domenica 5 novembre 2023

Riviste: "La Lettura"

 

La Lettura è il titolo di una prestigiosa rivista letteraria, nata nel 1901 come supplemento mensile in omaggio agli abbonati del quotidiano Il Corriere della Sera. Inizialmente diretta da Giuseppe Giacosa, la Lettura ebbe, tra i suoi collaboratori, personaggi famosi del mondo della letteratura italiana, come Antonio Fogazzaro, Edmondo De Amicis, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Guido Gozzano. La poesia trovò quasi sempre spazio nelle pagine di questa rivista, e vi pubblicarono versi alcuni tra i poeti italiani più illustri del Novecento. La Lettura ebbe un discreto successo di pubblico che si prolungò costantemente, visto che il suo ultimo numero fu stampato nel 1952, dopo oltre mezzo secolo dalla sua nascita. Chiudo riportando tre poesie da me particolarmente gradite, che furono pubblicate per la prima volta nella rivista milanese.

 

 


 

 

IL RICHIAMO

di Guido Gozzano

 

I.

«Una cocotte!» - Che vuol dire, mammina?»

«Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!»

 

II

Ho rivisto il giardino, il giardinetto

contiguo, le palme del viale,

la cancellata rozza dalla quale

mi protese la mano ed il confetto...

 

III.

- «Piccolino, che fai solo soletto?»

- «Sto giocando al Diluvio Universale».

 

Accennai la secchietta, le bizzarre

cose che modellavo nella sabbia,

ed ella si chinò, come chi abbia

fretta d'un bacio e fretta di ritrarre

la bocca, e mi baciò di tra le sbarre

come si bacia un uccellino in gabbia.

 

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto

di quel suo volto tra le sbarre quadre!

La nuca mi serrò, con mani ladre;

ed io stupivo di vedermi accanto

al viso quella bocca tanto, tanto

diversa dalla bocca di mia Madre!

 

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?

Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»

«Sì... Vedi la mia mamma e il mio Papà?»

Subito mi lasciò, con negli sguardi

un vano sogno (ricordai più tardi)

un vano sogno di maternità.

 

«Una cocotte!...» - «Che vuol dire, mammina?»

«Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!»

Co-co-tte... La strana voce parigina

dava alla mia fantasia bambina

un senso buffo d'ovo e di gallina...

 

Pensavo deità favoleggiate:

i naviganti e l'Isole Felici...

Co-co-tte... le fate intese a malefici

con cibi e con bevande affatturate...

Fate saranno, Chi sa quali fate,

e in chi sa quali tenebrosi offici...

 

Un giorno – giorni dopo – mi chiamò

tra le sbarre fiorite di verbene:

- «O piccolino! Non mi vuoi più bene!»

- «È vero che tu sei una cocotte?»

Perdutamente rise... E mi baciò

con le pupille di tristezza piene.

 

IV.

Tra le gioie defunte e i disinganni,

dopo vent'anni, oggi, si ravviva

il tuo sorriso... Dove sei, cattiva

signorina? Sei viva? Come inganni

(meglio per te non essere più viva!)

la discesa terribile degli anni?

 

Oimè! Da che non giova il tuo belletto

e il cosmetico già fa mala prova

l'ultimo amante disertò l'alcova...

Uno, sol uno: il piccolo folletto

che donasti d'un bacio e d'un confetto

dopo vent'anni, oggi, ti ritrova

in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!

Da quel mattino dell'infanzia pura

forse ho amata te sola, o creatura,

forse ho amata te sola! E ti richiamo!

Se leggi questi versi di richiamo

ritorna a chi t'aspetta, o creatura!

 

Vieni. Che importa se non sei più quella

che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,

o vestita di tempo! Oggi ho bisogno

del tuo passato! Ti rifarò bella

come Carlotta, come Graziella,

come tutte le donne del mio sogno!

 

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,

di rimpianto. Non amo che le rose

che non colsi. Non amo che le cose

che potevano essere e non sono

state... Vedo la casa, ecco le rose

del bel giardino di vent'anni or sono!

 

Oltre le sbarre il tuo giardino intatto

fra gli eucalipti liguri si spazia.

Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.

Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;

ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,

sulla tua bocca l'ultima tua grazia.

 

Vieni! Sarà come se a me, per mano,

tu riportassi me stesso d'allora.

Il bimbo parlerà con la signora.

Risorgeremo dal tempo lontano.

Vieni! Sarà come se a te, per mano,

io riportassi te, giovine ancora!

 

(da «La Lettura», giugno 1909)

 

 

 

 

RINUNZIA

di Angiolo Silvio Novaro

 

Entrai dove l'anima mia

Allo specchio facevasi bella

Per piacermi, e le dissi: Sorella

Le tue gioie ove sono?

I zaffiri e le turchesi

Che raccogli nei paesi

Del sogno?

Le perle degli amori

Che leghi in rotondi monili

E ridi mente le infili

E di sùbita luce le irrori?

Gli argenti e gli ori

Di allegrezze che tu senti

Maturare in felici silenzi?

I pizzi e gli arazzi de' rari

Lussuosi vagabondari

Ove ti avvolgi molle e restia?

Per abbellire gli altari

Bisogna che in dono li dia!

  Con meditata dolcezza

Di frasi,

Con l'accorata forza che spezza

I tenaci egoismi, con quasi

Un riso negli occhi

Parlai all'anima mia

E intento rimasi.

  Ella tremava nei giunti ginocchi.

Tra pallori d'agonia

Si storcea l'aride mani

Singhiozzava: - Domani!... Domani!... -

E alfine alzò il viso rasciutto

E disse: Va', pigliati tutto,

E ciò che dev'essere sia!

  In cima agli altari io deposi

Il fascio dei beni preziosi

E sperso fuggii sulla strada

Reciso dall'anima mia

Recando nei morsi del vento

L'orrore d'un cieco sgomento -

Ed ora non so dove io vada...

  Ma ciò che dev'essere sia!

 

(da «La Lettura», maggio 1916)

 

 

 

 

VISITAZIONE

di Diego Valeri

 

Come il dì si ritrasse, perduto

nel più alto del cielo,

l'ombra invase col suo soffio muto

la conca del lago, verde, di gelo.

 

Nero il monte, tutto serrato

nella prigione della sua mole.

Non c'era che un cespo rosato

d'oleandri a ricordare il sole.

 

Allora stette d'improvviso

davanti a me l'angelo triste,

pallido, in veste bruna d'oliva,

gli occhi colore delle ametiste.

 

Dalla nuvola chiusa dell'ale

traspariva la luce bianca

delle braccia, disciolte in grave

abbandono, come cosa stanca.

 

- Angelo — pregavo — guardami in cuore

coi tuoi occhi d'innocenza:

sento che l'anima mi muore

se anche tu mi neghi la salvezza.

 

Lascia ch'io ponga nelle tue mani

tutto quello che ho sofferto:

le paure, i sogni vani,

la mia sete di cielo aperto.

 

Angelo, tu puoi forse ancora

trarre da tanto stolto male

qualche piccola cosa buona

da portar sotto le tue ale... -

 

Mi fissava; ma come assorto

in pensiero di lontananza,

come dicesse: tu sei morto,

per i morti non c'è speranza.

 

Poi sparì. La notte spense

anche quel riso di fiori, quel gelo

dell'acqua; confuse le immense

solitudini del monte e del cielo.

 

Tutto era fermo, opaco, muto,

nella notte senza stelle serena.

Io smaniavo, dentro me caduto,

come nella terra una cieca vena.

 

(da «La Lettura», giugno 1931)

 

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