioso tutti coloro che lo importunano con instancabili inviti alla parola. Ne La cena degli infelici, un gruppo di misteriosi commensali rifiuta caparbiamente qualsiasi cibo che arrivi alla loro tavola. Infine, si può dire che la causa di molti rifiuti alla vita (intesa come gioia di essere al mondo), nella maggioranza dei casi, nasce da una serie di esperienze negative vissute attraverso gli anni: drammi, tragedie, tradimenti, disillusioni; quest’ultima tipologia è ben presente nei versi di Sandro Baganzani, il quale, con la sua compagna decide di rimanere chiuso in casa proprio quando la natura, nella stagione primaverile, si mostra nei suoi aspetti più attrattivi.
Poesie sull’argomento
Diego Angeli:
"Ricordo del Redentore" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Sandro Baganzani:
"Attimo" in "Senzanome" (1924).
Sem Benelli:
"Apologia" in «Poesia», marzo 1905.
Carlo Chiaves:
"L'impeto vano" in "Sogno e ironia" (1910).
Carlo Chiaves:
"I profani e il sogno" in «La Donna», gennaio 1914.
Sergio Corazzini:
"Bando" in "Libro per la sera della domenica" (1906).
Italo Dalmatico:
"Taci. Noi siamo in tenebra fanciulli" in "Juvenilia"
(1903).
Corrado Govoni:
"Sonetto nero" in "Gli aborti" (1907).
Gian Pietro Lucini:
"I Cavalieri di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni
Ideali" (1894).
Pietro Mastri:
"Il cancello" in "La fronda oscillante" (1923).
Marino Moretti:
"Rinunzia" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Nino Oxilia:
"Dopo il rifiuto" in "Gli orti" (1918).
Aldo Palazzeschi:
"Il pappagallo" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi:
"La cena degli infelici" in "Poemi" (1909).
Enrico Panzacchi:
"Che vuoi da me?" in "Poesie" (1908).
Guido Ruberti:
"I suicidi" in "Le Evocazioni" (1909).
Giuseppe Villaroel:
"Rassegnazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).
RINUNZIA
di Marino Moretti
(1885-1979)
Dolce la sera rimaner
qui soli
nella penombra della
stanza, presso
i vetri, e non
parlar, neppur sommesso,
e non guardar neppur
gli ultimi voli!
Immobili restare al
proprio posto
dopo una lunga
disputa, e dal cuore
sentir vanire
l'ultimo rancore
e il rancore più
vecchio e più nascosto.
Sentirci presi da una
tenerezza
che non à baci e che
non à parole,
ma che è tepida e
dolce come il sole
primaverile, e come
una carezza!
Mamma, ti vedo. Io
vedo un po' di bianco
nell'ombra muta, il
bianco del tuo viso,
e v'indovino il fior
del tuo sorriso,
fiore appassito di
sorriso stanco!
Passar così tutta la
vita! È sera:
l'ombra.... il
silenzio.... il tedio.... Più nulla,
Che importa? È così
vana e così brulla
la vita per un po' di
primavera!
Viviamola nell'ombra:
è forse meglio,
e forse, mamma, ci si
vuol più bene
se un desiderio
vigile ci tiene
di non pensare al
prossimo risveglio!
Roseo di peschi,
bianco di susini,
cielo lucente.... Non
ricordi tu?
Non ti par che il
ricordo ne sia più
tepido di quei tepidi
mattini?
Occhi mortali illusi
da un colore
primaverile su uno
sfondo azzurro!
Cuori mortali illusi
da un susurro
di fuchi d'oro,
d'incognito cuore!
Nulla. Noi nella
nostra ombra romita
sentiam che tutto è
inutilmente come
se fosse solo una
parola, o un nome
breve, di quattro
lettere, la vita...
(da “Poesie scritte
col lapis”, Palomar, Bari 1992, pp. 150-151)
RASSEGNAZIONE
di Giuseppe Villaroel
(1889-1965)
Sorella, tu sei
venuta a vedermi, con l'anima sgombra
d'ogni sospetto,
ignara che il male m'avesse sfinito.
Ed io ho avuto paura
che tutto sarebbe finito
quando avresti
trovato non l'uomo che amavi; ma l'ombra.
L'ultimo giorno ci
siamo lasciati con una promessa negli occhi,
una promessa dolce
come la carezza della tua mano,
La sera tingeva d'oro
le vette degli alberi lontano
e la chiesa del
monastero batteva i suoi lenti rintocchi.
E fu vana la dolce
promessa. E torna grave l'addio
nel mio ricordo, ora
che assisto alle fatale rovina
di tutte le cose più
care attorno alia vita che declina.
Oh, come tramonta
triste con me tutto ciò che fu mio!
Il mio occhio è
diventato più grande, più buono, più chiaro
e l'anima ancora vi
splende; ma tutto il mio corpo è disfatto.
Tu guardi queste mani
di scheletro, questo volto scarno e contratto
e vuoi celarmi il
ribrezzo con un sorriso pietoso e pur così mesto ed amaro!
Io penso che tu più
non m'ami perché non si può più amare
una misera larva che
giace come una pianta sfiorita.
Io penso che tu più
non m'ami perché s'ama la forza e la vita
e io sono un uomo
finito che s'ostina ancora a restare.
Ah, non sorridermi.
Io sento lo sforzo della tua dolcezza
e vedo che gli occhi
tuoi non hanno più quell'ardore.
Ah, non illudermi. È
triste sentirsi ingannati dal cuore
a cui s'affidò la
vita che un poco ogni giorno si spezza.
No, dolce sorella. È
vana la tua lusinga pietosa.
Non vedi che io sono
rassegnato come un cieco al suo destino?
che ho fatto rinunzia
di tutto e non sono altro che un bambino
senza amore e senza
conforto: una povera piccola cosa?
Ogni mattina mi
adagiano su questa sedia a bracciuoli
presso la finestra aperta
su lo sfondo di topazio
e resto a guardare il
veleggio delle nubi nello spazio
o i lunghi pennacchi
neri sulle bocche dei fumaioli.
E tutto il mio mondo
e la mia vita è in questa gioia breve,
unica e pura gioia
fatta di silenzio e di cielo.
E il sogno nella mia
anima muore come lo stelo
pallido e freddo d'un flore sbocciato sopra la neve.
(da "La
tavolozza e l'oboe", Taddei, Ferrara 1918, pp. 14-16)
Edvard Munch, "Melancholy" (da questa pagina web) |
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