La Lettura è il titolo di una prestigiosa rivista letteraria, nata nel 1901 come supplemento mensile in omaggio agli abbonati del quotidiano Il Corriere della Sera. Inizialmente diretta da Giuseppe Giacosa, la Lettura ebbe, tra i suoi collaboratori, personaggi famosi del mondo della letteratura italiana, come Antonio Fogazzaro, Edmondo De Amicis, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Guido Gozzano. La poesia trovò quasi sempre spazio nelle pagine di questa rivista, e vi pubblicarono versi alcuni tra i poeti italiani più illustri del Novecento. La Lettura ebbe un discreto successo di pubblico che si prolungò costantemente, visto che il suo ultimo numero fu stampato nel 1952, dopo oltre mezzo secolo dalla sua nascita. Chiudo riportando tre poesie da me particolarmente gradite, che furono pubblicate per la prima volta nella rivista milanese.
IL RICHIAMO
di Guido Gozzano
I.
«Una cocotte!» -
Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una
cattiva signorina:
non bisogna
parlare alla vicina!»
II
Ho rivisto il
giardino, il giardinetto
contiguo, le
palme del viale,
la cancellata
rozza dalla quale
mi protese la
mano ed il confetto...
III.
- «Piccolino, che
fai solo soletto?»
- «Sto giocando
al Diluvio Universale».
Accennai la
secchietta, le bizzarre
cose che
modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò,
come chi abbia
fretta d'un bacio
e fretta di ritrarre
la bocca, e mi
baciò di tra le sbarre
come si bacia un
uccellino in gabbia.
Sempre ch'io viva
rivedrò l'incanto
di quel suo volto
tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò,
con mani ladre;
ed io stupivo di
vedermi accanto
al viso quella
bocca tanto, tanto
diversa dalla
bocca di mia Madre!
«Piccolino, ti
piaccio che mi guardi?
Sei qui pei
bagni? Ed affittate là?»
«Sì... Vedi la
mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò,
con negli sguardi
un vano sogno
(ricordai più tardi)
un vano sogno di
maternità.
«Una cocotte!...»
- «Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una
cattiva signorina:
non bisogna
parlare alla vicina!»
Co-co-tte... La
strana voce parigina
dava alla mia
fantasia bambina
un senso buffo
d'ovo e di gallina...
Pensavo deità
favoleggiate:
i naviganti e
l'Isole Felici...
Co-co-tte... le
fate intese a malefici
con cibi e con
bevande affatturate...
Fate saranno, Chi
sa quali fate,
e in chi sa quali
tenebrosi offici...
Un giorno –
giorni dopo – mi chiamò
tra le sbarre
fiorite di verbene:
- «O piccolino!
Non mi vuoi più bene!»
- «È vero che tu
sei una cocotte?»
Perdutamente
rise... E mi baciò
con le pupille di
tristezza piene.
IV.
Tra le gioie
defunte e i disinganni,
dopo vent'anni,
oggi, si ravviva
il tuo sorriso...
Dove sei, cattiva
signorina? Sei
viva? Come inganni
(meglio per te
non essere più viva!)
la discesa
terribile degli anni?
Oimè! Da che non
giova il tuo belletto
e il cosmetico
già fa mala prova
l'ultimo amante
disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il
piccolo folletto
che donasti d'un
bacio e d'un confetto
dopo vent'anni,
oggi, ti ritrova
in sogno, e
t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino
dell'infanzia pura
forse ho amata te
sola, o creatura,
forse ho amata te
sola! E ti richiamo!
Se leggi questi
versi di richiamo
ritorna a chi
t'aspetta, o creatura!
Vieni. Che
importa se non sei più quella
che mi baciò
quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di
tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato!
Ti rifarò bella
come Carlotta,
come Graziella,
come tutte le
donne del mio sogno!
Il mio sogno è
nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non
amo che le rose
che non colsi.
Non amo che le cose
che potevano
essere e non sono
state... Vedo la
casa, ecco le rose
del bel giardino
di vent'anni or sono!
Oltre le sbarre
il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti
liguri si spazia.
Vieni!
T'accoglierà l'anima sazia.
Fa ch'io riveda
il tuo volto disfatto;
ti bacierò;
rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca
l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come
se a me, per mano,
tu riportassi me
stesso d'allora.
Il bimbo parlerà
con la signora.
Risorgeremo dal
tempo lontano.
Vieni! Sarà come
se a te, per mano,
io riportassi te,
giovine ancora!
(da «La Lettura», giugno 1909)
RINUNZIA
di Angiolo Silvio
Novaro
Entrai dove
l'anima mia
Allo specchio
facevasi bella
Per piacermi, e
le dissi: Sorella
Le tue gioie ove
sono?
I zaffiri e le
turchesi
Che raccogli nei
paesi
Del sogno?
Le perle degli
amori
Che leghi in
rotondi monili
E ridi mente le
infili
E di sùbita luce
le irrori?
Gli argenti e gli
ori
Di allegrezze che
tu senti
Maturare in
felici silenzi?
I pizzi e gli
arazzi de' rari
Lussuosi
vagabondari
Ove ti avvolgi
molle e restia?
Per abbellire gli
altari
Bisogna che in
dono li dia!
Con meditata dolcezza
Di frasi,
Con l'accorata
forza che spezza
I tenaci egoismi,
con quasi
Un riso negli
occhi
Parlai all'anima
mia
E intento rimasi.
Ella tremava nei giunti ginocchi.
Tra pallori
d'agonia
Si storcea
l'aride mani
Singhiozzava: -
Domani!... Domani!... -
E alfine alzò il
viso rasciutto
E disse: Va',
pigliati tutto,
E ciò che dev'essere
sia!
In cima agli altari io deposi
Il fascio dei
beni preziosi
E sperso fuggii
sulla strada
Reciso dall'anima
mia
Recando nei morsi
del vento
L'orrore d'un
cieco sgomento -
Ed ora non so
dove io vada...
Ma ciò che dev'essere sia!
(da «La Lettura», maggio 1916)
VISITAZIONE
di Diego Valeri
Come il dì si
ritrasse, perduto
nel più alto del
cielo,
l'ombra invase
col suo soffio muto
la conca del
lago, verde, di gelo.
Nero il monte,
tutto serrato
nella prigione
della sua mole.
Non c'era che un
cespo rosato
d'oleandri a
ricordare il sole.
Allora stette
d'improvviso
davanti a me
l'angelo triste,
pallido, in veste
bruna d'oliva,
gli occhi colore
delle ametiste.
Dalla nuvola
chiusa dell'ale
traspariva la
luce bianca
delle braccia,
disciolte in grave
abbandono, come
cosa stanca.
- Angelo —
pregavo — guardami in cuore
coi tuoi occhi
d'innocenza:
sento che l'anima
mi muore
se anche tu mi
neghi la salvezza.
Lascia ch'io
ponga nelle tue mani
tutto quello che
ho sofferto:
le paure, i sogni
vani,
la mia sete di
cielo aperto.
Angelo, tu puoi
forse ancora
trarre da tanto
stolto male
qualche piccola
cosa buona
da portar sotto
le tue ale... -
Mi fissava; ma
come assorto
in pensiero di
lontananza,
come dicesse: tu
sei morto,
per i morti non
c'è speranza.
Poi sparì. La
notte spense
anche quel riso
di fiori, quel gelo
dell'acqua;
confuse le immense
solitudini del
monte e del cielo.
Tutto era fermo,
opaco, muto,
nella notte senza
stelle serena.
Io smaniavo,
dentro me caduto,
come nella terra
una cieca vena.
(da «La Lettura»,
giugno 1931)
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