domenica 8 dicembre 2024

I rifiuti nella poesia italiana decadente e simbolista

 Il rifiuto, parlando del termine inteso come negazione in modo generico, può subentrare nella vita di un essere umano per diverse motivazioni che si ricollegano a particolari stati psichici e fisici; si può rifiutare qualcosa o qualcuno per timore, per sconforto, per stanchezza, per pigrizia o per principio. Ognuna di queste particolari cause che determinano dei rifiuti sono presenti nei versi di alcuni poeti italiani rientranti nella sfera dei decadenti e dei simbolisti. Tra quelle che di seguito ho elencato, Apologia di Sem Benelli (e in parte a questa poesia si potrebbero associare I cavalieri di Gloriana di Gian Pietro Lucini e Sonetto nero di Corrado Govoni) parla di un rifiuto intellettuale, se vogliamo superbo, di un uomo che decide di non offrire la sua mente al piacere offertogli da una donna particolarmente avvenente, ma priva di moralità. Ma si può rifiutare anche un amore puro e sincero, come avviene nei versi di Diego Angeli e di Enrico Panzacchi; nei primi, il poeta è costretto alla rinuncia per decisione di lei, mentre nella poesia di Panzacchi è il poeta stesso che, per ragioni d’incompatibilità e non solo, pone fine ad ogni possibilità di instaurare un rapporto con un ragazza. Corazzini, in Bando, svende le sue geniali idee, perché desidera solamente una vita oziosa e spensierata, simile a quella dei gatti. Nella lirica di Italo Dalmatico, si dichiara una rinuncia alla vita, perché la si vede quale è, in tutta la sua vacuità; per questo il protagonista aspira soltanto alla morte: unica consolatrice di coloro che non si fanno più illusioni. Ne Il cancello di Pietro Mastri, il poeta è costretto a rinunciare ad un aldilà magnificamente descritto e concretamente prefigurato, a causa di un simbolico cancello che impedisce l’uscita dalla vita. Nella poesia Il pappagallo di Palazzeschi è un animale il protagonista di un rifiuto testardo: per l’appunto un pappagallo, declina costantemente i continui incitamenti della “gente” affinché emetta un minimo suono; il suo unico comportamento è un mutismo ostinato, unito ad un “guardare” silenzioso tutti coloro che lo importunano con instancabili inviti alla parola. Ne La cena degli infelici, un gruppo di misteriosi commensali rifiuta caparbiamente qualsiasi cibo che arrivi alla loro tavola. Infine, si può dire che la causa di molti rifiuti alla vita (intesa come gioia di essere al mondo), nella maggioranza dei casi, nasce da una serie di esperienze negative vissute attraverso gli anni: drammi, tragedie, tradimenti, disillusioni; quest’ultima tipologia è ben presente nei versi di Sandro Baganzani, il quale, con la sua compagna decide di rimanere chiuso in casa proprio quando la natura, nella stagione primaverile, si mostra nei suoi aspetti più attrattivi.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Diego Angeli: "Ricordo del Redentore" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Sandro Baganzani: "Attimo" in "Senzanome" (1924).

Sem Benelli: "Apologia" in «Poesia», marzo 1905.

Carlo Chiaves: "L'impeto vano" in "Sogno e ironia" (1910).

Carlo Chiaves: "I profani e il sogno" in «La Donna», gennaio 1914.

Sergio Corazzini: "Bando" in "Libro per la sera della domenica" (1906).

Italo Dalmatico: "Taci. Noi siamo in tenebra fanciulli" in "Juvenilia" (1903).

Corrado Govoni: "Sonetto nero" in "Gli aborti" (1907).

Gian Pietro Lucini: "I Cavalieri di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Pietro Mastri: "Il cancello" in "La fronda oscillante" (1923).

Marino Moretti: "Rinunzia" in "Poesie scritte col lapis" (1910).

Nino Oxilia: "Dopo il rifiuto" in "Gli orti" (1918).

Aldo Palazzeschi: "Il pappagallo" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "La cena degli infelici" in "Poemi" (1909).

Enrico Panzacchi: "Che vuoi da me?" in "Poesie" (1908).

Guido Ruberti: "I suicidi" in "Le Evocazioni" (1909).

Giuseppe Villaroel: "Rassegnazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 Testi

 

RINUNZIA

di Marino Moretti (1885-1979)

 

Dolce la sera rimaner qui soli

nella penombra della stanza, presso

i vetri, e non parlar, neppur sommesso,

e non guardar neppur gli ultimi voli!

 

Immobili restare al proprio posto

dopo una lunga disputa, e dal cuore

sentir vanire l'ultimo rancore

e il rancore più vecchio e più nascosto.

 

Sentirci presi da una tenerezza

che non à baci e che non à parole,

ma che è tepida e dolce come il sole

primaverile, e come una carezza!

 

Mamma, ti vedo. Io vedo un po' di bianco

nell'ombra muta, il bianco del tuo viso,

e v'indovino il fior del tuo sorriso,

fiore appassito di sorriso stanco!

 

Passar così tutta la vita! È sera:

l'ombra.... il silenzio.... il tedio.... Più nulla,

Che importa? È così vana e così brulla

la vita per un po' di primavera!

 

Viviamola nell'ombra: è forse meglio,

e forse, mamma, ci si vuol più bene

se un desiderio vigile ci tiene

di non pensare al prossimo risveglio!

 

Roseo di peschi, bianco di susini,

cielo lucente.... Non ricordi tu?

Non ti par che il ricordo ne sia più

tepido di quei tepidi mattini?

 

Occhi mortali illusi da un colore

primaverile su uno sfondo azzurro!

Cuori mortali illusi da un susurro

di fuchi d'oro, d'incognito cuore!

 

Nulla. Noi nella nostra ombra romita

sentiam che tutto è inutilmente come

se fosse solo una parola, o un nome

breve, di quattro lettere, la vita...

 

(da “Poesie scritte col lapis”, Palomar, Bari 1992, pp. 150-151)

 

 

 

 

RASSEGNAZIONE

di Giuseppe Villaroel (1889-1965)

 

Sorella, tu sei venuta a vedermi, con l'anima sgombra

d'ogni sospetto, ignara che il male m'avesse sfinito.

Ed io ho avuto paura che tutto sarebbe finito

quando avresti trovato non l'uomo che amavi; ma l'ombra.

 

L'ultimo giorno ci siamo lasciati con una promessa negli occhi,

una promessa dolce come la carezza della tua mano,

La sera tingeva d'oro le vette degli alberi lontano

e la chiesa del monastero batteva i suoi lenti rintocchi.

 

E fu vana la dolce promessa. E torna grave l'addio

nel mio ricordo, ora che assisto alle fatale rovina

di tutte le cose più care attorno alia vita che declina.

Oh, come tramonta triste con me tutto ciò che fu mio!

 

Il mio occhio è diventato più grande, più buono, più chiaro

e l'anima ancora vi splende; ma tutto il mio corpo è disfatto.

Tu guardi queste mani di scheletro, questo volto scarno e contratto

e vuoi celarmi il ribrezzo con un sorriso pietoso e pur così mesto ed amaro!

 

Io penso che tu più non m'ami perché non si può più amare

una misera larva che giace come una pianta sfiorita.

Io penso che tu più non m'ami perché s'ama la forza e la vita

e io sono un uomo finito che s'ostina ancora a restare.

 

Ah, non sorridermi. Io sento lo sforzo della tua dolcezza

e vedo che gli occhi tuoi non hanno più quell'ardore.

Ah, non illudermi. È triste sentirsi ingannati dal cuore

a cui s'affidò la vita che un poco ogni giorno si spezza.

 

No, dolce sorella. È vana la tua lusinga pietosa.

Non vedi che io sono rassegnato come un cieco al suo destino?

che ho fatto rinunzia di tutto e non sono altro che un bambino

senza amore e senza conforto: una povera piccola cosa?

 

Ogni mattina mi adagiano su questa sedia a bracciuoli

presso la finestra aperta su lo sfondo di topazio

e resto a guardare il veleggio delle nubi nello spazio

o i lunghi pennacchi neri sulle bocche dei fumaioli.

 

E tutto il mio mondo e la mia vita è in questa gioia breve,

unica e pura gioia fatta di silenzio e di cielo.

E il sogno nella mia anima muore come lo stelo

pallido e freddo d'un flore sbocciato sopra la neve.

 

(da "La tavolozza e l'oboe", Taddei, Ferrara 1918, pp. 14-16)

 

Edvard Munch, "Melancholy"
(da questa pagina web)


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