Il primo orologio che mi fu regalato lo ricordo ancora benissimo: era un "Vetta" tutto in metallo, subacqueo, a carica manuale, con le lancette ed i numeri. Avevo compiuto appena dodici anni, e da quando lo misi al polso, quell'oggetto che era, fino a quel momento per me sconosciuto, divenne improvvisamente indispensabile. Da quel giorno non mi stancai mai e poi mai di guardare, ogni tanto o spesso, il mio orologio per sapere l'ora. Lo sostituii dopo molti anni, ma certamente fu quello che mi durò di più e che ancora conservo, sebbene ora non funzioni più. A pensarci bene oggi, quel piccolo oggetto che mi fu donato in quel preciso anno, rappresentò per me la fine di un periodo della vita totalmente spensierato quale è l'infanzia, e l'inizio di una fase più problematica: quella adolescenziale, che comportava anche delle prese di coscienza riguardanti determinati obblighi ed impegni personali, che da quel momento avrei dovuto adempiere da solo; se, in precedenza, non m'importava nulla di quale ora fosse, perché era compito dei miei parenti - e in particolare dei miei genitori - sapere l'orario in cui sarei dovuto andare a scuola o dal medico o chissà dove, da quella data ero diventato solamente io il responsabile delle mie incombenze, poiché avevo sempre con me l'indispensabile strumento che poteva dirmi quanto tempo avevo per recarmi in un luogo, per ritornare a casa, per dormire, per studiare o per divertirmi. Gli orologi, da allora, avrebbero scandito le ore, i giorni, gli anni... tutto il tempo della mia vita.
10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO
VECCHIO OROLOGIO
di Adolfo Bianchi (?-?)
Triste occhio, per le vaste
solitudini silvane
sperduto e i romori
lontani,
che il vento folle a te poi riconduce;
triste occhio dell’antica torre
screpolata e vestita d'erbe gialle,
ermo, dolente, immoto
nelle notturne ombre e nei bagliori
antelucani,
nelle fiamme evanescenti
dei crepuscoli ;
a te né fosche nubi
irte di pioggia e cieli
tersi e tranquilli, né
sole spargente nimbi d’oro e festa,
né la triste sinfonia
del vento turban l’opra taciturna.
Triste, il tuo tristissimo
metro di distruzione
ripeti e gridi
alla Terra, al Mare, al Sole.
Ripeti che il gaudio passa e l’ebrezza
e che la fine giunge
inesorabilmente.
E l'Ora breve precipita,
mentre, dal tuo romitorio
silenzioso, freddo
ne segni il corso e n’odi
l’ansimare sommesso,
e il tuo cuore, in monotono
martellio, rugge, rantola,
si strugge, ed in rintocchi
dolenti muta i suoi singhiozzi
che turban la solitudine e il sonno
e richiamano
alla vita, al duolo e alla tristezza
le genti stanche e le anime dubbiose.
Io li odo, vecchio orologio,
nelle veglie notturne
i tuoi spasimi atroci,
e par ch’ogni tuo grido
sia un occhio fiammante,
che gli spazi squarci
e il cuor dell’Universo.
Io li odo, vecchio orologio,
anche tra il sonno breve
e le bufere e il duro
martirio della vita.
Io li odo sempre e taccio,
triste occhio dell’antica torre
screpolata e vestita d’erbe gialle,
ermo, dolente, immoto
nelle notturne ombre e nei bagliori
antelucani,
nelle fiamme evanescenti
dei crepuscoli...
(da "Preludi", Stab. Tip. del Lauro, Loreto Aprutino 1912, pp. 26-28)
L'OROLOGIO
di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)
Compiango l'assurdo orologio
che lascia cadere e cadere
le inutili ore
su tumuli e croci
finché le ghirlande sprecate
lo avvertono con indulgenza
che palpita fuori del Tempo
la pallida vita dei Morti.
Disincantato, avvilito
e logoro dal vano sforzo
di risvegliare gli assenti,
esala un gemito e tace.
PACE.
(da "Il sole dorme", Rebellato, Cittadella Veneta 1962, p. 35)
L'OROLOGIO A MURO
di Paolo Buzzi (1874-1956)
21 luglio
Suonano l'ore, vibrando,
nella mia casa?
Quasi non m'avvedevo
neppur che battessero...
È notte. E odo
quel coprifuoco interno...
Musica di campana
degli echi domestici
a fiore di parete...
Pure, dà, ad ogni stanza, un'anima...
E aggiunge un palpito al mio solitario cuore...
Ma, come mai
solo ora, m'avvidi
di quella regola sonora che vien dalla muraglia?
Forse che l'uomo del faro e del càssero
avverte la canzone continua del mare?
Strano. Ma questo accade:
che talvolta, nel letargo dei sensi consumati,
squilli il capriccio fonico
d'una Sirena
che viene a galla indi si tuffa
come dei flutti sovra l'altalena.
(da "Il canto quotidiano", "La Prora", Milano 1933, p. 215)
SU UN OROLOGIO
di Giovanni Cena (1870-1917)
Un anno, un giorno, un'ora... Ed anco un anno,
un giorno, un'ora! Il tempo immobil dura.
La lancetta procede con sicura
costanza, senza sosta e senza inganno.
Con ugual legge per gli spazi vanno
gli astri e ciascuno ai prossimi è misura.
Docili intorno ad una Forza oscura
per tutto il tempo ancor graviteranno.
Ma della vita l'indice è la noia
lenta e fra lenti battiti l'ingoia
tosto l'ignoto che ci è tomba e culla.
Pur quando guida il dito dell'Amore
o del Dolore sul quadrante l'ore,
l'attimo è tutto ed una vita è nulla.
(da "Homo", Nuova Antologia, Roma 1907, p. 108)
L'OROLOGIO A PENDOLO
di Tullio Consalvatico (1901-1980)
Il colore del tempo è nelle pietre
calde di sole ed ha quasi un profumo
dorato di cotogne allineate
della zia, sull'antico canterano.
Dalla parete l'orologio batte
nel silenzio e dondola il suo piede
nell'infinito che gli cresce intorno.
Ogni colpo è una foglia luminosa
che si stacca dall'albero del giorno;
nel suo grembo l'abisso lo raccoglie.
(da "Trasparenze", Ceschina, Milano 1966, p. 97)
L'OROLOGIO DEL CORRIDOIO
di Donata Doni (pseud. di Santina Maccarrone, 1912-1972)
L'orologio del corridoio
della clinica
segna ore senza tempo,
senza memoria.
Ore lunghe
di giorni interminabili,
vuoti, inutili, angosciosi.
L'orologio del corridoio
ascolta passi irrequieti,
vede volti distrutti,
enumera attimi eterni.
L'orologio del corridoio
raccoglie segreti penosi,
ansie celate,
noie estenuanti,
dolori incompresi.
Forse soffre con noi
l'orologio del corridoio.
Roma 15 novembre 1971
(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e di Letteratura, Roma 1973, p. 101)
OROLOGIO
di Farfa (pseud. di Vittorio Osvaldo Tommasini, 1879-1964)
neonato di dodici ore
abbracci il tempo con le tue lancette
camminando in tasca
(da FARFA poeta record nazionale futurista", Sabelli, Savona 1970, p. 77)
L'OROLOGIO DEL CUORE
di Gino Gori (1876-1952)
Lette sul bianco e nero
quadrante
degli orologi precisi, meccanici
e freddi,
le ore son tutte uguali,
son tutte grige e insensibili.
Lette nei cieli e nei mari,
nelle avventure solari,
negli occhi di donna e nei fiori
han l'ore diversi colori,
e sfumature e motivi
incancellabili e vivi
nel nostro cuore
per sempre.
Un'ora di rose,
un'ora di nuvole,
un'altra di baci e di lacrime...
E ancora: dall'ora materna
all'ora piena d'attesa,
dall'ora sospesa nell'ombra
come una lampada accesa
all'ora che indugia nell'aria,
rondine solitaria
che non vorrebbe emigrare.
Non le sentiamo suonare
queste ore, né camminare
inesorabili e vane
fra i segni delle meridiane,
ma uscire dalle fontane
come zampilli di vita,
cadere dai firmamenti
come angeli azzurri,
fiorire su bocche di donna,
dentro occhi di bimbi
e prolungarsi nel tempo
per abbracciare una gioia,
per contenere un dolore.
La storia del nostro cuore,
la parte migliore
del nostro destino
è scritta e fissata
sul grande orologio di foglie
di stelle, di gocce, d'incontri
e d'abbandoni e di schianti.
Passa sui luminosi quadranti
della natura
e va dall'ora della bambola
all'ora del primo amore,
dall'ora di tutte le lacrime
all'ora di tutti gli orgogli,
dall'ora veloce del tempo
fiorito
all'ora colore di buio
del riposo infinito.
(da "Il Grande Amore", Bemporad, Firenze 1926, pp. 6-8)
L'OROLOGIO
di Giovanni Lattanzi (1895-?)
Vegli con me: vegli, s’io dormo. Forse
pur quando il freddo m'avrà fatto i polsi
di pietra, tu, per qualche tempo ancora,
seguiterai la tua corsa e vedrai
smascherate le sfingi. Ora il mio cuore
soffre: non soffri tu. Batti: non altro.
Ma la tua voce (oh! la tua voce) è il grande
abisso. Ov'io nell'ansia a quell'abisso
mi affacci, una profonda eco di passi
odo in cadenza, e i secoli in viaggio
dall'eterno all'eterno. Sugli oscuri
eserciti che marciano, bandiere
lacere e scialbe ondeggiano a un ritroso
vento senza mai pace, e sui cavalli
squallidi i capitani alzano indarno
pallide fronti estenuate. In fondo,
sull'orizzonte d'un deserto giallo,
nereggia un'ombra oblunga di corrose
piramidi: sul fondo opposto è un cielo
che inghiotte entro il magnetico silenzio
d'esili stelle i popoli in cammino.
(da «La Donna Italiana», luglio-agosto 1931)
L'OROLOGIO
di Aldo Palazzeschi (pseud. di Aldo Giurlani, 1885-1974)
A una parete della mia stanza da letto
è appeso un orologio vecchio,
uno di quelli della vecchia usanza
colle catene e il peso.
Un tempo lo caricai
tanto per far qualcosa,
non sapendo precisare
se più m'irritasse fermo
o più il suo maledetto andare.
Da tanto e tanto tempo
l'orologio non va più.
Io lo guardavo sempre con ghigno,
tramandogli una fine,
una molto triste fine
a quel ciarliero maligno.
Uomini,
voi tutti portate addosso un orologio,
ma non potete sapere
quanto lui di voi sa,
tutto egli segnerà,
e non ve lo dirà
mai.
Io lo guardavo pensando:
orologio, tutto tu sai di me,
dimmi l'ora ch'io morirò.
Le due?
Le cinque?
Le tre?
Le tre e un minuto, e due minuti?
Dio!
Mi sentivo morire tutti i minuti.
Sopra il vile orologio
le mie ire infuriai,
quanto mi capitò fra le mani gli tirai:
sozzure, sputi, insulti, scarpe, calamai.
Ed egli si fermò.
Si fermò sulle sei.
Mi parve sul momento
d'esserne liberato,
che non battesse più,
che si fosse fermato.
Ma il dì seguente,
giunta quell'ora,
io lo guardai,
e da quella immobilità feroce
compresi che quella
doveva essere l'ora,
inesorabilmente.
Tutti i giorni io doveva
a quell'ora morire?
Quell'ora del tramonto,
o dell'Ave Maria,
prima della notte
o ultima del giorno,
le sei,
ora terribile di tutti gl'incubi miei.
Quell'ora serale
era divenuta giustamente
la mia ora sepolcrale.
Nella disperazione
corsi sull'orologio... e lo sventrai.
Tutto gettai, vetro, lancette,
il suo tagliente meccanismo infernale,
tutto dispersi.
E non si vede ora
che una mostra bucata,
e un pezzo di catena
rimasta ciondoloni
con una ruota attaccata.
Brandelli di quel sozzo ventre
che sbudellai.
Uomini,
che da voi non sapeste nascere,
da voi non saprete neppure morire:
ma vi tenete caro nel seno,
vicino al cuore,
un ordigno che sa la vostra ora,
e non ve la dirà,
tutti i giorni ve la batte sul petto
e non ve n'accorgete.
Io benedico a chi sa l'ora di morire,
e m'inginocchio ai piedi del suicida.
E penso: che aspetto?
Aspetto che ad uno ad uno cadano
tutti i miei bei capelli,
i miei bei denti?
Aspetto che una piaga gialla
sbuchi da qualche parte
ad insozzare la mia pelle bianca,
e l'invada, la ricuopra?
Oh! Com'è bello
morire con un fiore rosso in fronte
La rosa più vermiglia
che si sfoglia... che si sfoglia...
a lato della fronte bianca.
O dalla torre più alta
darsi alla voluttà del vuoto,
dello spazio!
Che sul mondo rimanga
una macchia vermiglia solamente.
E tu che sai quell'ora,
scritta è già sulla tua fronte,
tu,
mantenendo il tuo trotto,
tranquillo la segnerai
e passerai.
Ed io non potrò dire:
era quella,
quella che mi fece tremare ogni dì,
quella che passò inosservata,
quella alla quale non pensai.
No! Io mi faccio una torre sopra il monte,
la più alta del mondo,
su tutti i tuoi minuti
tutti i suoi mattoni,
e vi salgo all'ora mia,
quella scelta da me.
Mi fermo per sentire bene
il battito di tutti gli orologi del mondo,
cuori inutili e vili,
e ti grido:
«orologio, guarda, mi getto!»
E faccio l'atto.
«Ah! Ho sentito uno scatto!
sei stato tu,
tu che hai segnata l'ora già,
hai creduto che fosse quella!
Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!
No, non era quella,
è quella che so io,
sono io che comando,
sono io che darò l'ora a te. Ora!»
Trovar nella mia gola,
far salire dal mio ventre
le più folli, le più oscene risate,
i lazzi più sconci,
i gridi di scherno più acuti,
e farti aspettare
altri cinque minuti.
(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 278-284)
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